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Autore: udeis    07/10/2022    0 recensioni
La storia del destino di un regno e di chi ne è stato artefice e compartecipe.
1. Re -Io, che preferii l'azione a un'immobile sconfitta, misi in moto gli ingranaggi del fato di mia spontanea volontà.
2. Figlia dell'inverno - Nessuno sembrava amare l’inverno, così iniziai a detestarlo anche io perchè mi aveva fatto diversa da tutti gli altri.
3. Strega - I suoi occhi neri come la notte come fuoco consumano il mio animo.
4. Fame - Avevo fame e mi sarei nutrita ad ogni costo.
5. Quello che ho perso - in poche e semplici parole avevano negato il mio sacrificio, non gliel'avrei permesso.
6. Appartengo alla terra - appartengo alla terra e alla terra tornai tra pianti e maledizioni.
7. Il principe che venne da lontano - C’era una volta un principe in cerca di una terra da poter chiamare sua
8. Dea - io ricordo solo le donne che mi videro
Genere: Introspettivo, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Appartengo alla terra

È così da quando ricordo. Sento ogni filo d’erba ogni stella ogni goccia di pioggia. Sento la Dea stessa che vive attraverso ogni cosa, attraverso di me. Non provo nè freddo nè caldo, non mi ferisco nemmeno. Spine e rocce scivolano leggere lontano dalla mia pelle, ogni caduta mi è lieve, le bestie non mi attaccano. Quasi non mangio, eppure le mie forze sono inesauribili. Dormo poche ore a notte, eppure la mia mente è limpida. Appartengo alla terra e al suo ciclo, come ogni cosa, più di ogni cosa. Sono un’iniziata della Dea e il bosco è parte di me, io di lui: non c’è un confine certo tra il fiore che sboccia e la mia mano che lo coglie. So risalire i fiumi come fossero sentieri e non c’è nessuna pista che non posso seguire o percorrere. Nessuno può vedermi se non sono io a volerlo, distinguo ogni filo d’erba, ogni scaglia di corteccia, ogni profumo, ogni insetto fino al più minuscolo. Percepisco ogni singola vita e il suo flusso, so raddrizzarlo se devo, anche se non amo farlo. 

All’inizio, per le anziane, io ero solo una delle altre giovanissime iniziate: più taciturna delle altre, più distratta a volte. Fuggivo spesso, ma riuscivano a ritrovarmi sempre nel giro della giornata. Poi un giorno sentii la Dea chiamare e seguii la sua voce senza esitare. Di lei non ricordo molto a parte una sensazione come di sete saziata e la chiarezza cristallina con cui mi apparivano le cose. Sparii per giorni, dicono, poi tornai. Immaginatevelo: la bambina di cinque anni che avete ormai dato per morta, esce dal bosco dopo settimane e dice di aver parlato con la Dea. La mia pelle luccicava lievemente, ma non mostravo segni di denutrizione, disidratazione o malattia. I piedi scalzi non erano feriti e i vestiti non erano nè sporchi, nè strappati. Non c’erano tracce di pianto sul mio viso, nè sollievo per essere finalmente tornata a casa.

Le vecchie anziane iniziarono a trattarmi quasi con reverenza: tolleravano le mie fughe, i miei ritardi e che superassi perfino le migliori di noi in conoscenze e abilità.  Mi esoneravano dai turni in cucina, mi davano cibo migliore e un giaciglio più comodo. Pretendevano, però, da me la perfezione nelle arti, anche in quelle in cui, bambina, non potevo ancora ambire, quella che si ottiene solo tramite gesti ripetuti ed esperti. Esigevano che fossi seria, che non disobbedissi, che non mi addormentassi durante le veglie e non mangiassi di nascosto durante i digiuni.
Io, invece, seguivo il mio orologio interno, continuando a mangiare quando avevo fame e dormire quando avevo sonno. Preferivo concentrarmi sul canto degli uccelli che sulle parole delle consorelle destinate ad educarci. Poi sparivo per giorni o settimane quando il bosco mi richiamava a sè.
Le arti degli uomini non mi interessavano e le mie compagne si dimostrarono rapidamente molto più brave di me in questo. Sebbene conoscessi perfettamente le erbe e i loro usi ero discontinua nelle attività di cura. Assente nella vita di comunità. Non capivo il senso delle veglie e dei digiuni, sapevo discorrere di teologia quanto un bambino. Non comprendevo il biasimo di alcune sorelle più anziane che si rivolgevano a me con parole d’acciaio; non capivo l’ammirazione di quelle consorelle che mi lasciavano piccoli doni; non capivo il disprezzo di chi mi lanciava sguardi freddi e severi, nè il gesto gentile della compagna che, rapida, migliorava il mio cucito quando la matriarca era distratta.

L’intera congrega per me, era come i sassi per un torrente: una lieve variazione a un flusso destinato ad andare in un’unica direzione: aggirarli prevedeva uno sforzo minore di frantumarli. Per questa ragione non protestai e andai nel mondo, come era tradizione.
Alcune di noi erano curiose, impazienti: pensavano che servire tra la gente fosse il più grande onore possibile. Altre venivano dai villaggi e ricordavano una vita, prima, e avrebbero voluto tornarci. Altre ancora volevano dimostrare chi erano riuscite a diventare ed esercitare potere e influenza sulle persone comuni.
Io mi sentivo come un lupo costretto alla presenza del fuoco: volevo correre nel bosco ma non potevo.

Le persone mi erano sempre state incomprensibili e andare nel posto in cui stavano ammassate non migliorò le cose: rumori e odori mi stordivano, il tocco della gente non era maggiormente benvenuto. Mi chiesero cose che non volevano, mi dissero parole che non pensavano, mi imposero regole che non capivo. C’erano troppe espressioni, troppi gesti, troppi segnali, troppi non detti e segreti che tutti sembravano leggere con l’immediatezza con cui io leggevo la foresta. Per un po’ ci provai a indossare le scarpe, sorridere, parlare, ballare: sembrava l’unico modo per avere sollievo e per poter servire la Dea tra le persone.
Ebbi perfino un uomo, una notte d’estate, sdraiata tra i campi spogli di grano: fu l’istinto a spingermi verso di lui in un breve e furioso amplesso. Non capii perchè, mesi dopo, tornò da me, penitente e in lacrime e mi pregò di perdonarlo. Doveva avere a che fare con il bambino che avevo dentro di me e le voci che le donne per cui preparavo infusi avevano sparso in giro. Quelle stesse donne mi fecero indossare un abito bianco e io e l’uomo ci tenemmo per mano davanti a tanta gente. Erano tutti così felici ed io mi inorgoglii perchè era il mio compito far star bene la comunità e finalmente ci stavo riuscendo, anche se non sapevo bene nè come, nè perchè. Non capii perchè, dopo la festa, dovetti andare a vivere nella casa dell’uomo, abbandonando il mio rifugio ai margini della città. Non compresi perchè lui potesse avermi ogni notte, anche quando a me non importava, anche quando non volevo. Non seppi mai perchè non potevo assentarmi per giorni per seguire le mie faccende o semplicemente camminare nel bosco. Nessuno mi spiegò chiaramente perchè dovessi essere io a cucinare i suoi pasti e a lavare i suoi vestiti, quando normalmente lavavo la tunica, nella pioggia, e mangiavo quello che il bosco mi offriva. Mi lasciò completamente perplessa la sua furia nel vedermi tornare a casa, un mattino, con cacciagione fresca nella mia bisaccia. 

Perchè l’uomo voleva  che restassi prigioniera nella sua casa, se non gli andavo bene come compagna? Non è così che funziona tra gli animali, non è così che funziona la natura. Il cucciolo, poi, non era ancora nato, che senso aveva preparare la tana prima del tempo?

Ero sempre appartenuta alla terra parte di una coralità, di un disegno, di un tutto. Scoprii l’individualità, scoprii l’appartenenza, scoprii la lontananza e la solitudine. Non mi sentivo più parte di niente, nè degli uomini nè della natura: il canto delle stagioni si era attutito e non potevo più ritirarmi nella foresta per sfuggire alla confusione perchè le foglie, la corteccia e i sassi mi avevano preso a sembrarmi tutte uguali. Questo mi feriva più di quanto riuscissi ad esprimere. Avevo bisogno di dormire di più, avevo bisogno di un posto caldo e di cibo nutriente: avevo paura e mi dimenavo come una volpe in una tagliola.

Appartengo alla terra e ci tornai, lasciandomi dietro urla pianti e maledizioni una volta data alla luce la mia bambina, accovacciata nella terra umida dei campi appena arati.










Note: mi hanno fatto notare che è sempre più difficile capire di chi sto scrivendo e cosa c'entra con i personaggi precedenti perciò farò un breve riassunto chiarificatore. La regina sacerdotessa protagonista di "quello che ho perso" è sia la madre della principessa di "fame" (che è la gemella reintrodotta a corte) e sia della sacerdotessa di questa ultima oneshot (la gemella data via al culto della Dea). A sua volta la principessa di "fame" è la madre del re. Avrei dovuto sottolinearlo di più immagino, ma il re dice di ispirarsi a una madre che ciba i più sfortunati e un padre che è spesso in guerra e speravo bastasse; lui, comunque, non ha mai saputo che non erano gesti dettati dal puro dall'altruismo. La gemella di "appartengo alla terra" può e non può (lo lascio decidere a voi) essere la madre della strega di "strega", il che farebbe di lei la cugina del re e della figlia dell'inverno la cugina di secondo grado. Spero sia più chiaro ora.
  
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