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Autore: _helianthus    12/10/2022    1 recensioni
[ GioMis | AU | Mista scopre la bisessualità e siamo tutti contenti | 5157 parole ]
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Casa matti, interno 3 e mezzo, la chiamavano. Il piccolo condominio stava arroccato in un angolo dimenticato della città, un punto protetto da cui il baccano non poteva più di tanto uscire: quando lo faceva, però, era sempre un problema, e infatti la polizia gliel’avevano chiamata più volte.
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Questa storia partecipa al Writober di fanwriter.it, giorno 1, prompt: "this is the sign you've been waiting for"
Genere: Comico, Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Giorno Giovanna, Guido Mista
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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l'odore che hai, mi ricorda le case d'estate

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Casa matti, interno 3 e mezzo, la chiamavano. Il piccolo condominio stava arroccato in un angolo dimenticato della città, un punto protetto da cui il baccano non poteva più di tanto uscire: quando lo faceva, però, era sempre un problema, e infatti la polizia gliel’avevano chiamata più volte.

Giorno non aveva sentito tutte queste storie, che ribalzavano tra gli studenti con riverenza e sollievo, un tono che comunicava fortuna che non ci sono capitato io. Se le avesse sentite, in ogni caso, forse non gli avrebbero poi dato così tanto fastidio, abituato da sempre a barcamenarsi tra gente strana – creature, le chiamava, in una maniera distaccata ma con un poco di affetto di fondo che avrebbe potuto definire empatico.

La situazione era stata ovvia: il suo proprietario lo stava sbattendo fuori casa, uno dei dottorandi dall’aria più affidabile aveva appeso un annuncio alla bacheca e l’affitto costava poco, persino meno della sua attuale sistemazione. Non ci aveva rimuginato troppo, Giorno, e l’unica visita all’appartamento l’aveva fatta quando tutti i suoi occupanti erano fuori a lavoro. Bucciarati gli aveva detto che li conosceva tutti personalmente, garantiva per loro, gli aveva fatto vedere la stanza doppia che avrebbe dovuto condividere con un altro ragazzo (per qualche motivo aveva una copia delle chiavi, non una copia prestata ma sua, come una garanzia, qualcuno su cui ricadere in caso di necessità), e a Giorno sembrava una sistemazione accettabile.

Successivamente, poi, aveva conosciuto i suoi coinquilini. Era entrato nell’appartamento in un giorno luminoso di inizio dicembre, carico di una grossa valigia e due bagagli che quasi lo coprivano completamente alla vista, e aveva trovato due dei tre occupanti a cucinare, mentre Born Gangsta di Boss usciva ovattata da uno stereo che probabilmente anni fa aveva avuto una vita degna di questo nome. Il profumo del sugo era dolce e l’aroma del basilico che impregnava l’aria gli aveva fatto arricciare il naso. In tre avevano condiviso quel pranzo, trovando a malapena lo spazio per tre piatti sul tavolo ricoperto delle più varie cianfrusaglie, tra cui figuravano carte di caramella, posacenere, bicchieri mezzi pieni e altri rifiuti. Così aveva conosciuto Fugo e Narancia.

Le cose stavano così: Fugo a suo padre diceva di studiare giurisprudenza e in realtà lavorava alla gelateria dall'altra parte del centro. Ci lavorava tutto l'anno, che tanto i turisti che volevano il gelato c'erano sempre, anche in inverno, e quando non c’erano allora passava a dare una mano al kebabbaro del locale affianco. Fugo non sembrava così tanto strano, ma Giorno si era dovuto ricredere quando lo aveva visto perdere la pazienza per la prima volta. Fortunatamente l’oggetto della sua furia incontrollata non era nessuno di loro, ma i clienti della gelateria con cui Fugo aveva avuto a che fare qualche ora prima, e Giorno aveva continuato a sorseggiare il suo caffè da una tazzina scheggiata mentre Fugo incideva con un coltellaccio da cucina nuove profonde nicchie nel vecchio tavolo di legno del soggiorno – finalmente aveva capito da dove venivano tutti quei buchi.

Poi c’era Narancia. Narancia non studiava, non ci aveva neanche provato, e saltava di lavoro in lavoro da quando aveva terminato la scuola dell’obbligo: l'avevano preso come apprendista in un'officina, e gli andava bene così. Tornava a casa sozzo, sorridente, e sereno, tre S che elencava sulla punta delle dita con orgoglio, come se fossero dei requisiti per una vita felice. Era il più ciarliero di tutti, lì dentro, e anche quello che sembrava propenso a fare più danni. Giorno aveva imparato in fretta a non chiedere il resoconto delle spese in condivisione a lui, che per questo genere di cose era negato.

La causa di tutto quanto, e cioè Bucciarati, abitava in realtà nell'appartamento di fronte. Con lui Giorno non condivideva neanche il dipartimento, ma lo aveva raccattato con un annuncio che chiunque avrebbe definito nebuloso da principio, e poi, una volta capito di quale abitazione si trattasse, persino disonesto.

Bruno quegli annunci li aveva fatti appendere ovunque, ma la fama dell'interno 3 e mezzo era leggendaria tra gli universitari, nonostante meno della metà dei suoi abitanti fossero studenti, e poche persone erano tanto disperate da accettare. Giorno, al contrario, non era né disperato né al corrente della situazione, e forse proprio per questo si era ritrovato ad accettare la sistemazione con tanta serenità d’animo.

Nell’appartamento di fronte, e cioè l’interno 3, viveva anche Abbacchio, che era l’unico con cui Giorno aveva qualche problema concreto. Abbacchio non forniva informazioni di sua spontanea volontà, né faceva conversazione, ma si limitava a guardarlo con astio ogni volta che si incrociavano sulle scale. La presenza di Bucciarati sembrava renderlo più propenso al dialogo, come per esempio quella volta in cui li aveva incrociati mentre andavano a buttare la spazzatura nei cassonetti poco lontani dal condominio. La conversazione era andata più o meno così:

“Non voglio essere invadente, ma come mai noi siamo in quattro e voi in due?” Giorno aveva spinto il piede sulla leva del cassonetto malandato con tutto il suo peso, che non era poi tanto, mentre guardava Bucciarati. “Gli appartamenti sono uguali, giusto?”

“Qualcuno è morto nella nostra seconda stanza tre anni fa,” si era intromesso Abbacchio, con voce ferma. Giorno aveva sussultato. “Nessuno ci vuole stare.”

Il più giovane dei tre non aveva potuto fare a meno di chiedersi da quanto tempo loro due abitassero in quell’appartamento, cercando di rimettere insieme informazioni sparse raccolte nelle due settimane precedenti, con una certa angoscia in corpo, ma il suo viso non aveva fatto trapelare emozioni particolari. Il silenzio era stato rotto solo dalle bottiglie di vetro che si spaccavano cadendo dentro il cassonetto, e Giorno aveva sentito un po’ di prurito alle mani mentre tornavano indietro. Non poteva metterle in tasca, purtroppo, perché qualcosa di appiccicoso gliele aveva sporcate.

“L’affitto è piuttosto basso, però.” Bucciarati aveva sorriso leggermente mentre parlava, guardando Giorno con un luccichio negli occhi. Abbacchio aveva sbuffato, forse un modo per ridere, e per un paio di minuti Giorno si era effettivamente domandato quanto fosse sicura la sua permanenza a casa matti.

(Bucciarati, a spezzare una lancia in suo favore, non si sentiva un truffatore: pensava semplicemente che gli standard di certe persone fossero troppo alti. All’interno 3 e mezzo ci avrebbe vissuto, anche se non più a lungo di qualche mese.)

Resta il fatto che dei matti erano, in tre in quell'appartamento stretto e colmo di fumo, di poster sui muri, di targhe rubate appese. Giorno non aveva avuto reazioni avverse all’interior design che gli era stato presentato, e Bucciarati gli aveva detto che era gente okay. Di Bucciarati ci si poteva fidare.

Oltre a lui, che neanche viveva lì, ma che era considerato (insieme ad Abbacchio) un mezzo coinquilino, c'era l'ultimo eccentrico occupante dell'interno 3 e mezzo.

Neanche Guido studiava, ovviamente; lui lavorava al porto, era il suo compagno di stanza, e almeno tre mattine a settimana nel suo placido dormiveglia Giorno lo sentiva che si alzava e si vestiva, scrocchiandosi le ossa del collo e della schiena, coprendo ogni centimetro del suo corpo che rischiasse di essere esposto all’aria gelida di dicembre. Quando poi usciva, Giorno spesso riprendeva il suo sonno, ma capitava che si tirasse a sedere per guardarlo inforcare la sua bicicletta e partire alla volta del porto, via lungo la strada maestra, illuminata da grosse luci sospese a mezz’aria con dei grossi cavi.

Mista aveva orari di lavoro irregolari, ma Giorno apprezzava la sua strana, frammentaria compagnia. A volte tornava a casa talmente tanto tardi da farlo diventare molto molto presto, spesso trovando Giorno ancora chino sui manuali di genetica a rimuginare in una notte che sarebbe stata completamente silenziosa, se non fosse stato per il vento di mare sferzante e salato e freddo e cattivo che faceva tremare i vetri delle finestre e i loro infissi malandati, vecchi di almeno trent’anni. Mista tremava per l’umidità che gli era entrata nelle ossa così tanto in fondo da spezzargli le articolazioni, e cercava di raccattare le forze per iniziare a togliersi meccanicamente gli strati di vestiti ricoperti da un sottile velo di rugiada mattutina.

Non avevano un gran dialogo: gli occhi acquamarina, enormi, di Giorno fissavano quelli nerissimi dell’altro, e il più giovane si ritrovava strappato dalla sua concentrazione ostinata.

Mista aveva un viso piacevole ma duro, dal colore olivastro che non riusciva a essere troppo pallido neanche dopo quelle traversate gelide verso casa. Era un riflesso opposto rispetto a Giorno, che prendeva colore a fatica e aveva ancora il volto morbido nonostante i suoi ventidue anni – in qualche modo lo trovava gradevole, qualcosa che avrebbe potuto guardare a lungo.

L’altro ricambiava lo sguardo per un po’. Poi si svestiva, si infilava sotto le coperte, pesanti, di lana grossa, e dormiva fino a pomeriggio inoltrato. Giorno al contrario dormiva qualche ora e poi andava a lezione, raccattando qualche mezz’ora di riposo silenzioso quando poteva, durante la giornata.

*

Le cose erano andate così, normalmente nella più subdola anormalità, per un certo periodo, almeno fino a quando non c'era stata l'occasione di passare una serata tutti insieme, compreso Bucciarati, compreso Abbacchio.

C’era da essere sinceri, Giorno capiva il motivo per cui ogni tanto qualcuno la polizia gliela chiamava – il baccano che appena cinque persone erano capaci di fare era straordinario, soprattutto quando Narancia e Fugo iniziavano a discutere sul terrazzo, nella penombra di una lampadina mezza bruciata che faceva a malapena luce abbastanza per centrare il posacenere spegnendo una sigaretta. Nessuno dei due aveva un tono di voce particolarmente moderato (la verità è che lì dentro solo Bucciarati sapeva regolare il volume, oltre a Giorno stesso), e il peggiore era Narancia, che peraltro non era neanche capace di farsi i fatti suoi.

Era proprio grazie a Narancia e al suo ciarlare, reso ancora più marcato dall’alcol assunto, che Giorno aveva capito che il rapporto tra gli occupanti della casa matti, interno 3 e mezzo, non era affatto di puro coinquilinaggio: alla peggio regnava un sincero cameratismo, e alla meglio una profonda amicizia. Aveva quasi provato invidia a sentire i racconti fantastici di cui i ragazzi erano stati protagonisti. Narancia era un narratore caotico ma onesto, e le sue storie erano storie da cui chiunque avrebbe desiderato allontanarsi.

Visto il carattere, l’aspetto e le condizioni dei suoi coinquilini, non era tanto questo a stupire Giorno. Quello che lo meravigliava un po’, piuttosto, erano i commenti di Bucciarati, fatti con un sorriso serafico sulle labbra, integrando informazioni perse o parzialmente scorrette. Era bizzarro, che un uomo apparentemente così rispettabile potesse essere complice (e fautore) di tanti disastri.

Terminati i racconti più eclatanti, tra cui quello di quando Mista aveva effettivamente cambiato il numero dell’interno che figurava sopra la porta, perché il 4 portava troppa sfiga (come se la persona morta nell’appartamento di fronte fosse di secondo piano a confronto), e un’ingente quantità di vino, l’argomento di conversazione era virato in maniera poco subdola su Giorno. L’interesse era moderato, se non altro perché a differenza loro il ragazzo non sembrava uno scoppiato, anzi, era davvero l’immagine candida di uno studente responsabile. Mista gli aveva dato una pacca sulla schiena e poi gli aveva stretto la base della nuca con una delle sue mani a tenaglia, abbastanza forte da fare quasi male, ridendo e descrivendo agli altri tutte le volte in cui era tornato a casa alle quattro di mattina trovandolo ancora a studiare.

“Ti sei fatto fregare da Bucciarati eh, quello ne ha accalappiati tanti.” Un sorso di vino dal suo bicchiere della Coca-Cola, rubato in un bar tempo prima da Narancia. “C’è un bel ricambio, gli universitari non stanno mai troppo… qualche mese, e poi, cazzo,” Giorno lo guardava con la coda dell’occhio, senza voltare la testa, mentre Mista spiegava inciampando un po’ sulle sue stesse parole, “scappano! Ma perché, facciamo paura? Fugo sono mesi che non picchia un poliziotto. ‘Sto minchione.”

Gli aveva tirato un buffetto, a Fugo, come se fosse stata la cosa più normale del mondo, e probabilmente per loro lo era. L’altro gli aveva solo lanciato un’occhiataccia, troppo comodo abbracciato al suo cuscino per reagire.

“Scappano perché condividono la camera con te, che esci in culo all’alba e torni di notte con la faccia più incazzata mai vista,” aveva risposto Narancia, ridendo a intermezzi, comodo sul divano sfondato. Si era rivolto a Giorno con complicità, “l’ho visto qualche volta, quando vado a pisciare. Sembra un serial killer.” Mista si era lamentato debolmente e l’altro lo aveva di nuovo guardato. “Fortuna che a Giorno non fai paura.”

“Ma no, io sono un coglione,” Mista aveva preso Giorno per una spalla, impanicato, costringendolo a girarsi sulla sedia, guardandolo negli occhi con un’intensità che a posteriori il più giovane avrebbe definito allarmante, “Giorno, sono un coglione, se ti guardo fisso quando entro in camera è perché mi sta collassando il cervello dal freddo e tu sembri, non so, un angelo di Dio.” Giorno aveva annuito nella confusione, senza darci troppo peso, ma Mista ci teneva troppo per lasciar andare così la cosa. “E sei anche bono, e questa cosa non so come prenderla, perché a me piacciono le donne, mi capisci?”

Giorno non lo capiva, non proprio. Lo capiva poco, perché suo padre gli aveva permesso di entrare in contatto con la comunità LGBT+ fin da piccolo, e inoltre a lui in generale questo aspetto della sua vita non era mai interessato così tanto. Quando gli era interessato era sempre stato piuttosto ovvio e cristallino, senza particolari problemi, senza struggenti domande.

Non gli aveva dovuto dare una risposta, in ogni caso, perché gli altri ci avevano pensato al posto suo, scoppiando a ridere in faccia al loro amico. Narancia aveva ululato, Fugo aveva rischiato di soffocare per un sorso di birra andato di traverso, Bucciarati rideva di petto, un suono piacevole, complementare alla risata sgradevole e inaspettata di Abbacchio. A Giorno si erano scaldate di poco le orecchie, e poi aveva volentieri abbracciato il suo compagno di stanza, che con un po’ di imbarazzo aveva nascosto la faccia sulla sua spalla per sfuggire alle angherie degli altri.

*

“Quello che ho detto prima,” gli aveva detto più tardi, quando l’alcol era un po’ sceso e Giorno era già girato su un fianco, pronto a dormire. “Cioè. L’ho detto così, sai. Non ci dare peso.” Un rumore sottile aveva suggerito a Giorno che Mista si stava grattando la testa, forse nel dubbio rispetto a cosa dire. Non c’era vento, quella sera. “Insomma, spero che non ti abbia infastidito.”

Il più giovane si era voltato, allora, per poterci parlare senza dargli le spalle.

“Mi hanno detto cose più strane e più spiacevoli,” a quelle parole, Mista si era un po’ rilassato, permettendosi di affondare di una spanna nelle lenzuola. Giorno aveva quasi riso. “Se ti aiuta a scoprire qualcosa di te, non è un problema.”

L’altro era di nuovo saltato su a sedere.

“Ma no, cioè, non sono il tipo,” aveva masticato frettolosamente. Dopo qualche altra parola (giustificazione), la lampadina della stanza era stata spenta, e il tutto cacciato più o meno sotto un tappeto.

*

Giorno non poteva fare a meno di trovare moderatamente divertente la situazione. Era diventato impossibile non pensare alle parole di Mista ogni volta che sentiva la porta di camera aprirsi quasi silenziosamente, con il meccanismo vecchio e mezzo rotto che scattava nonostante tutta la cura messa nel non fare rumore: Giorno si voltava, consapevole che avrebbe trovato lo sguardo nero dell’altro su di sé, due biglie nere che spiccavano sul bianco pulito dei suoi occhi. Mista alzava una mano rigidissima in cenno di saluto, il respiro affannoso per la fatica fatta in bicicletta, e rimaneva lì impalato per una manciata di secondi. Solo quando Giorno allontanava la sedia dalla scrivania, interrompendo quel collegamento, tirandosi in piedi, allora anche Mista si ripigliava, come strappato via da una trance.

Il più giovane non aveva fretta di terminare quel momento, inclinando la testa per far scrocchiare il collo, sbattendo pigramente le palpebre tentando di mettere a fuoco l’uomo davanti a lui, così diverso dalle centinaia di scritte che aveva letto durante le ultime quattro ore. Se c’era un minimo di malizia, era pressocché involontaria – Giorno non aveva secondi o terzi fini. Mista era, con una buona dose di onestà, un bel tipo, soprattutto quando si toglieva il passamontagna e poi si arruffava i capelli, corti e neri e tutti appiccicati alla testa.

Così era andata, per le settimane successive. Giorno lo sentiva ancora alzarsi alle cinque di mattina, rabbrividiva all’idea di dover uscire al freddo di quell’ora, e sperava nell’arrivo della primavera, che però era ancora lontana – lo vedeva allontanarsi sulla sua bicicletta malandata e si faceva l’appunto mentale di regalargli un thermos nuovo perché il suo l’aveva fatto cadere per sbaglio dal secondo piano, ed era troppo ammaccato per continuare a prestare servizio. (L’avevano onorevolmente preso a calci a turno nella strada sotto casa, finché con un colpo ben assestato non era entrato nel cassonetto dell’indifferenziato. Fugo aveva giocato a calcio per anni, prima che venisse allontanato perché entrava sempre in scivolata sulle caviglie di chiunque, avversari e compagni senza distinzione.)

Non era stato poi tanto difficile tirare di nuovo fuori l’argomento, principalmente perché come accennato prima Narancia aveva una notevole tendenza a non stare zitto, e perché i coinquilini dell’interno 3 e mezzo erano soliti punzecchiarsi a vicenda.

Mista era molto meno malleabile da sobrio, limitandosi a sdrammatizzare, ridendo, e ad alzare le spalle: faceva un piccolo mea culpa che automaticamente rendeva meno interessante la situazione. (Sicuramente si trattava di una strategia anti-Narancia implementata negli anni.) Forse anche per questo, Giorno non nominava mai la situazione, mantenendo il tutto entro il non-detto di quelle conversazioni visive che avevano alle quattro di notte.

Quando bevevano tutti insieme, la storia era diversa.

“Non sono pronto, mi capisci?” Mista si agitava, e la lattina di birra nella sua mano si agitava con lui. Si sporgeva verso Giorno, ma non era mai molesto, anzi, sembrava quasi avesse paura di toccarlo, a meno che non fosse in maniera completamente amichevole. “Uno a ventiquattro anni fa fatica ad accettare certe cose. Non degli altri, voglio dire, quello è okay, è fantastico,” Giorno lo guardava e sorrideva, vagamente consapevole della maniera in cui Narancia prendeva a gomitate Fugo indicandogli l’amico. “Ma di me, capito, non so bene come prenderla. Però poi uno c’è il rischio che invecchi… senza sistemare ‘ste cose. Magari gli uomini sono fantastici, Giorno, Cristo. E io come faccio a saperlo?”

Risate fragorose dagli altri. Giorno non poteva biasimarli troppo, ma dava comunque conforto al suo compagno di stanza, che dopo tante incredibili elucubrazioni spesso si appisolava sulla sua spalla o addirittura nel suo grembo, sul divano, beato.

“Quando è il momento giusto, me ne accorgo,” gli aveva detto Mista una volta mentre si lavava i denti, ancora moderatamente sbronzo, guardando lo specchio con invidiabile concentrazione. “Ci sarà qualcosa di diverso che me lo farà capire, vero? Un segno divino?” E si era girato verso Giorno. Quello si era tamponato il viso con l’asciugamano e aveva fatto spallucce.

“Certo. Sicuramente lo senti, uhm,” Giorno sentiva la testa leggera e pensava che non sarebbe stato contrario all’idea di avvicinarsi un po’, di aprire il palmo della mano sul petto di Mista, di cui si intravedeva il profilo sotto la maglia del pigiama. Ma non era proprio il caso, e quindi si era limitato a battere il palmo sul suo, di petto, guardandolo di sottecchi, sforzandosi di pensare ad altro, “qua.”

Alla fine, pure Giorno lo aspettava, quel segno.

*

I supermercati lì erano diversi da quelli con cui Giorno era cresciuto, ma a prescindere dal loro marchio c’era una distinzione imprescindibile, sempre valida. C’erano quelli nuovi, coi muri che erano finestre intere, gli scaffali ordinati sempre pieni e la gastronomia gestita da signore sorridenti, e poi c’erano quelli coi soffitti bassi, la luce artificiale che bruciava le retine e la musica odiosa dalla radio che bruciava i timpani, le verdure che iniziavano ad ammuffire ancora nei cestini dell’ortofrutta. Non era difficile immaginare quali fossero quelli più frequentati dagli abitanti di casa matti, anche se ogni tanto a Fugo giravano i cinque minuti e andava a comprare delle fette di guanciale spesse mezzo centimetro che costavano quanto cinque giorni di cibo.

Quella, però, era una spesa dedicata alle Domeniche con la D maiuscola, quelle in cui per qualche felice coincidenza nessuno di loro lavorava e si poteva pranzare tutti insieme. Guido e Fugo cucinavano, Bucciarati e Abbacchio portavano il vino e i mignon (due a testa, nessuna eccezione, a meno di inaspettati altruismi), ogni volta da una pasticceria diversa, e tutti ne approfittavano per prenderli in giro, perché sembravano una coppia di vecchi.

Quelle Domeniche erano le preferite di Giorno, che si ritrovava in un angolo stretto della cucina, arroccato sulla sedia, la testa appoggiata sul ginocchio a guardare silenziosamente gli altri, mentre il CD di qualche cantautore italiano (imposizione di Mista) girava nello stereo rotto di Narancia. Si sentiva disteso, sparso in maniera sottile a ricoprire il mondo circostante, con il vino che nutriva la leggerezza della sua mente e il petto che gli si riempiva di affetto.

“Ehi, biondo,” la voce del cuoco del giorno gli arriva di traverso in mezzo al rumore di altre tre conversazioni e Giorno alza con pigrizia lo sguardo, trovando Mista sorridente, se non leggermente allarmato, “ancora tra noi?”

Ce l’ha ancora in mente, la faccia incazzata nera, spaventosa, di Mista la notte prima. Era entrato in camera a pugni strettissimi, i vestiti zuppi di acqua, strappandosi il passamontagna masticando bestemmie, ma facendo comunque attenzione a non sbattere la porta per non svegliare gli altri due inquilini.

“M’hanno inculato il sellino,” era riuscito a sputare mentre si toglieva i pantaloni, “ho fatto tutta la strada in piedi sui pedali,” che non era poca, “e piove”.

Giorno non usava spesso la bici, ma sapeva che mezz’ora di viaggio in quelle condizioni avrebbe spaccato le ginocchia e lo spirito un po’ a chiunque. In ogni caso non aveva potuto fare molto: appena l’altro era riuscito a sfilarsi i vestiti e a mettersi il pigiama, tremando per il freddo, gli aveva offerto la sua tisana, che Mista aveva bevuto in un sorso bollente (non capiva come fosse riuscito a non bruciarsi la lingua). Poi aveva spento la luce della scrivania, consapevole che probabilmente il miglior rimedio per quel problema fosse dormirci su, e a sua volta si era rintanato nel letto.

Poi, era successa la cosa più curiosa di tutte.

Nonostante il peso delle ore lunghissime di studio gli gravasse sugli occhi, Giorno non era riuscito a prendere sonno in fretta come al solito – il rumore dei denti di Mista, che ancora battevano per il freddo, era totalizzante nel silenzio della loro stanza. Giorno si era rigirato un po’ sotto le coperte, inquieto, e poi aveva pronunciato il nome dell’altro con un tono che stava a malapena sopra il respiro. Mista gli aveva risposto con un grugnito che era anche un ringhio e Giorno aveva deciso che, alla peggio, quello sarebbe stato un momento imbarazzante chiuso nella loro scatola di strane interazioni delle quattro di mattina.

Così, si era alzato, aveva raccolto la sua coperta, nel buio quasi completo l’aveva stesa sul letto dell’altro facendosi guidare soprattutto dalla memoria della stanza. Mista aveva fatto un sussulto sorpreso, e Giorno aveva trovato i suoi occhi rivolti verso di lui quando aveva provato ad alzare un lembo del piumone e a chiedere, pianissimo: posso?

Mista si era fatto in là e aveva lasciato che Giorno lo abbracciasse senza troppo imbarazzo, dandogli la schiena, ed era stata una delle notti più scomode di sempre. Dopo poche ore, quando la luce della mattina filtrava già attraverso le tapparelle, Giorno era scivolato via ed era ritornato nel suo letto, guardando un’ultima volta il suo compagno di stanza che dormiva placido. Fugo poi li aveva svegliati dopo mezzogiorno, in tempo per preparare il pranzo.

E il pranzo era stato preparato, mezze maniche alla gricia. Inoltre, il campanello era stato suonato, i dirimpettai fatti entrare, il vino stappato, i mignon cacciati in frigo in attesa del dolce. E così Giorno si era trovato lì, nell’angolo della cucina, con la pancia piena e il baccano nelle orecchie.

“Il vino era… importante,” Giorno sorride con fare di scuse al ragazzo che ha davanti, “mi sento un po’ a rallentatore. Grazie per aver cucinato.”

Mista sorride, radioso, orgoglioso, e pare che la nottata precedente non sia neanche esistita. Forse a Giorno un po’ dispiace: nonostante la scomodità, anche se i capelli crespi e spettinati di Mista gli avevano fatto solletico al naso per tutta la notte, gli era piaciuto, il loro profumo di mare. Non dovrebbe neanche permettersi di interpretare quello che è successo – ha agito semplicemente perché l’altro ci avrebbe messo una vita a scaldarsi, e non poteva rimanere in disparte senza provare ad aiutarlo. È certo che in ogni caso Mista non abbia dato particolare significato alla cosa.

“Vieni fuori?” Gli propone Guido, quasi imbarazzato. “A fumare?”

Hanno sempre fumato anche dentro casa. Bucciarati sta ciccando nel posacenere sul tavolo proprio in quel momento, soffiando il fumo verso la finestra, per quanto possibile. Giorno, poi, neanche fuma.

Per queste due ragioni lo guarda dal basso, con le ciglia bionde e lunghe che si muovono insieme al suo sguardo e rilucono colpite dal sole tiepido di febbraio che filtra in cucina dal terrazzo. Guido restituisce quel guardare, con le mani sui fianchi e uno strofinaccio appoggiato sulla spalla, il grembiule stretto intorno alla vita.

Giorno sorride, annuisce, si alza lentamente, e apre la porta finestra per uscire. Guido lo raggiunge dopo essersi liberato dello strofinaccio e del grembiule. Nonostante tutto il freddo preso la notte precedente, cucinare lo ha scaldato.

Il più piccolo, appoggiato alla ringhiera di ferro, lo guarda mentre si gira una sigaretta, indossando una maglietta a maniche corte, i pantaloni del pigiama, i calzettoni lunghi tirati su fino al ginocchio, ridicoli al punto giusto. Ha anche le guance leggermente rosse, una conseguenza mista del vapore dell’acqua bollente e del vino rosso, e Giorno si sente abbastanza sciolto da poter ridere anche di questo.

“Che c’hai?” Mista gli fa un cenno col mento, corrucciando la fronte appena appena, senza nascondere il divertimento sul suo viso. “Ti faccio ridere?”

Giorno scuote la testa, guardando altrove. L’altro si sporge indietro, cercando un accendino sul balconcino della finestra, e quando si riappoggia alla ringhiera con la sigaretta accesa tra le labbra, Giorno trova che gli sia particolarmente vicino.

“Sembri contento, tutto qua,” quando Giorno fa spallucce, le loro spalle si sfiorano un poco, “e come ti ho detto, il vino era buono. Anche tu l’hai apprezzato, penso.” Vedendo l’espressione eloquente dell’altro, Mista ride di pancia, sbuffando fumo dal naso.

“Sono a malapena brillo,” lo corregge, facendo cadere la cenere nel vuoto con un colpetto alla sigaretta. “Quello che serve, insomma. Per, uhm. Beh.”

Giorno lo guarda, silenzioso e perplesso, ma Mista non restituisce lo sguardo, ed è forse la prima volta che questo succede. Un dubbio tremendo lo percorre – forse vuole parlargli della sera prima, del fatto che Giorno si è spinto troppo oltre, che solo perché hanno questa cosa strana (ti guardo mi guardi mi lascio guardare cambio i miei ritmi circadiani per te ti addormenti su di me guardando la tv ti preparo le tisane mi squadri da capo a piedi mentre il resto del mondo dorme e a malapena respira) non significa che lui possa prendersi certe libertà. Ma glielo ha chiesto, no? E Guido tremava tanto che gli battevano i denti, non si poteva lasciarlo lì.

“Senti, io sono un tipo, diciamo… semplice,” Mista guarda fisso, avanti, gesticolando con la sigaretta tra le dita, “non mi vado a complicare le cose, cerco di essere onesto con me stesso, con gli altri.” Ha una certa urgenza mentre parla, malcelata dal suo tentativo di pesare le parole con criterio. Giorno lo guarda, con il battito cardiaco che gli aumenta a cadenza regolare, un treno a vapore che inizia a partire. Se lo sente quasi in gola.

“Allora te lo dico sinceramente, Giorno, non ci sto capendo un cazzo. Però, voglio dire. Io. Mi piacerebbe…” Mista scuote la testa, continuando a muovere le mani, come se questo potesse aiutare. La preoccupazione in Giorno cresce in maniera strana, rallentata dal vino e allo stesso tempo resa più profonda, vertiginosa – le sue dita bianche si stringono intorno al ferro freddo della ringhiera, tenendosi forte. “Ieri, insomma, ho apprezzato. A parte il gesto, che tipo grazie, perché mi stavano davvero per cadere le dita dal freddo, però ho apprezzato. Sai, ecco.”

Oh. Giorno espira, buttando fuori un respiro terrorizzato che non sapeva di star trattenendo. Si crea una piccola nuvola di vapore, che si dissipa ancora prima che l’altro possa continuare a parlare.

“E mi dico, se ho apprezzato, perché me lo devo complicare?” Quando il suo cervello ingrana abbastanza da costringere Giorno a girarsi verso l’altro, lo trova un po’ paonazzo, con la sigaretta mezza bruciata e dimenticata tra le dita, lo sguardo così profondo denso scuro intenso che potrebbe scavare nel suo. Guido sta già cercando una risposta, senza neanche aver finito di parlare. “Insomma, non è così tanto difficile, magari. Mi capisci?”

Di nuovo, Giorno non è sicuro di capirlo. Non tanto per una questione di comprensione caratteriale intrinseca, quanto perché parlando si è coperto la bocca con la mano che tiene la sigaretta, e ha borbottato un po’, masticando le parole. Giorno non è sicuro di capirlo, ma ha una sensazione, e quindi ci prova comunque: lentamente, in tempo per farsi fermare, si volta verso di lui, mette una mano sul suo braccio sinistro, spingendo per allontanarlo. Mista ha un sussulto, non dissimile da quello che ha sentito appena una decina di ore fa e non dissimile da quello che sente di nuovo quando gli appoggia le labbra sulla guancia, a qualche centimetro dalla bocca. Un posto più o meno sicuro, non troppo azzardato. L’odore di fumo è forte, ma non copre quello di mare che rimane sempre nei capelli dell’altro.

La mano destra di Guido è rapida nell’aggrapparsi al braccio di Giorno, pur con la dovuta attenzione per non sporcargli i vestiti di cenere. Giorno sorride, non si sposta da lì.

“Mi stavi facendo morire di ansia,” gli ride nell’orecchio, pervaso di entusiasmo morbido, confortevole – la sua guancia si scalda e non per il vino. “Andiamo a fare una passeggiata? Fugo ci ha già notati. Tempo venti secondi e Narancia inizia a urlare.”

Così accade. C’è a malapena il tempo di spegnere la sigaretta mezza finita, di afferrare il bicchiere di Mista sul tavolo (è rimasto un fondino di vino rosso, Giorno lo inghiotte di colpo e gli brucia la gola), di prendere le proprie giacche appese in corridoio. Prima di poter chiudere la porta, iniziano gli schiamazzi: Mista lo trascina giù per le scale, rosso in viso.

Probabilmente non troveranno i loro dovuti mignon al ritorno, ma nessuno dei due riesce a dispiacersi più di tanto.

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Disclaimer: nonostante sia letteralmente il fondamento di questa storia, ci tengo a fare una specifica in quanto fuorisede, anche a costo di essere volgare. Come dissero eroi più grandi di me, “nell’ufficio e nel palazzo non mettere mai il …”: poi grazie al cielo questa è una fanfiction, e io faccio quel che mi pare, ma è una regola d'oro e ci tengo a rimarcarla. 

A parte gli scherzi, non ho molte note. La prima, evidente, è che non ho granché rispettato il prompt, ma coi prompt so di fare schifo da una decina d'anni, quindi pazienza.

La seconda è che questa storia nasce principalmente dal fatto che vento aureo ha un potenziale meme veramente fantastico, ma anche dal fatto che è praticamente un anno che vivo da fuorisede. Questa cosa per qualcuno può significare poco, ma per qualcuno che a casa propria ha sempre sofferto, l’idea di tornare a casa dopo una giornata faticosissima e trovare zero conflitto tra le proprie quattro mura significa veramente il mondo! Quindi anche se tutto questo finisce al vento, ringrazio le mie coinquiline fantastiche che attualmente stanno di là a urlare in veneto e ringrazio i miei mezzi coinquilini (sì io sono il bucciarati/abbacchio della situazione), che sono in effetti le persone completamente disastrate da cui ho preso spunto per pensare casa matti. Nel nostro caso, nessuno è morto, grazie al cielo.

Grazie per avere letto fin qua!! Ciaooo

Cate

ps: il titolo viene da Volersi male di Tananai, anche se qua nessuno si vuole male, ma ho cercato canzoni per mezzora e questa era quella che mi convinceva di più. inoltre, Born gangsta di Boss è una canzone (e anche tutto un album) che probabilmente Narancia si ascolterebbe anche nel canon, se vi piace il rap anni '90 provate a darci un'occhiata

   
 
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