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Autore: Koa__    19/10/2022    1 recensioni
Un anno e mezzo dopo il suo matrimonio, Magnus Bane vive una vita felice come Sommo Stregone di Alicante e marito dell’inquisitore Alec Lightwood. Ha una vita perfetta, un lavoro appagante e un uomo accanto che ama da morire. Da quando Clary ha riacquistato la memoria, poi, le cose non potrebbero andare meglio di così. Un giorno, però, mentre svolge il proprio lavoro di inquisitore presso l’istituto di Stoccolma, Alec scompare nel nulla. Magnus, Jace, Clary, Isabelle e Simon si recano in Svezia per indagare, ma una volta giunti lì si rendono conto che il mistero è ben più fitto di quanto non si aspettassero. Nel bel mezzo di una discussione, il gruppo riceve un messaggio nel quale si dice che, per ritrovare Alec, serviranno il Coraggio e la Magia, le abilità di Jace e Magnus dovranno quindi unirsi. Se inizialmente i due non fanno che discutere su come sia meglio agire, rinfacciandosi le cose a vicenda, a un certo punto si renderanno conto che saranno costretti ad andare d’accordo per il bene di Alec.
Genere: Avventura, Fantasy, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane, Nuovo personaggio, Sorpresa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La maledizione spezzata (Seconda parte)

 



 

A suo dire c’era un aspetto straordinario nel lottare a fianco di Jace Herondale, un qualcosa che i primi tempi dopo aver formato il legame Parabatai, aveva trovato a dir poco eccezionale ovvero il riuscire a precedere le sue azioni, come se fosse effettivamente dentro la sua testa. Essere uniti da un qualcosa di tanto profondo e intimo non riguardava unicamente il comprendere un po’ meglio i sentimenti dell’altro, o percepire la propria pelle bruciare quando una ferita squarciava la carne del proprio compagno, a detta di Alec aveva a che fare con l’armonia. Quando andavano a caccia di demoni, lui e Jace erano in perfetta assonanza. Si muovevano con una coordinazione esemplare, i loro cuori iniziavano a battere alla medesima velocità e le loro abilità diventavano più accentuate. Ci si sentiva più potenti che mai quando si lottava con il proprio Parabatai che ti copriva le spalle, questo lo avrebbe detto qualunque Shadowhunter che ne aveva uno. Quella sera, Alec si era sentito diverso fin da quando suo fratello aveva tracciato alcune rune sulla sua pelle. Negli ultimi giorni aveva lottato sempre da solo, non aveva chiesto aiuto alle creature magiche della vallata, se non per quanto riguardava il badare ai bambini. Ma anche prima, da quando era diventato Inquisitore non erano poi molti i momenti in cui andavano a caccia insieme. Alec si rese conto di aver dimenticato come ci si sentiva. Le rune tracciate da Jace erano potenti, molto più di quanto non lo fossero mai state e non riusciva a non pensare che avesse a che vedere con il luogo in cui si trovavano. Quando il suo stilo aveva toccato la pelle scoperta del suo braccio, aveva sentito il potere angelico di Ithuriel scorrergli nelle vene e divampare nello stomaco al pari di un incendio. Prima la runa dell’agilità, poi quella della resistenza e infine una per la visione notturna. In pochi istanti, il suo corpo era diventato un quadro fatto di pura luce dorata.

«Io prendo questo» aveva dichiarato Jace, minuti più tardi, afferrando uno dei mazzafrusti e facendogli anche l’occhiolino. Alec si era messo l’arco in spalla, riempiendo la faretra di tutte le frecce che al mattino correva poi a recuperare dai corpi dei demoni. Aveva anche preso anche una lama angelica e ora la teneva a testa in giù mentre con mano ben ferma stringeva l’elsa.
«Gabriel» aveva detto tra sé, prima che l’adamas si illuminasse. Quindi si era messo a spiare attraverso una delle feritoie che quella vecchia porta di legno aveva tra le solide assi. Fuori stava già diventando buio, ma riusciva a vedere  distintamente almeno una cinquantina di demoni. Erano corsi a gran velocità in direzione della torre, ma miracolosamente si erano fermati al limitare della piccola radura. Alec aveva intravisto un enorme demone ragno al di là delle siepi di mirto, l’enorme bestia aveva calpestato le sterpaglie e i rovi con le sue enormi zampe. Al solo vederlo, si era pietrificato. Aveva sempre avuto il terrore dei ragni. Forse era il caso di tracciare anche una runa del coraggio dato che era probabile non sarebbe riuscito a uscire da lì.
«Cosa vedi?» chiese Jace, curioso mentre faceva roteare il mazzafrusto a mezz’aria.
«Sembra che non riescano a entrare» notando la maniera furiosa con cui testardamente andavano a sbattere contro una sorta di muro invisibile. «Credo che Magnus abbia issato una barriera magica.»
«Può essere» ribatté il suo compagno, allungandosi fino alla porta e spiando dall’altra sottile feritoia. Proprio in quel momento si sentì un plop schioccare nell’aria, come di un qualcosa che si rompe all’improvviso e, poco dopo, un qualcosa di molto pesante impattare contro la porta. Incredibilmente, questa resse il colpo, sebbene i cardini avessero tremato e l’intera torre avesse vacillato.
«Alexander, Jace! Mi sentite?» la voce di Magnus riecheggiò giù per le scale, meno di un attimo più tardi. Non li aveva raggiunti di sotto, ma parlava direttamente dalla stanza da letto. Era sicuro che avesse usato un qualche tipo di incantesimo per potenziare la propria voce; pareva allarmato. Come se la sola idea di non essere con loro lo terrorizzasse.
«Siamo qui» ribatté Alec, avvicinandosi al primo gradino e guardando all’insù. Non poteva vederlo, dato quella era una scala a chiocciola, ma poteva portare al meglio la sua voce verso l’alto. «Abbiamo appena finito di tracciarci le rune, che succede?»
«Le mie difese magiche non tengono» gli rispose, confermando le sue teorie. «Sembra che gli angeli non vogliano che protegga questo posto. Dovrete combattere quei demoni da soli, io faccio più presto che posso.»
«D’accordo, ci pensiamo noi» urlò, tornando verso la porta intanto che stringeva maggiormente le dita attorno all’elsa della spada. Non era un vero dramma, erano soltanto dei demoni e loro erano Nephilim, erano nati per questo.
«Iniziamo dai due ragni» disse un Jace particolarmente spiccio. Era l’idea migliore, liberarsi il prima possibile di quelle bestie orribili era quello che chiunque avrebbe fatto. Nel dubbio, però, la runa del coraggio * la tracciò per davvero, sebbene suo fratello lo avesse guardato storto per la maggior parte del tempo. “Non giudicarmi” pareva dire lo sguardo di Alec, intanto che il disegno sul braccio sinistro si illuminava. Non era mai una buona idea, secondo Clary che l’aveva disegnata per la prima volta, andava utilizzata con parsimonia perché si potevano anche commettere azioni sconsiderate. E in famiglia c’era già Jace che corrispondeva a descrizione.


«D’accordo, sei pronto?» chiese, poi, determinato a mettere fine a quella situazione. Sentiva l’adrenalina increspare la pelle e l’aspettativa fargli formicolare un qualcosa di non ben definito alla base della nuca. Non aveva paura, al contrario aveva l’orribile sensazione di essere invincibile. Non era per via della runa, non soltanto, era perché lassù in cima a quelle scale c’era la sua famiglia e Alec l’avrebbe protetta a tutti i costi. Sentiva il bisogno viscerale di spezzare la maledizione che incombeva su Max e Rafe, voleva portarli a casa e iniziare una nuova vita tutti insieme.
«Scommetto che ne farò fuori più di te, fratello» commentò Jace, facendo roteare il mazzafrusto con incredibile abilità. Alec alzò gli occhi al cielo nel sentirlo parlare in quel modo. Aveva dimenticato anche che suo fratello trasformava tutto in una sfida, eppure un sorriso si stirò sulle sue labbra. Avrebbe mentito se avesse detto che non gli era mancato.

 

 
La lotta fu complicata, per certi versi estenuante. A dirla tutta sembrava non finire mai, il che aveva gettato Alec nello sconforto a un certo punto, più precisamente quando la runa del coraggio era svanita. Non durava mai troppo, il che poteva considerarsi soltanto un bene. Avevano tolto di mezzo i due enormi demoni ragno, le frecce non erano bastate a fermarli, avevano dovuto tagliar loro le zampe e poi Jace li aveva finiti con il suo nuovo mazzafrusto, del quale per altro andava discretamente fiero. I primi cinquanta demoni caddero ai loro piedi privi di vita nel giro di una mezz’ora. Il potere di due Parabatai che combattono l’uno a fianco dell’altro, avrebbe potuto annientare eserciti interi e così fu quella notte. Alla fine della battaglia, Alec si ritrovò fastidiosamente coperto di icore. Puzzava anche come uno di quegli esseri e Jace pareva messo molto peggio di lui. Dopo aver tagliato la testa a un demone, un po’ del suo sangue velenoso gli era schizzato sul viso, causando una piccola bruciatura. La bocca di Alec si era spalancata per lo stupore quando si era reso conto che non aveva avuto bisogno di tracciare l’iratze per guarire. Lui, già era pronto con lo stilo in mano, aveva visto con ammirazione tutte le sue rune di Jace illuminarsi di una luce dorata. La bruciatura era sparita subito dopo.
«Wow!» fischiò per la sorpresa, intanto che suo fratello osservava con disgusto la giacca di pelle tutta sporca.
«Sono i vantaggi dello stare in questo posto» aveva ribattuto, facendo spallucce e lamentandosi subito dopo di quanto fosse inzaccherato di icore e terra. Aveva i capelli infangati e con del sangue di demone che era colato sulla fronte, i pantaloni si erano strappati e aveva macchie non ben definite sul viso. Nonostante l’aspetto suggerisse tutt’altro, si ritrovò a pensare che fosse angelico come nessun altro Nephilim avrebbe mai potuto essere.
«Ad ogni modo è stato bello lottare di nuovo al tuo fianco. Mi era mancato» ammise Alec, abbozzando un sorrisetto che però si spense subito. I demoni erano stati cacciati, anche se sapeva per esperienza che non era ancora finita. Tuttavia fu a Magnus a cui dedicò i pensieri successivi: come se la stava cavando? Sollevò il viso verso l’alto, c’era una luce accesa là in cima alla torre. Era calda e bellissima. Per tutto il tempo in cui erano stati lì non aveva percepito lo sguardo di suo marito sulla schiena, nessuna familiare sensazione di benessere gli aveva fatto formicolare la nuca e la sua magia non era volata a destra e a sinistra per dar lo aiuto. Che fosse in difficoltà? Era probabile che stesse facendo delle ricerche prima di gettare un incantesimo, era sempre così attento quando si trattava di magia. Alec non dubitava che quello legato a Max e Rafe fosse un nodo difficile da sciogliere. Nonostante avesse indagato tra le fate e gli esseri magici della vallata, nessuno era stato in grado di dirgli di quale maledizione si trattasse, pertanto aveva supposto fosse roba da stregoni. Alec si era messo in testa che fosse un qualcosa di complicato e potente, ma tuttora non aveva idea neanche di chi l’avesse gettata su di loro. Questo voleva dire che suo marito doveva essere molto impegnato a decifrare un puzzle, reso ancora più misterioso dal fatto che tutto quello avesse a che vedere con gli angeli.
«Anche a me, fratello» ribatté Jace, attirando la sua attenzione prima di corrergli incontro e abbracciarlo senza fare troppe cerimonie. Era mancato anche a lui, lo sapeva. Ma così come lui e Isabelle, Jace mostrava di star soffrendo con molta meno facilità rispetto a chiunque, immaginava fosse una di quelle caratteristiche che aveva assimilato crescendo con i Lightwood.
«Però non credo sia finita. Ne stanno arrivando degli altri.» Non appena ebbe finito di dirlo, un demone raul balzò da dietro una delle siepi, finendo solamente a un paio di metri di distanza da loro. Alec incoccò una freccia così rapidamente che il suo Parabatai ebbe a malapena il modo di accorgersene. Subito dopo quell’essere orribile giaceva trafitto a terra, morto. Da quel momento ne arrivarono ancora, un numero che riusciva a contare soltanto perché Jace non faceva che fargli presente di essere in vantaggio di almeno tre demoni morti. Secondo lui non contava il fatto che Alec avesse fatto fuori una manticora grazie a un preciso colpo di spada ben assestato sulla nuca. quello continuava a valere come singolo demone qualsiasi.
«Bel colpo!» lo sentì esclamare intanto che attaccava ferocemente l’ennesima creatura infernale. Andarono avanti in quel modo fino a quando Magnus non spuntò dalla porticina della torre, con i suoi occhi da gatto e fiammelle bluastre di magia che gli fuoriuscivano dalle mani. Aveva a malapena avuto il tempo di guardarlo e sorridergli timidamente, che lo aveva sentito pronunciare una formula magica in latino, un istante dopo tutti i demoni erano stati polverizzati. La vallata si ritrovò silenziosa come mai Alec l’aveva sentita.
«Ehi, ma così non vale però» si era lamentato subito Jace, guardandosi attorno e assumendo un’espressione contrariata nel notare che il suo divertimento era già finito.
«Sì, beh, abbiamo di meglio da fare ora» replicò Magnus, restando impalato sulla soglia. Aveva ancora le mani tese e scrutava l’orizzonte come a voler sfidare qualsiasi altra creatura demoniaca ad attaccarli ancora. Nessuno si fece avanti. Cosa ci faceva lì? Si chiese, aveva risolto il problema? O forse era accaduto qualcosa?
«I bambini stanno bene?» si allarmò subito, portando nuovamente gli occhi in cima alla torre. La luce era ancora accesa, sembrava la fioca illuminazione di quella vecchia lampada a olio che teneva sul comodino.
«Sì, ma ho bisogno del vostro aiuto, muovetevi!» E detto questo, suo marito volò su per le scale senza nemmeno aspettarli. Qualunque cosa fosse accaduta, lassù in alto, non voleva aspettare un solo momento. I suoi figli, si disse mettendo un piede avanti all’altro con una fretta indiavolata, avevano bisogno di lui.


 

Arrivarono in cima in un lampo, da quando lo conosceva Alec non ricordava di aver mai visto Magnus Bane correre in quel modo. Neanche quando Sephora aveva annunciato una svendita totale con prezzi stracciatissimi; eppure all’epoca aveva urlato, si era cambiato d’abito ed era uscito di casa in meno di trenta secondi. Ripensò con divertimento a quel giorno, almeno sino a quando non giunse sulla soglia della camera da letto, a quel punto l’incertezza tornò prepotente in lui. I bambini non erano più nella culla, ma erano stati posati a terra, sopra a un cuscino che Magnus aveva sistemato sotto ai loro corpicini. Si trovavano all’interno di un pentacolo tracciato sul pavimento con del gesso, a ogni angolo del simbolo magico c’era una candela bianca. Le stelle a cinque punte di solito servivano per…
«Prima che tu me lo chieda» gli disse, interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Sino ad allora, suo marito era immerso nella lettura di un libro antico. In effetti di quelli ce n’erano diversi sparsi per la stanza, alcuni chiusi e gettati a casaccio contro le pareti rotonde, mentre altri aperti a pagine che parlavano di malefici. Alec li riconobbe senza troppa fatica: erano gli stessi che avevano nella libreria, al loft. Molti contenevano incantesimi antichissimi, erano testi di magia o manuali da stregoni che Magnus aveva collezionato nel corso dei secoli. Secondo Catarina quella era la biblioteca più fornita dopo il Labirinto a Spirale. Quello che suo marito aveva in mano invece era il Grimorio, ovvero il testo sacro che conteneva tutti i personali incantesimi di uno stregone. Lo stesso che stava in una cassaforte, a casa, protetto da un potentissimo incantesimo. Era rimasto immerso nella lettura fino a che non aveva parlato: «Quello che vedete è un pentacolo di protezione. Le barriere non hanno funzionato attorno a noi, ma funzionano con loro, il simbolo aumenta il potere magico.» Alec aveva anche notato che i bambini non sembravano spaventati, ma che ridevano come matti. Si divertivano a cercare di afferrare delle lucine colorate che saettavano impazzite sopra le loro teste. Luccicavano e si muovevano in maniera irregolare e imprevedibile, sarebbero potuti rimanere lì per sempre, pensò sorridendo.

«Il Leprecauno lo aveva detto» disse, probabilmente leggendo nella sua mente. «O meglio ha detto cose che all’epoca non avevo proprio capito, ma quando li ho visti ho unito i puntini. Ho voluto provare a farli giocare in questo modo. Come ho creato quell’incantesimo hanno smesso di piangere.»
«Hai fatto bene» gli disse, sorridendo nel notare quanto fossero felici. Gli aveva già sentiti ridere in quel modo, la prima volta quasi si era commosso per la felicità. Le fate usavano trucchi simili per farli giocare, erano già molto abituati alla magia, ma quella sembrava starli facendo impazzire di gioia. «Quindi hai capito qualcosa?» si azzardò a chiedere, riportando lo sguardo su di lui. Magnus sollevò gli occhi dal libro, chiudendolo con uno scatto. Aveva un’espressione furba in volto, piuttosto soddisfatta a dire il vero. Era come se fosse riuscito ad afferrare il senso stesso dell’esistenza e ora morisse dalla voglia di mostrarlo anche a lui.
«So molto di più, fiorellino. So tutto!» esclamò.
«Tutto cosa?» intervenne Jace che nel frattempo si era steso sul letto morbido e guardava il soffitto distrattamente.
«Come sono nati, quale tipo di incantesimo è stato gettato su di loro, ogni cosa che li riguardi» disse, agitando una mano a mezz’aria come a voler indicare il luogo stesso in cui si trovavano o il perché erano stati portati lì. Tutte questioni su cui si era fatto domande per giorni, ma a cui non aveva mai trovato una risposta.

«Sono stati partoriti da una donna umana, come spesso succede con gli stregoni» esordì, dopo qualche attimo di silenzio. «Gli angeli le hanno concesso la libertà di scegliere, a quanto ho capito. Le hanno chiesto se voleva portare in grembo due bimbi molto speciali, per due genitori che non potevano portare avanti una gravidanza. Nella mia visione l’angelo le ha anche specificato che però non avrebbe mai potuto crescerli, in cambio le hanno offerto molte ricchezze.»
«Restare incinta per soldi» commentò Jace, con una pessima uscita, mettendosi seduto sul letto intanto che incrociava le braccia al petto.
«Non giudicare, Shadowhunter» lo rimproverò Magnus, severo. «Lo fanno moltissime ragazze e non c’è niente di male. Inoltre la donna ha capito subito che quello che le era apparso era un angelo, ed essendo molto devota, ha detto di sì.»
«Poi che è successo?» chiese Alec, curioso. Era tentato di andare dai piccoli, anche solo per baciar loro la fronte o dargli un buffetto sulle guanciotte piene, ma non sapeva se la magia che li proteggeva li avrebbe difesi anche da lui. Se così fosse stato probabilmente ci sarebbe rimasto male, quindi nel dubbio rimase fermo dove stava e si limitò a osservarli da lontano.
«Beh, è rimasta incinta miracolosamente. Ha cresciuto Max e Rafe dentro di sé con amore, quando sono nati ha capito che la loro natura non era solamente angelica e, temendo di essere stata ingannata da un demone, ha gettato su di loro una maledizione.» A quel punto la voce di Magnus parve tentennare. Alec la sentì tremare leggermente e quando riprese era ancora più roca: «Probabilmente la donna aveva sangue di fata nelle vene, magari senza saperlo, è per questo che i suoi malefici hanno funzionato. Questa è la sola cosa che non so per certo. Ad ogni modo ha augurato loro di perire sotto le ferite dei demoni più spietati, ha detto che sarebbero finiti all’inferno, e che solo i loro veri genitori avrebbero potuto salvarli. Per far sì che questo non avvenisse, però, li ha nascosti convinta che gli angeli non sarebbero mai riusciti a trovarli.»
«Ma così non è stato» annuì Jace.
«Neanche loro si aspettavano che la maledizione funzionasse, era solo una mondana o così erano convinti. Quando però i primi demoni hanno iniziato ad attaccare, hanno creato questa vallata magica e li hanno portati qui. La torre è stata innalzata unicamente per difenderli, l’angelo ha preso a Max e Rafe due ciocche di capelli, le ha gettate a terra ed è sorta una torre. Per questo non possono uscire prima che la maledizione non sia spezzata, questa è la sola protezione che hanno contro quegli esseri. Anche se cercano di attaccarli, è improbabile che uno di loro riesca a ucciderli finché si trovano qua dentro.» Quindi, Magnus finì di parlare, la sua voce si spense in un sussurro. A terra, i bimbi ridevano. 


 

Alec ripensò a tutte le creature demoniache che aveva affrontato e ucciso negli ultimi sei giorni, a quelli che cercavano costantemente di abbattere la torre preferendo questa prospettiva al salire le scale. Di norma non avrebbero dovuto neanche avvicinarsi, ma Gabriel aveva dichiarato che le difese magiche dei bambini stavano venendo meno. Ma tutto questo Alec lo sapeva, aveva capito da sé che la maniera di attaccare che avevano quegli esseri era diversa rispetto a quanto avesse mai visto. Non dubitava che avrebbero finito con l’unire le forze e cercare di abbattere la torre, se necessario. Anche per questo aveva sempre tentato di tenerli lontani dall’edificio. Chiudendo gli occhi e inspirando lentamente, di modo da riacciuffare il proprio autocontrollo, Alec ripeté a se stesso che non doveva arrabbiarsi, che andava bene così. Così non era, in realtà era furioso e non andava bene proprio niente, ma evitò di indugiare su quel pensiero, perché se avesse aperto bocca era probabile che avrebbe gridato. Da quando suo marito aveva smesso di parlare, poi, il silenzio era sceso pesante su tutti loro. I bambini ancora ridevano, Jace pareva perso nei propri pensieri mentre Magnus… Alec non aveva avuto la forza di guardarlo negli occhi, ma immaginava come si fosse sentito ad aver visto quelle cose. Il suo aver evitato di discutere dell’argomento “Figli” era indicativo del fatto che stesse ancora metabolizzando la novità. Avrebbe voluto abbracciarlo e mettere fine a tutto quello semplicemente schioccando le dita. Suo marito aveva già sofferto abbastanza in vita sua e pensare a quei bimbi tutti soli in una vallata piena di creature magiche a loro sconosciute che respingevano demoni al punto da esaurire le loro già poche energie, quando loro non ne avevano saputo niente finora, era la parte più complicata da mandare giù. Avrebbe richiesto del tempo, questo era sicuro. Non potevano farci più niente, faceva male, ma era inutile rimuginare sul passato. Jace aveva avuto ragione prima quando aveva parlato della loro rottura e probabilmente ne aveva anche adesso. C’era proprio questo sentimento dentro di lui, Alec riusciva a percepirlo così come a vederlo nei suoi occhi. Nessuno avrebbe mai potuto immaginare una cosa del genere né che i loro figli avessero avuto una vita simile. Il suo sguardo si rabbuiò, per istinto volse lo sguardo ai suoi figli. Stavano ancora giocando con le lucine colorate, agitavano le manine paffute verso l’alto, aprivano e chiudevano le dita come a voler afferrare l’aria e ridevano, ridevano tantissimo. Mai in tutta la vita aveva provato un così feroce istinto di protezione, avrebbe voluto portarli via da lì subito e non pensare più a niente.
 

«Mh, come sai tutto questo?» intervenne Jace, rompendo gli indugi e spezzando il silenzio. Se l’era domandato, ma sapeva che uno stregone aveva risorse che un Nephilim, per quanto potente, poteva soltanto sognare.
«Grazie all’incantesimo che ho utilizzato prima su Alexander ho assistito a tutta la loro storia. Hanno sei mesi, ad ogni modo e...»
«E hai capito anche come farli uscire da qui?» lo interruppe Alec con voce tagliente. Stava già mandando all’aria tutti i buoni propositi di lasciarsi ogni sentimento negativo alle spalle e concentrarsi unicamente sul futuro. Non avrebbe dovuto rimuginare sulle decisioni degli angeli, eppure adesso era arrabbiato. Non capiva proprio per quale ragione avessero agito in quel modo. Perché non avevano annunciato direttamente a loro la nascita dei bambini? In fondo avevano i geni dei Lightwood e anche quelli di Magnus, che senso aveva farli nascere dal ventre di una sconosciuta? Sua sorella Isabelle, così come molte altre Shadowhunter a Idris, si erano offerte come madri surrogate. Quando avevano saputo del loro matrimonio si erano offerte di portare in grembo il loro figlio e Alec non dubitava che avrebbero mancato alla parola. Se Max e Rafael fossero cresciuti ad Alicante li avrebbero protetti al meglio delle loro possibilità, avrebbero potuto accoglierli in casa sin dal primo attimo di vita. E invece erano stati abbandonati, odiati e attaccati dai demoni più feroci dell’inferno.
«Sì» annuì suo marito. Alec sfarfallò le ciglia, svegliandosi all’improvviso, non si era accorto che gli si era fatto così tanto vicino. Eppure ora stava a un palmo dal suo naso e sorrideva furbescamente. C’era un’espressione incoraggiante sul suo volto, come se fosse sicuro che quella situazione orribile sarebbe finita per il meglio.

 

«Alexander, ho bisogno del vostro aiuto adesso. Credi di farcela?»
«S-Sì» balbettò, scrollando la testa e irrigidendo la postura. Per istinto strinse la mano all’altezza del torace, dove di solito premeva l’arco. Ricordò soltanto allora di averlo levato, sentiva il peso delle armi mancare e non posarsi più sulla schiena. Fu una mancanza quasi fastidiosa da sopportare.
«Io non pensavo avessero passato tante cose brutte.»
«Lo so, tesoro e capisco che sia difficile. Io ancora devo realizzare di avere due figli che sono biologicamente sia miei che tuoi, ma avremo tutta la vita per pensarci e discuterne. Adesso dobbiamo liberarli dalla maledizione che li costringe in questo posto e portarli a casa.» Si ritrovò ad annuire senza quasi rendersene conto, Magnus aveva ragione. La loro priorità era la maledizione e nient’altro. Non dovevano lasciarsi andare ai sentimentalismi, erano Shadowhunter. Lui era uno Shadowhunter, il signor Inquisitore e la missione veniva prima di tutto.

«Perché hai bisogno di me e Alec, a proposito?» domandò Jace, avvicinandosi a loro con la mani nelle tasche e un’aria quasi timida.
«Perché tu hai puro sangue di angelo nelle vene e sei più potente di un comune Nephilim mentre Alec è il tuo Parabatai. In questo luogo il tuo legame con lui è più forte. Insieme avete l’energia che mi serve per realizzare questo incantesimo e comunque i bambini sono per metà Shadowhunter, occorrerà anche la vostra forza angelica e non solo la magia di Asmodeo.»
«Coraggio e Magia arriveranno e ti aiuteranno a spezzare la maledizione» mormorò, parlando più che altro fra sé, ricordando del giorno in cui l’angelo gli era apparso. «Me lo ha detto Gabriel, pensavo intendesse in senso metaforico, ma invece mi rendo conto che parlava letteralmente.»
«Beh, avrebbe potuto dirti anche di più, ci avrebbe risparmiato un sacco di fatica» commentò Jace, pungente, intanto che Magnus toglieva le candele dal pentacolo e la barriera magica attorno ai piccoli svaniva con un altro lieve plop.
«Preparatevi, sarà impegnativo» disse allargando le braccia e invitando entrambi a prenderlo per mano. Lo fecero tutti e due senza alcun indugio e, quando l'incantesimo iniziò a essere recitato, la luce della lampada sul comodino sfarfallò.

 

Aveva già dato a Magnus la propria forza, quando avevano aiutato Luke Garroway a guarire dal morso dell’alpha. All’epoca neanche stavano insieme e lo aveva aiutato soltanto perché, dentro di sé, sentiva che poteva fidarsi di lui. Ora come non mai, Alec era disposto a concedergli anche la più piccola stilla di energia. Aveva bene in mente cosa si provava, per quanto fosse un Nephilim e avesse una resistenza maggiore rispetto a quella di chiunque altro, ricordava all’epoca anche di essersi sentito spossato quando tutto era finito. Dopo che Magnus ebbe stretto la sua mano si sentì invadere da una devastante ondata di magia, all’improvviso ebbe come la sensazione che la sua forza venisse letteralmente risucchiata fuori dal corpo, facendogli tremare le ginocchia. Iniziò a sudare dalla fronte e a vacillare vistosamente, stringendo al meglio che poteva la mano di suo marito quasi fosse stato il suo unico appiglio dentro a un mare in tempesta. A malapena aveva la forza di voltarsi e guardarlo, neanche capiva quello che stava dicendo, la litania che recitava era in una lingua a lui sconosciuta. Qualunque cosa fosse, però, stava funzionando. A un certo punto attorno a loro si creò un vortice, un miscuglio della magia demoniaca di Asmodeo e del potere benefico dei Nephilim. Alec non aveva idea di come avesse fatto a intuire di cosa si trattasse, ma capì che quelle erano le loro essenze e che l’incantesimo stava attingendo a fondo in ciò che erano. Stava scavando dentro a ogni ricordo piacevole, così come nei sentimenti che provavano l’uno per l’altro, a ciò che li legava come amici, fratelli, amanti, uomini innamorati. Sentì un’ondata di puro amore platonico arrivare da Jace e un altro tipo di sentimento amoroso, uno ancora diverso, provenire invece da Magnus. Percepì quello che suo marito provava per lui, dalla gioia alla passione, sino addirittura alla venerazione. Erano sensazioni piacevoli, che gli fecero battere forte il cuore e girare la testa. Quella, in effetti, stava girando anche per altro. L’incantesimo stava prendendo tutte le sue energie, quella tiritera gli entrava fin dentro il cervello, ma via via che veniva ripetuta diventava sempre più distante. Era come se non riuscisse a sentire bene, gli fischiavano le orecchie e aveva male alla testa, eppure resisteva. Doveva farlo per quei bambini, per i suoi figli. Si voltò verso Magnus come a cercare in lui quel briciolo in più di determinazione di cui aveva bisogno, notò subito che i suoi occhi da gatto avevano un’espressione concentrata e seria. Le labbra si muovevano senza sosta, a mormorare l’incantesimo mentre, attorno a loro, il vortice di magia non aveva smesso di turbinare. Alec avrebbe voluto chiedergli se mancava ancora molto alla fine, ma quando aprì la bocca non gli uscì nemmeno un suono. Era come se non avesse più voce, il mal di testa si era diffuso in tutto il corpo e ora anche un senso di nausea risaliva sin dallo stomaco, rivoltandoglielo. Era certo che sarebbe svenuto, ma poi all’improvviso le parole cessarono e il vortice si spostò sui bambini, avvolgendoli completamente. Una luce intensa lo accecò nell’attimo stesso in cui il turbine li avvolse, sollevandoli da terra. Alec si sforzò di tenere gli occhi aperti, ma fu impossibile. Se quella luce bianca stava diventando sempre più intensa, lui si faceva più debole. Forse era una conseguenza dell’incantesimo o magari era il volere degli angeli, non lo sapeva. Sentì Magnus lasciare la presa sulla sua mano e allora tentò di raggiungerlo allungando il braccio, ma non ci riuscì. Aveva la strana sensazione di galleggiare a mezz’aria e trovarsi di una sorta di limbo fatto di gelatina. Era un sentore molto familiare, un calore piacevole e che aveva l’impressione di conoscere perfettamente. Provò di nuovo a parlare, a chiamare suo marito e anche suo fratello, ma di nuovo non riuscì a emettere un suono. Aveva l’impressione che fossero lì con lui, ma non poteva vederli.

 

«Alexander!» Una parola a lui conosciuta. Il suo nome. Qualcuno lo stava chiamando e c’era una sola persona a farlo in quel modo. Aveva sempre pensato che il proprio nome fosse altisonante e pomposo, per questo tutti usavano il diminutivo, ma a Magnus non era mai importato e comunque, ad Alec piaceva essere chiamato in quel modo da lui.
«Apri gli occhi, fiorellino.» Questa volta la sua voce gli arrivò in maniera più marcata, lo sentì soffiare nel suo orecchio una risata soffice. Era piacevole averlo così vicino, non ci si sarebbe mai davvero abituato ad avere accanto a sé un uomo del genere.
«Ancora cinque minuti, è presto» si lamentò, non voleva svegliarsi. Non lo voleva davvero. Aveva fatto un così bel sogno! Stava nuotando in un mare di luce e non si era mai sentito tanto bene.
«Fiorellino, non sei nel nostro letto, ma su un prato umido coperto di sangue di demone.»
«Eh, cosa?» domandò, aprendo gli occhi di scatto e mettendosi a sedere. Un capogiro gli fece pentire di essersi mosso così velocemente, se Magnus non lo avesse sorretto, era certo che sarebbe caduto di nuovo nell’erba. D’accordo, si sentiva davvero molto debole e quando finalmente riuscì a mettere insieme due ragionamenti di fila, così come anche ad aprire decentemente gli occhi, ricordò tutto: i bambini, l’angelo Gabriel, i demoni e l’incantesimo per liberarli dalla maledizione.
«Che è successo?» domandò guardandosi attorno. Erano fuori dalla torre, anche se non aveva idea di come avessero fatto a trasportarlo né del perché non l’avessero semplicemente messo sul letto, in attesa che si svegliasse. Però se erano usciti significava anche che qualsiasi cosa Magnus avesse fatto, aveva funzionato. I piccoli sembravano star bene, notò che li aveva sistemati dentro a un passeggino e sembrava stessero dormendo. Era stata una giornata molto pesante per loro, pensò addolcendo lo sguardo.
«Sei svenuto durante l’incantesimo, fratello» ridacchiò Jace, prendendolo in giro. Subito però gli tese una mano, aiutandolo a tirarsi in piedi. Gli girava ancora un po’ la testa e si sentiva fiacco, ma tutto sommato stava bene.
«Colpa mia, confettino» si scusò Magnus, stringendolo per la vita e baciandolo su una guancia. «Ho preso davvero troppo da voi, Jace ha resistito per via del sangue di Ithuriel, ma tu sei caduto a terra. Ti senti bene?» gli chiese. Annuendo appena, Alec chiuse gli occhi: le dita affusolate di Magnus stavano sfiorando la pelle del suo viso. Amava essere toccato in quel modo da lui, era piacevole e ora che lo aveva così vicino si rendeva conto di quanto la mancanza avesse pesato.
«Sono solo un po’ stanco, ma sono felice perché l’incantesimo ha funzionato. Non siamo più nella torre!»
«Tecnicamente ci siamo ancora» replicò lui, enigmatico. «Non ci siamo mossi di un millimetro, è la torre a essere sparita.»

«Che cosa?» Oddio era vero, osservò sfuggendo all’abbraccio di Magnus e facendo qualche passo in avanti intanto che si guardava attorno. E lui nemmeno se n’era accorto! Nessun altro edificio si stagliava più sul fondo di quella vallata. Era tutto scomparso, fatta eccezione per le armi, accatastate da una parte, disordinatamente. Avrebbero dovuto renderle all’Istituto di Stoccolma, ma come spiegare quello che era successo? Alec sapeva di non volerci pensare adesso.
«Quando ho finito di recitare l’incantesimo si è aperto un portale, uno identico a quello che gli angeli hanno usato per portarci qui. Solo che invece che ritrovarci a Stoccolma, o da una qualsiasi altra parte, siamo rimasti qui e la torre era sparita. Era la loro massima protezione contro i demoni e adesso non ne hanno più bisogno.»
«Stai dicendo che è andato tutto bene? Possiamo tornare a casa?» Alec vide Magnus annuire, poi un grande sorriso esplose sul suo volto. Era tutto finito.

        


 
Era il momento di tornare a casa, aveva dichiarato suo marito, entusiasta. Avevano deciso come prima cosa di andare ad Alicante e portare i bambini al sicuro, poi avrebbero pensato a raccontare a Izzy, Clary e Simon quello che era successo. Stando a quanto gli avevano detto, quando il portale dell’angelo si era aperto, erano insieme all’Istituto con Erik, pronti a indagare sulla sua scomparsa. Conoscendo sua sorella, era piuttosto sicuro che non fosse rimasta ferma a non far niente e che a suo modo, con il prezioso aiuto di Clary e Simon, aveva fatto qualcosa pur di trovarli. Però potevano essere finiti chissà dove. Avendo notato che i cellulari ancora non prendevano, Jace decise per un messaggio di fuoco, quantomeno per avvertirli che stavano tornando a casa. Clary avrebbe potuto aprire un portale anche da sola. Aveva appena recuperato lo stilo dalla tasca dei pantaloni, quando il Leprecauno sbucò letteralmente dal nulla. Gli aveva picchiettato sul fondoschiena con il suo bastone nodoso e Alec, spaventato, aveva emesso uno strillo acuto che era riecheggiato per la vallata e agitato i bambini. Si portò una mano alla bocca, pentendosi amaramente di aver esagerato e sperando con tutto il cuore di non averli svegliati e quando abbassò lo sguardo notò che quel buffo tizio dal cappello verde stava sorridendo da dietro la sua folta barba grigia. 

 

«Non così in fretta, spilungone!» esclamò, parlando con la sua solita voce roca e inacidita.
«Oh, giusto» si ricordò Alec, arrossendo per l’imbarazzo. «Stavamo dimenticando di salutarti. E ti rinnovo anche i miei ringraziamenti per tutto l’aiuto che mi hai dato.»
«Ah, non è per questo che sono qui» replicò lui, stizzito. «Ma comunque ti ringrazio. No, sono venuto perché su al ponte c’è un gruppo di campeggiatori di cui mi piacerebbe liberarmi, grazie tante.»
«E lo dici a noi?» domandò Jace, confuso e irritato. In effetti non era compito loro, avevano già fatto abbastanza o no? «Cioè, se si tratta di demoni potrei anche fare un…»

«Niente del genere, Shadowhunter antipatico» ribatté il Leprecauno, indispettito e facendo arrossire Jace sulle guance. «Però penso proprio che li conosciate: un succhiasangue che avrei preferito non incontrare mai nella vita e due femmine di Nephilim piuttosto aggressive. Belle, ma battagliere. Una di loro voleva far saltare in aria il mio ponte» gli disse, a mo’ di confidenza. Alec sorrise immediatamente, aveva capito subito che stava parlando dei loro amici. In più, soltanto Izzy poteva avere l’idea di far saltare un ponte per minacciare un povero gnomo irlandese.
«Chissà come hanno fatto a trovarci» disse Magnus, meditabondo. «Noi non eravamo riusciti a localizzarti nonostante il tuo legame con Jace. Ad ogni modo è troppa la strada da fare fin là a piedi, apro un portale così li recuperiamo.» Detto e fatto. Magnus fece l’incantesimo senza pensarci due volte, agitò le mani e un portale dal consueto colore violetto si aprì davanti ai loro occhi. Il primo a oltrepassarlo fu Jace, quasi correndo. Giorni lontano da Clary, dopo averle promesso che non l’avrebbe lasciata per più di un pomeriggio? Beh, non dubitava avesse così tanta fretta. Si fece avanti anche Alec, spingendo il passeggino non senza fatica dato che non correva bene sul prato e a seguirlo c’erano Magnus e il Leprecauno, che a suo dire preferiva la strada più breve. Qualche istante più tardi si ritrovarono in uno di quei luoghi di cui aveva tanto sentito parlare, ma che non aveva mai visto. 

 

Alle loro spalle, un ponte fatto di corda e assi di legno, piuttosto inquietante e dall’aria pericolosa, si stagliava su un profondo precipizio. A qualche metro c’era la foresta incantata. L’aveva osservata dalla finestra della torre per giorni, incuriosito e attirato dalla potenza magica che percepiva, ne era stato affascinato dai racconti delle fate, ma vederla faceva tutto un altro effetto. Sapeva essere popolata da tutte le creature che erano venute a trovarlo, portando omaggi ai bambini. Adesso che si trovava a pochi passi dal limitare del bosco, Alec sentì quasi l’impulso di entrarci. Non lo fece, al contrario portò lo sguardo alle proprie spalle, il sole stava sorgendo a est e le luci della notte stavano lasciando spazio a quelle più chiare del giorno. I colori dell’alba tingevano il cielo di rosa e arancione, era uno spettacolo di una bellezza incredibile. Tante volte aveva visto l’alba o il tramonto con in braccio uno dei bambini, o talvolta con tutti e due, raccontando loro di quel fantastico padre che presto avrebbero conosciuto. Avrebbe dato tutto quello che aveva per avere Magnus accanto a sé, che lo stringeva da dietro e guardava con lui il sole spuntare da dietro la linea dell’orizzonte. C’erano stati momenti in cui quasi aveva percepito le sue mani su di sé, salvo poi rendersi conto che i suoi erano soltanto sogni. Questo, però, era reale, si disse. Adesso erano insieme come una famiglia.
 

«Ehi!» Erano molte le volte in cui aveva la sensazione che suo marito gli leggesse nel pensiero, sapeva che non era uno dei suoi poteri, ma era incredibile come riuscisse comunque a prevedere le sue parole o a capire il suo stato d’animo. Ci riuscì anche allora, gli arrivò alle spalle, cingendolo per la vita e abbracciandolo stretto.
«Ehi» rispose, lasciandosi contro al suo petto e sospirando. Era come se la tensione e la mancanza di sonno accumulate per giorni gli stessero crollando addosso soltanto in quel momento. Aveva dormito poco e mangiato male, sempre in allerta per i bambini, ma più di tutto gli era mancato suo marito. E questa lontananza a tratti soffocante venne fuori allora in un respiro frammentato da un pianto che, tuttavia, tenne per sé.
«Tutto bene, cucciolo?»
«Guardavo l’alba» mormorò, con fare sognante. «Non pensi anche tu che sia bellissima?» gli chiese, intanto che lui lo baciava prima sul collo e poi su una guancia.
«Anche tu sei bellissimo, fiorellino» replicò Magnus, in uno slancio di romanticismo che dopo tutti quei giorni di solitudine si ritrovò ad apprezzare. Era sempre lui quello spiccatamente sentimentale, l’uomo dai grandi, piccoli gesti di tutti i giorni. Alec era cresciuto troppo a lungo con gli Shadowhunter per abbandonare del tutto il suo stoico rigore militare, che lo portava a ridurre all’essenziale le sue giornate. Ma con il tempo aveva imparato ad apprezzare i suoi slanci romantici, le parole sentite e i baci infuocati.
«Anche i bambini sono stupendi» continuò, tra un bacio e l’altro. «Assomigliano a te, hanno la tua dolcezza.» Alec non credeva che gli somigliassero così tanto, anzi più li guardava e più trovava tratti in comune con Magnus, ma il pensiero lo fece arrossire.
«Sono miei e tuoi, riesci a crederci?» gli chiese, spezzando il proprio silenzio imbarazzato. Percepiva il suo fiato sul collo, stuzzicargli la pelle infreddolita del volto. Lo sentì annuire tra un bacio e l’altro, intanto che emetteva piccoli mormorii di assenso.
«Ci credo, fiorellino e questo è il momento più bello della mia lunga vita. Proprio questo.» Alec sorrise e inspirò profondamente. Voleva stare solo con lui, anche se si sentiva esausto, aveva bisogno di stendersi in un letto e sentire le sue braccia avvolgerlo, voleva…
«Fratellone!» la voce di Isabelle lo fece sussultare vistosamente. Oh, giusto, ricordò, erano lì per loro! Alec si voltò verso di lei, stava correndo in loro direzione, alle sue spalle c’era anche Simon mentre Clary era stata agguantata da Jace, che pareva non volerla lasciare più. Sorrise, vedere suo fratello così felice faceva gioire lui in rimando. Izzy invece, come prevedibile, non faceva che urlare. La sua corsa era leggera ed entusiasta, correva e si sbracciava come a volerlo salutare. Si fermò di colpo soltanto quando fu sufficientemente vicina da vedere il passeggino. Impietrita rimase a osservare i piccoli mentre, al suo fianco, Simon spalancava la bocca per lo stupore.
«E quelli?» chiese, indicandoli. La bocca spalancata, gli occhi aperti come se stentasse a crederci.
«Loro sono Max e Rafe» disse, annunciando i nomi dei bambini a voce ben alta di modo che tutti potessero sentirlo. Clary, sino a quel momento avvinghiata a Jace, lo aveva spinto da parte e li aveva raggiunti.
«È una storia lunga e complicata» aggiunse. «Però è anche una di quelle a lieto fine, che merita di essere raccontata tra calde e solide mura domestiche. Per ora sappiate che sono i nostri, miei e di Magnus. Siamo… ecco, genitori.» Era la prima volta che usava quella parola e se gli faceva uno strano effetto il pensiero che degli esserini così belli fossero effettivamente suoi e di suo marito, ad Alec quella parola fece l’effetto di una secchiata d’acqua gelida. Era un genitore, un padre. Dirlo ad alta voce a Isabelle e a Clary o a Simon, lo aveva reso ancora più reale.
«Oh, mio Dio» si commosse Iz, saltandogli letteralmente addosso e abbracciandolo stretto. «Sono così felice per voi, ragazzi. Mi devi raccontare tutto, giura!» lo minacciò alla fine, puntandogli contro il dito indice. Annuì, lo avrebbe fatto, era una promessa, ma non adesso. Izzy ad ogni modo parve non dar più peso alla cosa, perché subito dopo si chinò sui piccoli. Si erano svegliati a causa di tutto quel rumore, ma davano segno di essere molto stanchi perché sbadigliavano e si strofinavano gli occhietti.
«Mio Dio, guardali, Simon» disse sua sorella, poco dopo, rivolgendosi al vampiro che già era chino sulla culla. Sino ad allora era rimasto imbambolato a fissarli, ma a quel punto si mise ad annusare l’aria come se stesse seguendo una traccia. Qualche istante più tardi un’espressione di consapevolezza si fece strada sul suo viso. Iniziò a rimpallare lo sguardo tra lui e Magnus come se stesse unendo i puntini soltanto allora.
«Che c’è, Lewis?» domandò suo marito, facendosi avanti di qualche passo.
«I bambini hanno il tuo marchio da stregone» ribatté subito. Si trovavano ancora nella valle, quindi i glamour non avevano ripreso a funzionare. «Odorano anche di bruciato, tutti gli stregoni puzzano di bruciato. Blah, vomitevole!» disse poi. «Ma hanno anche un altro odore, lo sapete… Quel profumo paradisiaco del sangue degli Shadowhunter. Quindi quando dicevi che sono sia tuoi che suoi» disse indicando entrambi «intendevi in senso letterale.»
«Già, ma come ho detto è una storia lunga e…» tentò di spiegare.
«O mio Dio, eri incinto!» esclamò Simon tutto ad un tratto. Alec in risposta alzò gli occhi al cielo, vide Izzy fare altrettanto e quindi rimbrottare qualcosa sul fatto di doverla proprio smettere con quella storia.
«Scusa, ma lo sai come la penso» se ne uscì il vampiro alzando la mani in segno di resa e scrollando vistosamente la testa. «Magnus è talmente virile che potrebbe mettere incinto anche me! E tecnicamente io sarei morto.»
«Non l’ha detto davvero quell’idiota, giusto?» sentì dire a Jace, che aveva affondato il viso tra le mani e scosso la testa.
«Scusate se ho pensato che Alec ci fosse rimasto e che fosse venuto qui a nascondersi per partorire.»
«Sta’ zitto, Lewis!» lo sgridò Jace, dandogli un bonario schiaffetto sulla nuca. «Se sento un’altra parola su mio fratello che partorisce giuro che…»

«Ah, piantatela» intervenne Clary facendosi largo tra i due e andando direttamente da lui per abbracciarlo. «Scusali, sono due idioti. La verità è che siamo stati in pena per te, sono contento che tu stia bene.»
«Lo so, mi dispiace non avervi potuti avvisare» si scusò Alec, attirando in quel modo gli sguardi di tutti su di sé, persino quello di Izzy che continuava a giocare con i piccoli. «Ma gli angeli mi avevano proibito di avvisare che stavo bene. Vi prometto che dirò tutto, giuro, ma adesso» disse guardando i bimbi, che avevano ripreso a sbadigliare. «Sarà meglio che andiamo a casa, vero?» Suo marito annuì lentamente, gli diede un bacio veloce sulla guancia e poi si spostò per aprire un secondo portale diretto a Idris. Era ora di tornare.



 

Lui e Magnus notarono la culla soltanto il mattino successivo. Avevano messo i bambini a dormire in una cameretta che, grazie ai poteri da stregone, avevano arredato nella stanza degli ospiti con uno schiocco di dita. Di fronte all’occhiata di Alec, che detestava quando rubava le cose senza pagarle, lui gli aveva risposto che in realtà ci aveva pensato da un po’ a come decorare una camera per un bambino e che quindi ne aveva già adocchiata una.
«La sola differenza è che sono due invece di uno» aveva detto, mentre li sistemavano nel lettino. Dopo di allora, Alec aveva dormito per dodici ore filate, se Magnus si era alzato per occuparsi di Max e Rafe, lui proprio non lo aveva sentito. Erano quasi le otto del giorno successivo quando se ne resero conto, stava sorseggiando il suo caffè nero seduto al tavolo del soggiorno mentre suo marito beveva una tazza di tè. Aveva già una sfilza di appuntamenti lunghissima, tra cui anche il dover fare rapporto a Jia, ma dato che non erano più soli, stavano programmando come fare con i bambini, quando alzando gli occhi, notò una culla.
«Da quando sta lì quella?» disse, indicandola intanto che si avvicinava. Era la stessa che aveva ospitato i bimbi mentre erano nella torre.
«Non lo so» fece spallucce suo marito, alzandosi dalla sedia e raggiungendo il centro del salotto. «Forse da ieri? In realtà non ci ho fatto caso, tra l’arredare la casa e tutte le telefonate di congratulazioni che sono arrivate…»
«Scusa, ma non l’hai portata tu qui?» gli domandò in risposta, confuso. 

«No, pensavo fosse sparita assieme al resto della torre» disse lui, facendo spallucce, intanto che accarezzava la stoffa liscia che la imbottiva. Alec sfiorò la copertina con le punte delle dita, il simbolo degli Shadowhunter, la runa dell’angelo, ricamata d’oro, luccicava ogni volta che i raggi del sole la colpivano. Sotto di essa, notò spostandola, c’era il sonaglino dorato che il Leprecauno aveva usato per far giocare Max e Rafe. Era sicuro che non se ne sarebbe mai separato, era fatto d’oro e gli gnomi erano avidi.
«C’è un biglietto» disse Magnus, afferrando un pezzettino di carta sistemato sul fondo della culla. Lo prese in mano e se lo girò tra le dita un paio di volte.

«Che dice?» domandò, curioso, lasciando cadere la copertina e il sonaglio, che tintinnò appena.
«C’è disegnata la runa dell’angelo, questa invece è una spirale che indica gli stregoni.» Alec gli si affiancò, allungando lo sguardo. I due disegni erano appena visibili, anch’essi avevano caratteri d’oro su uno sfondo bianco.
«Forse dietro c’è scritto qualcosa.»
«Mh» borbottò suo marito, voltando il cartoncino. «Nella speranza che possa farvi cosa gradita» disse, leggendo. «Vi inviamo questa culla, il signor Leprecauno tiene che i bambini abbiano il sonaglio. Siate benedetti, l’angelo Gabriel.» Appena dopo che ebbe finito di leggere, il cartoncino svanì in uno sfrigolio di luce dorata. Magnus chiuse gli occhi, intanto che Alec lo abbracciava da dietro. Stava per baciarlo quando nell’altra stanza i bambini iniziarono a piangere. Sentì suo marito ridere intanto che gli diceva che ora sarebbe toccato a lui. Alec non era davvero indispettito come volle fargli credere, in realtà era felice. Stupidamente felice.

  



 

Fine
 
    

 

*Runa del coraggio: nella serie non viene nominata, viene citata nei libri. Clary la “inventa” (che virgoletto perché sapete che non è davvero lei a crearle) dopo che Magnus ha curato Luke dalla ferita del demone. La runa viene tracciata proprio su Alec che, spinto dal potere della runa, si decide a fare coming out con Robert e Maryse, è proprio Magnus che lo ferma prima che sia troppo tardi.

 

Note: Devo doverosamente citare “The Shadowhunter Wiki”, ovvero l’enciclopedia di Shadowhunter, perché mi ha fornito informazioni preziose per questa storia, che altrimenti non avrei saputo dove trovare. 
The Shadowhunters' Wiki | Fandom

 

Volevo ringraziare tutte le persone che hanno letto questa storia e a quelle che hanno recensito, anche se poche ho apprezzato il vostro sostegno. Grazie anche per i Kudos su AO3 e le stelline su Wattpad. 
Ora che questa storia è finita mi prenderò una pausa dalla scrittura, non so quanto lunga sarà e non so cosa farò se e quando tornerò. Ho tante idee anche sulla Malec, di storie che ho plottato e mai scritto, spero di rasserenare la mia mente in questo periodo di pausa.
Koa

   
 
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