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Autore: Josy_98    11/10/2022    0 recensioni
Quando Chirone la costrinse ad iscriversi alla Yancy Academy per aiutarlo a tenere d'occhio un probabile mezzosangue particolarmente potente, Avalon sapeva già che fosse una pessima idea. Ne era certa. E glielo disse, convinta più che mai che fosse una mossa totalmente sbagliata e che tutto sarebbe cambiato. Non necessariamente in meglio.
Da anni, infatti, tentava in tutti i modi di restare nell'ombra, lasciando ad altri il compito di occuparsi dei problemi divini, far avverare profezie e compiere imprese, limitandosi ad osservare il tempo scorrere senza interferire e rimanendo in disparte nonostante i diversi tentativi degli altri - mortali e divini - di coinvolgerla in ogni modo.
Purtroppo, però, quella volta non riuscì a restarne fuori come avrebbe voluto.
E, quando le cose si complicheranno, Avalon tenterà in tutti i modi di non distruggere quell'intricato lavoro che ha portato avanti in quegli anni, cercando inevitabilmente di salvare quel flebile e incerto futuro in cui lui sopravvive. Con la paura di non riuscirci.
Perchè, Avalon lo sapeva, lei aveva sempre ragione. Finchè non prendeva una decisione.
|Riscritta!|
|Allerta Spoiler!!|
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Luke Castellan, Nuovo personaggio, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il dio della guerra ci stava aspettando nel parcheggio del ristorante.
«Bene, bene.» esordì. «Non ti sei fatto ammazzare.»
«Sapeva che era una trappola.» replicò Percy.
Ares gli rivolse un ghigno malvagio. «Scommetto che il fabbro zoppo c'è rimasto male quando si è trovato nella rete un paio di stupidi ragazzini. Siete venuti bene, in tv.»
Percy gli passò lo scudo. «Lei è un idiota.»
Annabeth e Grover trattennero il fiato, io soffocai una risata.
Ares afferrò lo scudo e lo fece roteare in aria come l'impasto di una pizza. Lo scudo cambiò forma, plasmandosi in un giubbotto antiproiettile che il dio si gettò sulle spalle.
«Vedete quel Tir laggiù?» indicò un grosso autotreno parcheggiato dall'altra parte della strada. «È il vostro passaggio. Vi porterà dritti a Los Angeles, con un'unica fermata a Las Vegas.»
L'autotreno aveva una scritta sul retro che riuscivo a leggere solo perché era stampata a lettere bianche su sfondo nero, una buona combinazione per la dislessia: BUONCUORE INTERNATIONAL: IL TRASPORTO ZOOLOGICO CHE RISPETTA GLI ANIMALI. ATTENZIONE: ANIMALI SELVATICI.
«Sta scherzando.»
Ares schioccò le dita e la porta posteriore del Tir si aprì. «Passaggio gratis per l'Ovest, pivello. Piantala di lamentarti. Ed ecco qualcosina per ringraziarti del lavoretto.»
Sganciò uno zaino blu dal manubrio e glielo lanciò. Dentro c'erano dei vestiti puliti per tutti, venti dollari in contanti, un sacchetto pieno di dracme d'oro e un pacco di biscotti al cioccolato.
«I biscotti sono per Avalon.» aggiunse, osservandomi. «Devi decisamente mangiare di più.»
«Non voglio la sua pidocchiosa...» cominciò il Mollusco.
«Grazie, Divino Ares.» lo interruppe Grover, scoccandogli la sua occhiata da allarme rosso. «Grazie mille.»
Percy si infilò lo zaino in spalla, riluttante.
«Grazie, Cinghiale.» alzai gli occhi al cielo. «Ma non aspettarti che ti perdoni per questo tiro mancino che mi hai rifilato. Resti comunque un imbecille.»
Percy, che si era voltato a osservare il ristorante, si girò di scatto verso di noi, sorpreso da quello che avevo appena detto. Ci fissava con gli occhi spalancati, passando lo sguardo da me ad Ares e viceversa. Il dio sogghignò verso di me, le due pozze nucleari che brillavano dietro le lenti degli occhiali da sole.
«Non c’è di che, ragazzina.» scrollò le spalle. «So quanto ti piacciono i dolci, dopotutto.»
Sospirai. Era vero. Ormai tutti sapevano che i dolci erano il mio punto debole. Non ero il tipo che si faceva corrompere facilmente – mai in realtà – ma se mi avessero offerto un qualsiasi tipo di dolce, io lo avrei preso e me lo sarei intascato senza dare niente in cambio. La mia golosità non aveva limiti, era risaputo.
«Ruffiano.» mormorai, facendolo sogghignare ancora di più.
«Mi deve ancora una cosa.» disse Percy ad Ares. «Mi ha promesso delle informazioni su mia madre.»
«Sicuro di reggere?» il dio mise in moto, lanciandomi uno sguardo penetrante prima di sganciare la bomba. «Non è morta.»
«Che vuole dire?» il Mollusco era senza parole, incredulo.
«Voglio dire che è stata sottratta al Minotauro prima che potesse morire. Si è trasformata in una pioggia d'oro, giusto? Questa è metamorfosi. Non è morte. È tenuta prigioniera.» fece una pausa. «La tua amica lo sapeva, ovviamente.»
«Prigioniera? Perché?» Percy ignorò l’ultima frase.
«Devi studiare l'arte della guerra, pivello. Ostaggi. Prendi qualcuno per controllare qualcun altro.»
«Non mi sta controllando nessuno.»
Il dio scoppiò a ridere. «Ah, sì? Ci vediamo, ragazzino.»
Il Mollusco serrò pugni. «Fa un po' troppo lo sbruffone, per uno che scappa dalle statuine di Cupido.»
Dietro gli occhiali da sole di Ares, il fuoco brillò. Sentii un vento caldo fra i capelli, e seppi esattamente cosa significava. «Ci incontreremo di nuovo, Percy Jackson. La prossima volta che fai a botte con qualcuno, guardati le spalle.»
Mi salutò con una mano, mandò su di giri la Harley, poi si allontanò rombando lungo Delancy Street.
Annabeth disse: «Non è stata una mossa intelligente, Percy.»
«Chi se ne importa.»
«Nessuno ci tiene a inimicarsi un dio. Soprattutto quel dio.»
«Arriverà il giorno in cui te ne pentirai…» aggiunsi a bassa voce.
«Ehi, ragazzi.» fece Grover, prima che uno dei due potesse replicare. «Detesto interrompervi, ma...»
Indicò il ristorante. Alla cassa, gli ultimi due clienti stavano pagando il conto: due uomini vestiti con identiche tute nere, con un logo bianco sulla schiena uguale a quello sul Tir della Buoncuore International.
«Se vogliamo prendere l'espresso zoologico» disse Grover «dobbiamo affrettarci.»
Attraversammo la strada di corsa e salimmo sul retro del grosso autotreno, chiudendoci le porte alle spalle.
La prima cosa che mi colpì fu l'odore. Mi ricordava la stalla dei pegasi il giorno delle pulizie, quando bisognava togliere i loro profumatissimi ricordini.
All'interno era buio finché Percy non tolse il cappuccio di Anaklusmos. La lama gettò una debole luce bronzea su una scena molto triste. Accovacciati in una fila di sudice gabbie di metallo, c'erano tre dei più patetici animali dello zoo che avessi mai contemplato: una zebra, un leone albino e una strana specie di antilope di cui non ricordavo il nome.
Qualcuno aveva gettato al leone un sacco di rape, che ovviamente l'animale non aveva voglia di mangiare. La zebra e l'antilope avevano ricevuto un vassoio di carne macinata a testa. La criniera della zebra era imbrattata di gomma da masticare, come se qualcuno si fosse divertito a sputarci sopra. L'antilope aveva uno stupido palloncino argentato di compleanno legato a una delle corna, con su scritto AUGURI, VECCHIA CARRIOLA!
Che schifo.
A quanto pareva, nessuno si era azzardato a molestare il leone – bisognava avvicinarsi troppo – ma la povera bestia si aggirava irrequieta sopra delle coperte sporche, in uno spazio decisamente troppo piccolo per lei, ansimando per il caldo soffocante dell'autotreno. Gli occhi rosa erano tormentati dalle mosche, mentre dalla pelliccia bianca si intravedevano le costole. Poveretto.
«E questo sarebbe buon cuore?» esclamò Grover. «Un trasporto zoologico che rispetta gli animali?»
Probabilmente si sarebbe precipitato fuori a malmenare i camionisti con il flauto, e io mi sarei goduta la scena, ma proprio in quell'istante il motore del Tir si mise in azione, l'autotreno cominciò a muoversi e noi fummo costretti a sederci.
Ci stipammo in un angolo sopra dei sacchi di foraggio ammuffito, cercando di ignorare l'odore, il caldo e le mosche. Grover parlò con gli animali in una serie di belati caprini, ma loro si limitarono a fissarlo mestamente. Annabeth propose di forzare la serratura delle gabbie e liberarli, ma Percy le fece notare che non sarebbe servito a molto finché il Tir non si fermava.
Trovai una tanica d'acqua e mi feci aiutare dagli altri a riempire le ciotole, poi usai la mia frusta per trascinare fuori dalle gabbie i pasti scambiati, mentre Percy illuminava l’ambiente con Anaklusmos. Diedi la carne al leone e le rape alla zebra e all'antilope.
Grover calmò l'antilope, mentre Annabeth tagliava col coltello il palloncino che le avevano attaccato al corno. Avrebbe voluto grattare via anche la gomma dalla criniera della zebra, ma decidemmo che sarebbe stato troppo rischioso a causa dei movimenti bruschi del Tir. Dicemmo a Grover di promettere agli animali che li avremmo aiutati di più la mattina dopo, e ci sistemammo per la notte.
Grover si raggomitolò su un sacco di rape. Io aprii il pacco di biscotti e ne mangiai un paio; li offrii ad Annabeth, che ne prese uno. Percy rimase in silenzio, immerso nei suoi pensieri.
Io non ero messa meglio, sinceramente. Mi voltai verso il leone albino, dando le spalle ai miei amici, e cercai di prendere sonno. Senza successo.
«Ehi, Percy.» disse Annabeth «Scusa se ho dato di matto giù al parco.»
«Non c'è problema.»
«È solo che...» la sentii rabbrividire sulla mia schiena, che era a contatto con il suo fianco. «I ragni.»
«Per via della storia di Aracne.» capì lui. «È stata trasformata in ragno per aver sfidato tua madre in una gara di tessitura, giusto?»
Annabeth annuì. «I figli di Aracne si vendicano sui figli di Atena da allora. Se c'è un ragno nel giro di un chilometro di distanza da dove sono io, stai sicuro che riuscirà a trovarmi. Odio quelle bestiacce formicolanti.»
«Avalon lo sapeva.» replicò Percy. «Per questo ti ha detto di restare con Grover. Sapeva che avremmo incontrato i ragni.»
Lei scosse la testa. «È più probabile che non ne fosse completamente certa, ma che sapesse che c’era il rischio che quella scena si avverasse. In ogni caso, vi sono debitrice.»
«Siamo una squadra, ricordi?» ribattè lui. «E poi, è stato Grover a fare il volo acrobatico.»
«Sono stato grande, eh?» borbottò il satiro, dall’angolo in cui si era rannicchiato.
Annie e Percy si misero a ridere di gusto, e persino io sorrisi.
Lei spezzò un biscotto e me ne passò metà. «Nel messaggio di Iride, Luke non ha detto davvero nulla?»
Ripensai a quella conversazione, e un velo di tristezza mi avvolse. Avevo fatto di tutto per non pensarci, ma con scarsi risultati. Non riuscivo a togliermela dalla testa. Né a rimuovere i ricordi che mi aveva scaraventato prepotentemente nella mente.
«Luke ha detto che siete amici di lunga data. Ha detto anche che Grover stavolta non avrebbe fallito. E che nessuno sarebbe stato trasformato in pino.» sospirò. «Poi Avalon lo ha interrotto, e lui l’ha guardata come se fosse appena stato fulminato. Ha detto che non aveva mai pensato che fosse stata colpa sua, che lei doveva smettere di pensare di essere “qualcosa”. Il collegamento si è interrotto prima che finisse la frase.»
Man mano che raccontava quello che era successo io mi ero irrigidita sempre di più, tant’è che Annabeth aveva appoggiato una mano sulla mia schiena e la muoveva piano, nel tentativo di farmi rilassare. Aveva capito che non stavo dormento e aveva colto perfettamente la mia agitazione.
Grover emise un belato afflitto.
«Avrei dovuto dirti la verità fin dall'inizio.» gli tremava la voce. «Ma pensavo che se tu avessi saputo che frana sono, non mi avresti voluto con te.»
«Sei tu il satiro che ha cercato di salvare Talia, la figlia di Zeus?» intuì Percy.
Lui annuì cupamente, senza voltarsi.
«E gli altri due mezzosangue con cui Talia aveva fatto amicizia, quelli che sono arrivati sani e salvi al campo... eravate tu e Luke, non è vero Annabeth?»
Lei smise per un attimo di accarezzarmi la schiena, poi riprese. «Come hai detto tu, Percy, una mezzosangue di sette anni non sarebbe mai arrivata molto lontano da sola. Talia aveva dodici anni. Luke quattordici. Sono stati contenti di prendermi con loro. Erano straordinari contro i mostri, perfino senza allenamento. Siamo partiti dalla Virginia senza un vero piano, dirigendoci a nord e respingendo gli attacchi dei mostri per un paio di settimane prima che Grover ci trovasse.»
«Il mio compito era quello di scortare Talia al campo.» spiegò lui, tirando su col naso. «Solo Talia. Avevo ricevuto degli ordini precisi da Chirone: non dovevo fare niente che potesse rallentare il salvataggio. Sapevamo che Ade dava la caccia a lei, solo che non potevo lasciare Luke e Annabeth a se stessi. Pensai... pensai che avrei potuto portarli tutti e tre in salvo. È stata colpa mia se le Benevole ci hanno raggiunto. Mi sono spaventato sulla strada del ritorno e ogni tanto ho sbagliato direzione. Se solo fossi stato un po' più veloce...»
«Smettila.» lo interruppe Annabeth. «Nessuno pensa che sia colpa tua. Nemmeno Talia lo pensava.»
«Si è sacrificata per salvare noi.» continuò lui in tono afflitto. «La sua morte è stata colpa mia. Il Consiglio dei Satiri Anziani ha detto così.»
«Perché non hai voluto abbandonare altri due mezzosangue?» intervenne il Mollusco. «Non è giusto.»
«Percy ha ragione.» approvò Annabeth. «Oggi non sarei qui se non fosse stato per te, Grover. E nemmeno Luke. Non ci importa di quello che dice il Consiglio.»
Non resistetti più.
«Il Consiglio è un branco di idioti.» commentai senza muovermi, gli occhi fissi in quelli del leone albino. «E anche tu lo sei, se gli dai ascolto.»
«Avie!» protestò Annabeth, togliendo la mano dalla mia schiena.
«No, Annie.» la fermai. «Ho ragione, e lo sai. Così come sappiamo tutti di chi sia la colpa di ciò che successe quella notte. Non di Grover, o tua, o di chiunque altro. È stata mia. Mia e di nessun altro.»
«Che cosa intendi?» mi chiese Percy.
Sospirai, voltandomi verso di loro e trovandoli intenti a guardarmi. Percy sembrava pensieroso, come se stesse mettendo insieme i pezzi delle informazioni che gli avevamo dato da quando ci eravamo conosciuti. Annabeth e Grover, ancora nel suo angolo ma ora rivolto verso di noi, mi osservavano con pena e sofferenza.
«Intendo che sono stata io a dire a Grover cosa sarebbe successo. Sono stata io a metterlo in guardia, a spiegargli nel dettaglio cosa fare. Sono stata io a intervenire e ho cambiato il futuro. Quello che avevo visto, che sapevo si stesse avverando, era un futuro diverso da quello che, poi, è successo.» spiegai. «Sapevo che Grover li avrebbe trovati, che avrebbero proseguito il viaggio insieme e che, alla fine, Talia, Luke e Annabeth avrebbero subito delle grosse ferite, anche se forse non fatali, che li avrebbero rallentati parecchio. Volevo impedirlo. Volevo proteggerli.» feci una smorfia. «E il risultato è stato più che evidente. Luke e Annabeth sono arrivati al Campo. Talia no. Grover aveva fatto un ottimo lavoro, ma sono stata io a rovinare tutto. Se non mi fossi intromessa, se non avessi cercato in tutti i modi di cambiare le cose…» scossi la testa. «Talia sarebbe ancora qui. Grover è un grande satiro, ma non riesce a vederlo. Io, invece, sono solo un pericolo per chiunque abbia intorno. Anche per quelli che non mi conoscono.»
Grover continuò a tirare su col naso nel buio. «La mia solita fortuna. Sono il satiro più incapace che si sia mai visto e trovo i due mezzosangue più potenti del secolo: Talia e Percy.»
«Tu non sei incapace.» insistette Annabeth. «Hai più coraggio di qualsiasi satiro abbia mai conosciuto. Fammi il nome di un altro satiro che avrebbe il fegato di scendere negli Inferi. Scommetto che Percy è felicissimo di averti qui.» gli rifilò un calcio in uno stinco.
«Sicuro.» confermò lui, lanciandole un’occhiata infastidita. «Non è una questione di fortuna se hai trovato me e Talia, Grover. Hai il cuore più grande di qualsiasi satiro che si sia mai visto. Sei un cercatore nato. Ecco perché sarai tu a trovare Pan.»
Sentii un respiro profondo e soddisfatto. Attesi che Grover dicesse qualcosa, ma il suo respiro diventò solo più pesante. Quando il suono si trasformò in un lento russare, capii che si era addormentato.
«Ma come fa?» chiese Percy.
«Non lo so.» rispose Annabeth. «Ma tu gli hai detto una cosa davvero bella.»
«Lo penso veramente.»
Io sorrisi, inconsapevolmente.
Se tutto andava come speravo, Percy avrebbe avuto ragione da vendere.
Viaggiammo in silenzio per qualche chilometro, sballottati sui sacchi di foraggio. La zebra masticava una rapa. Il leone si leccava i resti della carne macinata dal muso e mi guardava speranzoso. Non sapevo perché, ma avevo la sensazione che volesse dirmi qualcosa. Cosa, poi, non ne avevo idea.
Mi ero nuovamente voltata verso di lui, sperando di cadere tra le braccia di Morfeo, ma quel dannato dio dei sogni non ne voleva sapere di venire a farmi una visitina.
«La perla con il pino.» la voce di Percy interruppe le mie elucubrazioni. «È quella del tuo primo anno?»
«Sì.» rispose Annabeth. «Ogni agosto, i capigruppo scelgono l'evento più importante dell'estate e lo dipingono sulla perla dell'anno. Io ho il pino di Talia, una trireme greca in fiamme, un centauro in abito da sera... beh, quella è stata un'estate davvero strana...»
«E invece l'anello è di tuo padre?»
«Non sono affari...» si interruppe, e io mi trattenni dal tirarle un calcio. «Sì. Sì, è di mio padre.»
«Non sei obbligata a dirmelo.»
«No, non c'è problema.» fece un sospiro. «Mio padre me l'ha mandato in una lettera, due estati fa. L'anello era, ecco... il pegno più importante che aveva ricevuto da Atena. Non sarebbe riuscito a superare il dottorato a Harvard senza di lei. Ma questa è una lunga storia. Comunque, lui voleva che lo tenessi io. Si è scusato per essersi comportato come un idiota, ha detto che mi voleva bene e che gli mancavo. Voleva che tornassi a casa a vivere con lui.»
«Non mi sembra tanto male.»
«Già, beh... il problema è che gli ho creduto. Ho fatto un tentativo: sono andata a casa per l'anno scolastico, ma la mia matrigna non era cambiata. Non voleva mettere in pericolo i suoi figli facendoli vivere con una svitata. I mostri hanno attaccato. Abbiamo litigato. Non sono arrivata nemmeno alle vacanze di Natale. Ho chiamato Chirone e sono tornata subito al Campo Mezzosangue.»
«Pensi mai di riprovarci?»
«Ti prego. Non sono masochista.»
«Non dovresti arrenderti.» le disse Percy. «Dovresti scrivergli una lettera.»
«Grazie per il consiglio» replicò freddamente «ma mio padre ha già scelto con chi vuole vivere.»
Trascorremmo qualche altro chilometro in silenzio.
«Così se gli dei entreranno in guerra» disse Percy «si schiereranno come per Troia? Atena contro Poseidone?»
Lei si voltò verso di me e poggiò la testa sullo zaino che ci aveva dato Ares, avvolgendomi in un abbraccio. «Non so cosa farà mia madre. Ma so che io combatterò al tuo fianco.»
«Perché?»
«Perché sei mio amico, Testa d'Alghe. Hai altre domande stupide?»
Lui non rispose e, quando Annie si fu addormentata, sospirai.
«Sii grato della sua amicizia, Percy.» dissi senza muovermi per paura di svegliarla. «Non la concede a chiunque.»
«A te sì.» osservò.
«Già…» mormorai, carezzandole il braccio. «E so di non meritarmelo.»
«Senti…» cominciò lui. «Posso farti una domanda?»
«Vuoi sapere se è per quello che è successo a Talia che non parlo più del futuro?» lo anticipai. «Sì, è per quello.»
«Ma non è colpa tua.» mi disse. «Non potevi sapere che sarebbe successo.»
«Ma sapevo come sarebbero andate le cose se non mi fossi intromessa.» risposi. «Io volevo modificare in meglio il futuro che conoscevo, ma ho finito solo per peggiorarlo.»
«Ma eri solo una bambina.» protestò lui. «Non potevi…»
«Non capisci.» scossi lentamente la testa. «È colpa mia, Percy. È colpa mia se Talia, ora è un pino. È colpa mia se Luke e Annabeth hanno sofferto tanto. È colpa mia se Grover si crede un completo fallimento.» spiegai, a fatica. «Perché se io me ne fossi stata zitta, se avessi solamente osservato, Talia sarebbe sopravvissuta, Luke e Annabeth non avrebbero pianto la perdita della loro quasi sorella e Grover avrebbe la sua licenza da cercatore da cinque anni. È colpa mia se…» sospirai, chiudendo gli occhi per impedirmi di piangere. Non sarei mai riuscita a completare quella frase ad alta voce. La lasciai torturarmi dall’interno, come faceva sotto forma di pensiero da ben quattro anni. «Perciò non cercare di giustificarmi, Percy. Sei mio amico, e lo accetto. Ma resta comunque colpa mia.»
«Non trovo giusto che tu ti rinchiuda in te stessa, per questo.» disse lui, dopo un po’. «Luke, Annabeth e Grover non sono gli unici a soffrire per questa storia. Anche tu ci stai male.»
«Sì, è vero. Ma la differenza è che io me lo merito. Loro no.»
Perché tutto quello che era successo da quel momento era colpa mia, conseguenze di ciò che avevo fatto, anche se nessuno lo sapeva.
 

****

 
Mi accorsi di essermi addormentata quando mi ritrovai sulla Collina Mezzosangue senza sapere come ci ero arrivata. Davanti a me si stendeva la vallata in tutta la sua magnificenza, la Cabina di Artemide che brillava sotto la luce della luna, e il silenzio della notte che impregnava ogni angolo, persino il bosco pieno di mostri.
Dietro di me sentivo la presenza del pino di Talia ma, dopo la conversazione avuta da sveglia, non avevo il coraggio di voltarmi e osservarlo. Così rimasi ferma a guardare casa mia immersa nel sonno, pregando gli dei che tutti stessero bene.
«Beh?»
Sobbalzai.
«Pensi di guardarmi, prima o poi?»
Mi voltai di scatto e non credetti ai miei occhi. Non era possibile che fosse lì, davanti a me. Non lei. Non nel futuro che avevo involontariamente creato. Non in quel tempo.
Appoggiata con la schiena al pino, una ragazza all’incirca della mia età con le lentiggini sul naso, occhi verdi tempestosi contornati da eyeliner pesante, i capelli neri spettinati e un abbigliamento da punk mi fissava con le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate, indispettita. Fulmini azzurrini passarono nelle sue iridi quando le incrociai con le mie, e un bruciore sordo mi perforò il fianco destro, lì dove sapevo ci fosse il suo nome.
Talia, figlia di Zeus, era proprio davanti a me. Ed era identica all’ultima volta che l’avevo vista, e l’unica in cui l’avevo incontrata dal vivo. Il giorno in cui arrivarono al Campo. Il giorno della sua morte.
Feci un paio di passi indietro, colta completamente alla sprovvista, e quasi rotolai giù per la collina.
«Lia…» mormorai.
«Finalmente ti conosco.» asserì lei. «A forza di sentirti parlare tutti i giorni, mi stavo chiedendo che faccia avessi.»
«Io… che?» la fissai, stranita.
«Grazie, a proposito.» continuò lei, come se non avessi aperto bocca.
«Per cosa?» domandai, senza capire.
Lei scrollò le spalle. «Perché mi tieni compagnia quasi tutti i giorni. Non potersi muovere è una vera rottura.»
«Io…» mormorai, sempre più confusa. «Non credo di aver…»
«Tu mi parli.» mi bloccò Talia. «E io ti ascolto. Sempre.»
Strabuzzai gli occhi.
Non era possibile!
Sì, certo. Quando ero al campo, prima di tutta quella storia di Percy, andavo al pino almeno una volta al giorno, mi sedevo con la schiena appoggiata al suo tronco e mi mettevo a parlare come se potesse davvero ascoltarmi. Ma non avrei mai pensato che Talia mi sentisse. Beh, effettivamente non avrei dovuto esserne così stupita. Soprattutto considerando…
Scossi la testa. Al momento quello non era un dettaglio rilevante. E di sicuro non ne avrei parlato con lei.
La vidi sciogliere le braccia e sospirare pesantemente, spostando lo sguardo fino al mare alle mie spalle, su cui si riflettevano le stelle.
«Ti ho sentita» disse, il tono improvvisamente basso «quel giorno. Ti ho sentita urlare il mio nome come nessuno aveva mai fatto prima. Hai gridato “Lia!” con così tanta disperazione che mi è rimasto dentro. Sembrava che qualcuno ti stesse uccidendo.»
«Ma non ero io che stavo morendo.» mormorai, a disagio.
«Lo so.» Talia riportò lo sguardo su di me, e io mi stupii nel trovarli privi di accusa. Erano limpidi, sereni quasi. E comprensivi. «Tienili d’occhio per me, ok?»
La notte mi inghiottì, e io mi ritrovai nuovamente nella caverna buia piena di spiriti dei morti, sul margine della voragine senza fondo.
«…I nostri sei mesi ci hanno fruttato molto. La rabbia di Zeus è cresciuta. Poseidone si è giocato la carta della disperazione. Ora la useremo contro di lui. Ben presto avrai la ricompensa che desideri, e la tua vendetta. Non appena i due oggetti saranno nelle mie mani... ma aspetta. Il ragazzo è qui.» stava dicendo la creatura nel baratro.
«Cosa?» gli rispose una voce nascosta. Una voce che io conoscevo fin troppo bene. «L'ha convocato lei, mio signore?»
«No.» quell’essere adesso stava riversando su qualcun altro la forza della sua attenzione. Qualcuno che compresi essere Percy. «Maledetto il sangue di suo padre: è troppo mutevole, troppo imprevedibile. Il ragazzo è riuscito a trasportarsi quaggiù.»
«Impossibile!» gridò il servo, mentre una morsa mi stritolava l’anima sempre di più.
«Per uno smidollato come te, forse.» ringhiò la voce. Per un istante la sua gelida potenza si concentrò su di lui, poi tornò a rivolgersi a Percy. «Allora... vuoi sognare la tua impresa, giovane mezzosangue? Ti accontenterò.»
Sentii una presenza svanire, e capii che Percy era stato trasportato altrove attraverso i sogni.
«Dove lo ha mandato, mio signore?» domandò la voce.
«Non ha importanza.»
«Cosa intende fare, adesso? Se posso saperlo, ovviamente.»
«Aspettare.» rispose l’essere del baratro. «Vedrai che tutto andrà come deve. E presto i due oggetti saranno nelle mie mani. Arrivato quel momento, tu avrai finalmente ciò che vuoi e la ragazza…»
«Ha promesso che non le verrà fatto alcun male, mio signore.» disse la voce, interrompendolo.
«Silenzio!»
«Chiedo scusa.» mormorò la voce, tremante.
«Sì… ti ho detto che l’avrei risparmiata. Ma solo se si renderà utile.»
«S-sono certo che lo farà… mio signore.» disse la voce.
«Un potere come il suo ci renderebbe tutto molto più semplice.» osservò l’essere, meditabondo. «Ma bisogna fare attenzione. Se scoprisse cosa…»
Silenzio.
Un pesante silenzio si fece largo nella caverna e una fastidiosa sensazione di oppressione mi invase.
«Ben arrivata, piccola bussola.» disse l’essere.
Mi ci volle qualche secondo per capire che si stava riferendo a me. Adesso si spiegava quella gelida sensazione che sentivo, per lo meno. Avvertivo i suoi occhi scrutarmi a fondo, come se cercasse di leggermi dentro. Non dissi una parola.
«Non posso lasciarti tornare proprio adesso.» continuò, la voce soporifera tutta concentrata su di me. «Impediresti il proseguimento del mio piano. Non posso permetterlo.»
«Ma… mio signore…» disse la voce. «Lei non può stare qui. Ricordate che lo avete promesso…»
«Non la ucciderò. Va contro i miei interessi.» affermò l’essere. «Ma non lascerò che li avverta.»
«E… e cosa ha intenzione di fare, allora?»
«La terrò impegnata per un po’.» rispose. «Le mostrerò ciò che non ha il coraggio di vedere. Il futuro che la aspetta.»
Una risata agghiacciante invase la caverna, la pressione sulla mia anima si fece insostenibile.
Urlai.
Decine e decine di immagini invasero la mia mente, centinaia di sensazioni percorsero il mio corpo, migliaia di emozioni devastarono la mia anima.
Non riuscivo a smettere di urlare.
Troppo dolore, troppo sangue, troppa guerra, troppo male.
In quelle scene c’era fin troppa disperazione da sopportare.
E sapevo che sarebbero potute avverarsi davvero. Per quanto non volessi, ciò che vedevo in quel momento sarebbe potuto essere il nostro futuro. Un futuro in cui le strade erano fatte di corpi e i fiumi di sangue.
Un futuro in cui l’odio e la paura regnavano incontrastati.
Un futuro in cui nessuno di coloro che amavo era sopravvissuto.
E io sì.
Non seppi spiegarmelo ma, per la prima volta, riuscivo davvero a vedermi in mezzo a tutto quell’orrore. Incatenata ai piedi di un trono che non avevo mai visto di persona, osservavo impotente la distruzione del mondo che amavo. Cercavo di non ascoltare le grida di dolore delle persone che venivano torturate sotto il mio sguardo, trattenevo il respiro per evitare di inalare quell’odore di cenere, sangue e morte che ricopriva il mondo.
Ero l’ombra di me stessa e, se non mi avessi vista piangere, avrei potuto tranquillamente scambiarmi per un altro cadavere per quanto fossi messa male. Il corpo talmente scavato da rendere visibile ogni singolo osso, la pelle così pallida da essere praticamente trasparente. E i capelli… non sembravano nemmeno più tali.
Avrei voluto correre verso quella me del futuro e liberarla, avrei voluto oppormi a quelle visioni e ricacciarle in un angolo della mia mente. Avrei voluto fare tante cose, ma in realtà rimasi ferma. Immobile. Paralizzata. Non riuscivo a schiodarmi dalla posizione in cui quell’essere mi aveva intrappolata. Non riuscivo a scacciare quelle immagini. Mi stavo facendo trascinare sempre più giù nel baratro della disperazione. Tutto quello che conoscevo stava svanendo dalla mia memoria, tutto ciò che sapevo stava venendo dimenticato. E io non ero in grado di impedirlo.
Rimasi lì, a sprofondare sempre di più nel dolore e nella sofferenza, nella mancanza e nella dimenticanza, nella morte e nella devastazione. Rimasi lì, lasciando che presente e futuro si fondessero dentro e intorno a me, per un tempo infinito.
Poi, un calore.
Qualcosa mi stava scaldando. Ma non avevo idea di che cosa fosse.
Qualcosa stava cercando di tenermi in vita. Ma non sapevo perché.
Qualcosa mi stava richiamando a sé. Ma io non sapevo se volevo andarmene.
Ormai il mio mondo era fatto solo di sangue, morte e disperazione. Non ricordavo nient’altro.
Un lampo mi invase la visuale.
Era stato per meno di un secondo, ma un bagliore che sapeva di vita mi aveva tolto quelle immagini dagli occhi.
Per un attimo credetti che fosse l’ennesima frusta infuocata che si abbatteva sul corpo di una nuova vittima.
Il calore si fece più intenso.
Un punto appena sotto il costato bruciò così intensamente da farmi spalancare gli occhi, facendomi scoprire di averli chiusi senza rendermene conto.
Mi ritrovai rannicchiata ai piedi di un albero su uno strapiombo, una distesa infinita di nuvole dorate davanti a me, il corpo completamente in tensione avvolto da un calore che mi penetrava fin dentro l’anima, riscaldando ogni singolo angolo ricoperto dall’orrore che avevo appena subito.
Alle mie spalle, la vetta di una montagna svaniva oltre le nubi, la terra sotto i miei piedi rilasciava un piacevole odore di natura. Un clima caldo contornava l’insieme, e io mi sentii subito meglio.
Mi ci vollero diversi minuti per rendermi conto di avere le mani sulle orecchie, come per impedirmi di sentire i suoni raccapriccianti che provenivano dalle visioni nella mia mente. E mi ci volle molto più tempo per decidermi che quel posto non era un’illusione. Che era reale e che potevo finalmente rilassare i muscoli. Mi tirai in piedi con estrema calma, gli arti pesantemente indolenziti per la posizione che avevo tenuto per un tempo imprecisato, e mi appoggiai con la schiena all’albero dietro di me.
Solo allora mi accorsi del sole che brillava attraverso le nuvole, illuminandomi quasi di una luce dorata.
Riconobbi quel calore all’istante.
Era quello che avevo sentito prima, quando non ricordavo niente della mia vita se non quelle immagini terrificanti.
Ancora non riconoscevo niente, non rammentavo nulla, ma non me ne preoccupai. Chiusi gli occhi, beandomi di quella sensazione così avvolgente. Lasciai che mi invadesse completamente, mi abbandonai ad essa.
E fu in quel momento che lo sentii.
Qualcosa mi stava tirando, all’altezza del costato. Qualcosa mi tirava verso il sole e lo strapiombo della montagna.
Mi spaventai.
Non volevo finire nel vuoto, non ora che avevo un po’ di sollievo da tutto quel dolore.
Mi opposi a quel filo che sentivo sempre più forte, più determinato. E più caldo. Stava cominciando a bruciare sempre più forte. E il sole diventava sempre più accecante.
Non capivo cosa stava succedendo.
C’era pace, lì, non volevo andarmene. Ovunque fossi, volevo rimanerci.
Ma sembrava che quella specie di filo che mi tirava in avanti non volesse saperne di lasciarmi in pace.
Due iridi blu, luminose quanto il sole, apparvero per un attimo nella mia mente.
Fu talmente improvviso che barcollai e caddi a terra, una mano sugli occhi per assicurarmi di non averli davvero davanti a me e un piede sull’orlo dello strapiombo.
“Sempre.”
Sgranai gli occhi.
Che diamine significava, quello?
E di chi era quella voce melodiosa che aveva appena parlato nella mia testa?
Il filo diede uno strattone, cogliendomi alla sprovvista, e io caddi nel burrone senza riuscire ad aggrapparmi ad una roccia.
Mentre il vento mi fischiava nelle orecchie, il panico mi attanagliava le viscere e io cadevo attraverso strati e strati di nuvole dorate, molte immagini apparvero nella mia mente. E io le riconobbi.
Sorrisi.
«Sempre.»
 

****

 
Aprii gli occhi di scatto, sollevandomi a sedere con il respiro corto.
Mi passai le mani sul volto più volte, cercando di tornare presente a me stessa. Poi mi fermai, rendendomi conto del silenzio innaturale che mi circondava. Nemmeno mentre i miei amici dormivano, c’era questa totale assenza di rumori.
Mi osservai intorno, perplessa e sgranai gli occhi. Ero in una camera in cui non ero mai stata, seduta su un materasso ad acqua su cui erano posizionati quattro cuscini di piume. Era una camera extra lusso di un albergo. E, osservandomi intorno, capii subito di quale albergo si trattasse. I fiori di loto stampati un po’ ovunque erano molto indicativi.
Perfetto.
Eravamo in quella trappola del Casinò Lotus.
Dovevo trovare gli altri il prima possibile. Non avevo la minima idea di quanto tempo avessi passato addormentata, ma ero sicura che fosse stato fin troppo. Sperai solo che Percy, Annabeth e Grover non fossero rimasti vittime dell’incantesimo di quel posto.
Raccolsi il mio zaino, posizionato in fondo al letto e uscii dalla camera, ritrovandomi in un salotto lussuoso quanto il resto della suite. Un angolo bar rifornito di dolciumi, bibite gassate e patatine attirò la mia attenzione. Mi ci avvicinai e riempii lo zaino di tutto quello che riuscivo a metterci. Avremmo avuto bisogno di scorte di cibo per il viaggio, dopotutto.
Lanciai un’occhiata alla televisione a schermo panoramico e repressi l’istinto di accenderla per vedere come fosse. Mi precipitai fuori dalla camera senza voltarmi indietro.
Dovevo sbrigarmi.
Salii su un ascensore, accorgendomi di essere all’ultimo piano del palazzo, e spinsi il pulsante del piano terra, sperando di trovare in fretta i miei amici.
Quando le porte si aprirono sull’atrio mi sentii male. C’erano così tante attrazioni, e talmente tanta gente, da poter tenere impegnate migliaia di persone. Passai accanto la pista di snow-board e sotto lo scivolo d’acqua; mi infiltrai in una battaglia laser, ignorando i giocatori che si lamentavano e mi infilai nella sala giochi.
Avrei cominciato la mia ricerca da lì.
Partii da un angolo e cominciai a ispezione la sala, ignorando le varie occhiatacce e i lamenti che mi rivolgeva la gente ogni volta che interrompevo i loro divertimenti. Avevo fretta.
Finii addosso a un ragazzino, mandandolo a terra.
«Porco Ares!» imprecai, mentre aiutavo quel piccoletto ad alzarsi. «Scusami, ragazzino, non ti avevo visto.»
Lo studiai. Aveva circa dieci anni, lucidi capelli neri e la pelle olivastra. E mi osservava meravigliato con i suoi grandi occhi scuri. Sembrava imbambolato.
«Ti senti bene?» gli chiesi.
Lui scosse la testa, come risvegliato da un sogno.
«Certo!» rispose, la voce squillante ed eccitata e lo sguardo ancora fisso su di me. «Senti… ma tu sei una dea?»
«Che cosa?» sgranai gli occhi.
«Sì… insomma… sei una dea?» ripetè il ragazzino, gli occhi scuri che brillavano.
Mi fece un po’ tenerezza.
«No, cucciolo.» dissi. «Non sono una dea.»
«Peccato.» commentò. «Sai, sei proprio come immaginavo che fosse una dea.»
«Ah sì? E perché la immaginavi come me?» gli chiesi, curiosa. E perplessa.
«Perché sei bellissima.» mi disse candido, spiazzandomi completamente. «E poi, sembri quasi… nah. Niente.»
Lo osservai per qualche istante, incerta. Chissà cosa stava per dire.
Mi abbassai, in modo da avere il volto all’altezza del suo, e gli misi una mano sulla spalla.
«Posso rivelarti un segreto?» feci, con un sorriso sul volto. Sì, quel ragazzino era proprio tenero. «Un segreto che non dovrai dire a nessuno?»
Lui annuì più volte, curioso.
Mi osservai intorno, per assicurarmi che nessuno ci stesse prestando attenzione, e avvicinai ancora di più il mio volto al suo.
«Le dee sono molto più belle di me.» mormorai, gli occhi fissi nei suoi per non perdermi nemmeno un dettaglio della sua espressione.
Le sue iridi scure si sgranarono visibilmente dalla sorpresa.
«Davvero?!» mi domandò, tutto eccitato. «Esistono veramente? E come sono? E gli dei maschi? Anche loro sono belli? E quanto sono forti? Che poteri hanno? Li hai mai incontrati?»
Sparò una raffica di domande a cui non mi diede tempo e modo di rispondere, o anche solo di pensare di farlo. Mi limitai a fissarlo interdetta, non aspettandomi assolutamente una reazione del genere.
Poi venimmo interrotti.
«Eccoti, finalmente!» una ragazzina molto simile a lui, lo aveva affiancato con espressione preoccupata. Avrà avuto un paio di anni in più del piccoletto e, a giudicare dalle caratteristiche che avevano in comune, avrei giurato che fossero fratelli.
«Ti ho cercato dappertutto. Non devi sparire in quel modo, mi hai spaventato.» lo rimproverò.
«Mi dispiace.» disse il ragazzino, mortificato.
«Perdona mio fratello. A volte si fa prendere dall’entusiasmo ed è impossibile controllarlo.» disse poi, la ragazza, rivolta a me. «Spero che non ti abbia disturbato.»
Sorrisi. «Non preoccuparti, è tutto a posto. Ci siamo scontrati senza volerlo, ma non è stata colpa sua.»
Lei sospirò, prima di voltarsi nuovamente verso il fratello. «Devi stare più attento. Avresti potuto farti male.»
«Scusa.»
«Non fa niente. Andiamo adesso.»
Sospinse delicatamente il fratellino in avanti e, dopo avermi salutato, si allontanò in mezzo alla folla. Dopo un paio di passi lui si fermò, si voltò verso di me e mi salutò con la mano, un sorriso che gli illuminava il volto. Lo salutai a mia volta, facendogli un occhiolino mentre sentivo un ricciolo di vite sfiorarmi la guancia. Lui sgranò gli occhi, sorpreso, prima di seguire la sorella.
Mi incamminai tra quella moltitudine di gente riflettendo su quel bizzarro incontro, e quasi andai a schiantarmi contro la postazione della realtà virtuale.
E Percy.
Era talmente concentrato a giocare in simultanea con il suo vicino, un tredicenne che indossava abiti degli anni settanta, che non si accorse minimamente della mia presenza.
Gli sventolai una mano davanti al volto, ma lui continuò a giocare come se niente fosse.
«Ehi.» lo chiamai. «Mollusco? Ci sei?»
Mi ignorò.
Lo scrollai per una spalla. «Ameba, sei vivo?»
Lui si spostò infastidito, senza distogliere lo sguardo dal gioco.
Io mi stufai.
Sciaf!
La mia mano si scontrò con la sua guancia, provocando uno schiocco e facendogli voltare la testa di lato. Accidenti, non pensavo di averlo colpito così forte… pace, magari così si sveglia.
Lui si voltò seccato verso di me, pronto a sbraitare solo gli dei sapevano cosa, ma si bloccò quando si rese conto di chi aveva davanti.
«Avie?» disse confuso, come se stesse cercando di mettermi a fuoco.
«Ah, quindi sei vivo.» commentai. «Grandioso.»
«Cosa ci fai qui? Tu non stavi dormendo?»
Alzai gli occhi al cielo. «Hai detto bene: stavo. Ora non più. Ed è meglio che ti dia una svegliata anche tu, altrimenti rimarrai intrappolato qui per sempre.»
«Cosa?»
«Guardati intorno.» mi limitai a dire.
Lui lo fece, studiando le persone che giravano indisturbate nel casinò, ignare del tempo che passava. Poi mi guardò, perplesso, e io gli indicai con un cenno il suo vicino di gioco.
Gli bastò scambiarci qualche frase per rendersi conto della verità: il Casinò Lotus era una trappola. Se ci entravi, ti inibiva talmente tanto da farti credere che fossero passate solo poche ore da quando eri arrivato mentre, in realtà, era passato molto più tempo. Per alcuni persino anni.
«Vidi chiaramente il panico negli occhi di Percy quando si rese conto che non sapeva da quanto tempo fossimo lì dentro.
«Dobbiamo trovare gli altri.» affermai, categorica.
Percy mi condusse nella zona in cui si potevano costruire delle città in 3D al computer. Annabeth era intenta a costruire la sua.
«Muoviti.» le ordinò. «Dobbiamo andarcene di qui.»
Nessuna risposta.
La scrollò per una spalla. «Annabeth?»
Lei alzò lo sguardo, seccata. «Che c'è?»
«Dobbiamo andare.» ripetè Percy.
«Andare? Ma di cosa stai parlando? Ho appena innalzato le torri...»
«Questo posto è una trappola.» tentò di spiegarle.
Non gli rispose finché non la scrollò di nuovo. «Che c'è?»
«Ascolta. Gli Inferi. La nostra impresa!» tentò ancora Percy.
«E dai, Percy, solo un altro paio di minuti.»
«Annabeth, c'è gente che è qui dal 1977. Ragazzi che non sono mai invecchiati. Entri nell'albergo e ci rimani per sempre.»
«E allora?» fece lei. «Riesci a immaginare un posto migliore?»
Percy mi guardò, disperato.
Io sbuffai, agguantai Annie per un polso e la tirai via dal gioco, ignorando le sue lamentele. La costrinsi a guardarmi negli occhi. Era talmente presa da quella specie di incantesimo che nemmeno si rese conto che ero io e che ero sveglia.
«Ragni. Grossi ragni pelosi.» le dissi.
Funzionò. Fece un sobbalzo e il suo sguardo tornò lucido. Finalmente.
«Avie!» esclamò. «Dei del cielo! Ti sei svegliata! Stai bene? Da quanto tempo siamo qui?»
«Non lo so.» dissi.
«Ma dobbiamo trovare Grover.» completò Percy, sollevato quanto me che fosse tornata in sé.
Lo trovammo intento a giocare al cervo cacciatore virtuale, un gioco in cui erano gli animali a dare la caccia ai cacciatori.
«Grover!» gridammo insieme.
Lui rispose: «Muori, mortale! Muori, stupido e odioso individuo inquinante!»
«Grover!»
Puntò il fucile di plastica contro Percy e cominciò a premere il grilletto, come se fosse solo un'altra immagine dello schermo.
Guardai Annabeth e insieme prendemmo Grover a braccetto e lo trascinammo via. Le sue scarpe volanti presero vita e tirarono le gambe nella direzione opposta, mentre lui gridava: «No! Ero appena entrato in un nuovo livello! No!»
Percy lo prese per le gambe per impedire che i piedi finti si staccassero mostrando gli zoccoli caprini.
Un fattorino della Lotus ci corse incontro. «Allora, siete pronti per le carte Platino?»
«Ce ne andiamo.» gli annunciai.
«Che peccato.» replicò lui e, per un solo instante, ebbi la sensazione che dicesse sul serio. «Abbiamo appena aggiunto un nuovo piano attrezzatissimo per i possessori di carta Platino.»
Ci mostrò le carte e vidi Percy tentennare, così come Annabeth. Sapevo che se l'avessero presa, non sarei più stata in grado di farli tornare in sé.
Grover tese il braccio per afferrare la carta, ma Annabeth lo bloccò.
«Sparisci.» dissi al fattorino, fulminandolo con lo sguardo.
Fortunatamente lo fece, con espressione spaventata.
Mentre ci avvicinavamo alla porta, il profumo del cibo e i suoni dei giochi sembrarono farsi sempre più invitanti. Sentii gli altri rallentare e imprecai.
Li trascinai letteralmente fuori dalle porte del Casinò Lotus, e corremmo fino in fondo al marciapiede. Sembrava pomeriggio, il che non mi piaceva. Soprattutto dato che il tempo era completamente cambiato da prima che mi addormentassi. Era temporalesco, con i lampi estivi che illuminavano il deserto. Zeus era ancora più infuriato del solito.
Percy si ritrovò lo zaino di Ares in spalla, il che era strano, perché prima era senza, ma al momento non me ne preoccupai particolarmente.
Corremmo all'edicola più vicina e per prima cosa leggemmo l'anno su una rivista.
Grazie agli dei, era lo stesso di quando eravamo entrati. Poi però notai la data: il venti giugno.
Sbiancai.
Avevo dormito per quasi sei giorni.
E, a quanto pare, eravamo rimasti nel Casinò Lotus per cinque.
Ci restava solo un giorno prima del solstizio d'estate. Un giorno per portare a termine l'impresa.
Eravamo davvero nei guai
   
 
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