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Autore: JohnHWatsonxx    20/10/2022    0 recensioni
Un ragazzo incontra un altro ragazzo, non sanno quanto avranno bisogno l'uno dell'altro ma lo scopriranno molto presto. John Watson è un giocatore di rugby con il futuro scritto da altri, Sherlock Holmes è un giovane lasciato in balìa di sé stesso e insieme si faranno strada attraverso le dure leggi dell'adolescenza.
Liberamente ispirata ai graphic novels di Alice Oseman.
[Johnlock] [alcuni cenni Sheriary, soprattutto nei primi capitoli]
Genere: Fluff, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Quella giornata era stata un vero inferno, per Sherlock, ed era stato solo il primo giorno di rientro: aveva ancora il resto della settimana da affrontare. Steso nel suo letto, sotto il morbido piumone, parlava al telefono con Molly dei suoi esperimenti. Molly Hooper era a tutti gli effetti la sua migliore amica, e anche l’unica, ma non lo avrebbe mai detto ad alta voce. Si conoscevano da praticamente tutta la vita e aveva condiviso con lei ogni singola cosa. Per Sherlock era sempre stato difficile fare amicizia, ma con lei era diverso, con lei era normale parlare ed essere sé stesso: Molly aveva l’esclusiva nell’averlo visto piangere, cosa che neanche sua madre aveva mai visto.

Avevano passato però un brutto periodo l’anno prima, arrivati al liceo: Molly nella pausa estiva si era fatta una bellissima ragazza, ma Sherlock non riusciva a guardarla e a provare qualcosa che andasse al di fuori dell’amicizia, né verso di lei, né verso qualsiasi altra ragazza. Nella stessa pausa estiva lui aveva capito un paio di cose su sé stesso: la prima era che avrebbe fatto chimica al college, la seconda era la sua omosessualità. Fu la seconda a complicare le cose. Sherlock ripensava spesso a quelle settimane in cui non si erano parlati, e le trovava tuttora tediose e grigie. Quando, una sera di luglio, aveva deciso di fare coming out con lei, il caso volle che lei dall’altro lato avesse deciso lo stesso giorno per confessare i suoi sentimenti per lui. Era stato imbarazzante per Sherlock dover rifiutare la sua migliore amica, ferirla inevitabilmente con il suo essere semplicemente sé stesso.

Non ricordava molto come fossero andate le cose, ma aveva in mente il viso umido di lei a pochi centimetri dal suo, e il suo continuo scusarsi per essere gay. Forse era partito tutto da lì, quella sensazione di doversi meritare il peggio solo per essere sé stesso, la stessa sensazione che aveva provato quando aveva parlato ai suoi genitori, la stessa su cui i bulli continuavano a fare leva, la stessa che lui stava sfruttando in quel momento per giustificare la sua stupidità.

Sapeva che Jim lo voleva solo sfruttare; sapeva che non avrebbe dovuto affezionarvici; sapeva che non sarebbe andata a finire bene, ma si era anche convinto che l’unico modo che avrebbe avuto per poter provare qualsiasi cosa sarebbe stata necessariamente filtrata attraverso il dolore.

Si rannicchiò ancor di più sotto le coperte e sospirò, aprendo la chat con Jim (lo spettro del loro ultimo incontro impresso in quell’ultimo messaggio lo fece rabbrividire). Ripensò a ciò che gli aveva detto il professor Dornan, e pensò che forse avrebbe dovuto seguire per una volta il consiglio di qualcun altro.

Non voglio più vederti

Digitò furiosamente il messaggio e lo inviò senza pensarci due volte. La risposta arrivò inaspettatamente presto, ma Sherlock non se ne curò, preferendo buttare il telefono sul comodino e cercare di dormire: anche quella notte, però, non riuscì a chiudere occhio.

John si svegliò tardi. Avrebbe voluto andare a correre, ma non avrebbe fatto in tempo. Era dal giorno prima che non faceva altro che pensare al modo più carino per chiedere a un ragazzo di unirsi alla squadra di rugby, senza sembrare come i suoi compagni di squadra, come un arrogante pomposo pezzo di merda. Quel ragazzo –Sherlock- sembrava davvero l’unico adatto a fare la riserva, l’unico che potesse per lo meno reggere fisicamente un’intera partita di rugby senza collassare a terra. Greg, la sera prima, lo aveva preso in giro: per lui era troppo magro per poter placcare qualcuno e troppo delicato per poter far male a qualcuno. In effetti Sherlock sembrava magrolino, ma avevano davvero altra scelta? A fine allenamento ne aveva anche parlato con la coach, e lei lo aveva appoggiato entusiasta. Se quel ragazzo avesse accettato non avrebbero avuto problemi con la prima partita dell’anno, che ci sarebbe stata due settimane dopo.

Il professor Dornan stava spiegando cose che già sapeva, quindi stava recuperando del sonno perduto quella notte quando la campanella suonò, facendolo sobbalzare.

“Sherlock” lo chiamò il più grande. “Il fatto che tu riesca in qualche modo a saperne più di me sulla mia stessa materia non ti consente di dormire durante le mie lezioni” lo rimproverò.
“Non riesco a dormire” rispose solamente lui, prendendo le sue cose.
“Qualcosa ti affligge?” chiese il professore. Harry Dornan oltre ad essere un ottimo professore sapeva essere molto empatico, specie nei confronti di quel ragazzo che l’anno prima ne aveva passate di tutti i colori. All’inizio Sherlock negò, ma quando il suo cellulare prese a vibrare costantemente all’arrivo di almeno una ventina di messaggi a pressione, tutti da parte di Jim Moriarty per l’inciso, sospirò.

“Ho rotto con il mio ragazzo ieri, sempre se si può chiamarlo così”
Harry gli si sedette accanto. “Quello che ti trattava male?”
“Non mi trattava male!” fece una pausa “Non quando eravamo da soli”.

Sherlock si passò una mano sul viso, per cercare di scacciare l’ultima traccia di sonno dai suoi occhi. Era quello che lo aveva tenuto sveglio tutta la notte: aveva rotto con Jim e sapeva che era la cosa giusta da fare, ma nonostante questo aveva paura di rimanere solo per sempre, perché lui era stato l’unico a volergli stare vicino quando tutti gli altri non facevano altro che fargli del male. Odiava le emozioni, odiava essere così sentimentale e odiava il fatto che il suo cuore riusciva a comandare le sue azioni. Avrebbe voluto essere più come suo fratello Mycroft, in quel momento.

“Una persona si giudica dal modo in cui ti tratta in mezzo alle persone, Sherlock. Tutti possono dire di fare del bene, quando sono da soli” disse il professore, cercando inutilmente di risollevare il morale del ragazzo. Sherlock, agli occhi del più grande, era la persona più intelligente che avesse mai incontrato: la sua conoscenza della chimica era nettamente superiore alla sua, e gli ci erano voluti mesi per ammetterlo senza neanche una punta di gelosia. Ma quel giorno per la prima volta si era ritrovato a pensare che forse la sua intelligenza era un qualcosa per colmare altre mancanze, come l’assenza di amici, eccezion fatta per Molly Hooper.

“Non parli di queste cose con la tua amica?” chiese quindi il professore, e Sherlock alzò il viso solo per lanciargli uno sguardo di confusione.
“Lei non può capire”
“Perché?”
“Perché lei non è gay”. Il professore sospirò.

“Non serve che qualcuno sia gay per poterti aiutare, e di certo non ti posso aiutare io che sono un professore che ha di gran lunga passato la fase dei problemi adolescenziali” Sherlock non rispose, ma finì di prendere le sue cose e uscì di corsa dall’aula, lasciando Harry Dornan da solo a ringraziare il cielo per non avere dei figli.

John si era appena seduto al suo banco quando Sherlock spalancò violentemente la porta. Si scusò con un sussurro rivolto al professore e poi incrociò gli occhi con lui. John sorrise.

“Ehi” salutò Sherlock
“Ehi” rispose John.

E non si dissero altro, esattamente come il giorno prima, esattamente come il resto della settimana. Non sapeva, John, perché parlare con quel ragazzo si stava rivelando più difficile del previsto, eppure ogni volta che lo vedeva si sentiva strano e non capiva il perché. Avevano matematica solo i primi due giorni della settimana, quindi non lo avrebbe visto da nessun’altra parte. Greg continuava a pressarlo per convincerlo a parlare con Sherlock anche al di fuori di quelle poche parole di cortesia che si erano scambiati e al di fuori della classe di matematica, ma non gli sembrava… giusto.

“Ti stai facendo problemi a parlare con un ragazzino del secondo anno, John Watson?” scherzò l’amico, mentre sistemavano i libri nell’armadietto. John posò la fronte sul metallo e sbuffò. “Oggi glie lo chiedo” rispose scocciato. In quel momento passò Jim Moriarty, che sorrise sfacciatamente ad entrambi mentre al suo lato, a tenergli la mano, una ragazza lo seguiva sorridente.

“Vorrei sapere cosa ci trova di affascinante Irene Adler in quel viscido di Jim” sussurrò Greg. John alzò le spalle, recuperò il borsone da rugby e si diresse verso il blocco di chimica. La prima settimana da dopo la fine delle vacanze sarebbe finito con due estenuanti ore di chimica, materia che John amava e odiava allo stesso tempo. Quasi invidiava Greg per aver scelto arte, ma se voleva entrare a medicina aveva bisogno di solide basi scientifiche.

Di solito l’ala di chimica era frequentata da poche persone, e John si sorprese nello scoprire che una di quelle era proprio Sherlock Holmes, che sedeva da solo nel laboratorio di chimica, tecnicamente riservato al professor Dornan. Eppure, lui vi si muoveva come se conoscesse il luogo ad occhi chiusi. John pensò fosse destino, ed entrò.
“Ehi!” esclamò John. L’altro ragazzo sobbalzò.

“Ehi” rispose Sherlock, dopo essersi ripreso dallo spavento. “Pensavo fossi il professor Dornan, odia che io usi le sue cose” sorrise debolmente. Quel John Watson era strano: era una classe indietro a matematica ma frequentava chimica avanzata; era popolare ma gli rivolgeva la parola come se fosse stato un ragazzo normale e non lo strano che veniva preso di mira dai bulli; giocava a rugby, ma era gentile con tutti. Strano ragazzo, quel John Watson.

“Senti, volevo chiederti una cosa” cominciò il biondo, un po’ impacciato.

Volevo dirti che anche io sono gay, e sono innamorato di te. Vuoi uscire con me?” Sherlock rimase di stucco.
“Vorresti unirti alla squadra di rugby?” Sherlock si riprese, alla vera domanda di John.
“Cosa?” chiese quindi.

John si passò una mano sul retro del collo, in imbarazzo. “So che è un po’ campato per l’aria, non ci siamo mai veramente parlati, ma… abbiamo abbastanza giocatori per la squadra ma non possiamo effettivamente giocare senza una riserva e… sai, ti ho visto correre a educazione fisica e sei velocissimo e quindi ho pensato… sì, che magari ti piacerebbe unirti alla squadra ecco”

Sherlock sbatté gli occhi un paio di volte. Di certo mai si sarebbe aspettato che John Watson sarebbe venuto nel laboratorio di chimica a chiedergli di giocare a rugby.

“Ma io non so giocare” puntualizzò il moro.
“Fa niente, ti insegno io!” esclamò contento John. Sherlock sorrise di conseguenza.
“Non sono un po’… piccolo e debole, per giocare a rugby?” chiese ancora Sherlock.
John lo guardò per un attimo. “Siamo solo una squadra scolastica non è niente di serio”
Sherlock socchiuse gli occhi e sorrise furbo. “Quindi stai dicendo che sono debole!”

“NO! No, non era… non intendevo, non…” John balbettò qualcosa di indecifrabile prima di vedere che Sherlock stava ridendo. Si incantò, nel vedere che sulle guance dell’altro si erano formate due piccole fossette, e per un attimo pensò fossero adorabili, poi scosse la testa e accennò anche lui a una risata. “Quindi?” chiese ancora.
“Ti faccio sapere lunedì, okay?” rispose Sherlock e il biondo annuì contento.

Quando John lasciò il laboratorio notò, tra le borse di Sherlock, un violino. Che sapesse anche suonare? C’era qualcosa che quel ragazzino non sapesse fare?

Sherlock rimase per un altro paio di ore nel laboratorio, fino a che non rimase praticamente solo nell’intera scuola. Non stava più continuando i suoi esperimenti, era semplicemente rimasto lì, seduto tra le sue provette e i suoi batteri, a chiedersi cosa ci fosse dietro quella richiesta di John Watson. Che volesse prenderlo in giro? Era un modo per umiliarlo, per ridicolizzarlo di fronte alla squadra? O era davvero una richiesta genuina? Per tutta la settimana non sembrava che lo volesse prendere in giro: lo aveva spesso salutato per i corridoi ed era sempre stato gentile; quindi, non riusciva davvero a vedere una traccia di malvagità nella sua proposta. Forse avrebbe dovuto parlarne con Molly. Forse.

Ed effettivamente le parlò quella sera, a casa sua mentre facevano i compiti insieme.

“John Watson? Il re del rugby John Watson?!”
“Si Molly, lui. Mi ha chiesto di unirmi alla loro squadra perché manca un giocatore e a quanto pare mi ha visto correre a inizio settimana e ha detto che sono veloce” rispose Sherlock mentre completava un esercizio.
“Tu sei veloce” Molly si girò verso di lui. “Cosa hai risposto tu?”
“Gli ho detto che lunedì gli avrei fatto sapere, ma per la prima volta non so cosa fare. E se fosse un modo per prendermi in giro? Anderson e gli altri della squadra lo fanno costantemente”
“Ma lui no, non ti ha mai rivolto la parola prima di lunedì” fece notare lei.

Aveva ragione, Molly. E se fosse andata male avrebbe tranquillamente potuto mollare.
Il lunedì successivo, quando entrò nella classe di matematica, John non c’era, ma la sua borsa e la sua giacca sì. Sherlock se lo ritrovò davanti, in piedi vicino al banco, le mani coperte di inchiostro blu tenute in aria per evitare di toccare qualsiasi cosa.

“Ciao Sherlock, non avresti… un fazzoletto?” chiese imbarazzato.
Il professore arrivò in quel momento. “Santo cielo John, che casino hai combinato! Sherlock accompagnalo in bagno a lavarsi”.
Così i due uscirono in corridoio, uno accanto all’altro in silenzio fino in bagno. Il biondo buttò le mani sotto il getto di acqua fredda, ma l’inchiostro sembrava non levarsi. Sherlock lo guardava come si guardano gli alieni.

“Ma come hai fatto?” gli chiese.
“Uso la penna stilografica, fa sembrare la mia scrittura più bella. A volte però… esplodono” si giustificò John, mentre cominciava a strofinare energicamente la pelle.

“Non si leva!” esclamò divertito, alzando le braccia verso l’altro, che si spostò accennando una risata.
“Rimarrai blu per sempre, John”
“Farò finta che sia un tatuaggio!” rise il biondo guardando Sherlock ridere. Aveva un bellissimo sorriso, e John arrossì al suo stesso pensiero. Si schiarì la gola. “Allora… hai pensato alla mia proposta?”

“Si” rispose solo Sherlock, mentre gli passava un mucchietto di carta igienica. “Farò una prova” aggiunse poi, e John annuì entusiasta.

“Vedrai ti piacerà, ne sono convinto!” esclamò il biondo soddisfatto. Sherlock sorrise ma dentro di sé aveva una terribile ansia. E se gli altri lo avessero deriso, trattato male come i ragazzi dello scorso anno? Ammise tra sé e sé di avere un po’ di paura, ma decise di lasciarsela scivolare di dosso mentre tornavano in classe.

Il giorno dopo, al suono dell’ultima campanella, Sherlock si avviò agli spogliatoi. Quel corridoio gli faceva paura, così buio e asettico e impregnato di brutti ricordi com’era. Sembrava quasi che gli insulti che aveva ricevuto l’anno precedente fossero stati scritti con una bomboletta spray per tutte le pareti, a ricordargli quanto aveva sofferto e quanto -forse- avrebbe sofferto, se solo avesse varcato quella porta. Sentì delle voci, qualcuno che da dentro la stanza parlava con John (riconobbe subito la sua voce).

“Sherlock Holmes?”
“Non è, tipo, una matricola?”
“Sta al secondo anno” la voce di John.
“Sì, ma è piccolo, gracile. Sei sicuro?”
“E poi lo sanno tutti che è gay!”

Sherlock entrò, e John si alzò subito in piedi.
“Ehi” salutò.
“Ehi” rispose l’altro, avvicinandosi.

Dopo essersi cambiati immersi in un silenzio imbarazzante uscirono tutti in campo, dove la professoressa Higgs li stava aspettando.

“Watson!” lo chiamò. John si girò verso Sherlock e gli fece cenno di seguirlo.
“Tu devi essere Sherlock Holmes, John mi ha parlato di te”
John mi ha parlato di te, Sherlock avrebbe voluto arrossire, ma si sforzò di non farlo vedere e annuì.

“Hai mai giocato a rugby?” chiese lei.
“No” rispose il moro. La Higgs volse per un attimo lo sguardo a John, che alzò le spalle. Sherlock non capì le dinamiche di quel gesto ma non si fece troppe domande.
“Allora per le prime lezioni John ti insegnerà le basi, ok?” propose la professoressa, ed entrambi annuirono.

C’era da dire che Sherlock sapeva sì, correre, ma non era affatto capace di coordinare tutti e quattro gli arti: era per questo che faceva violino e correva, perché le due attività richiedevano il controllo di due parti del corpo a volta. Il rugby era molto più difficile, a suo parere. Suonare la più difficile composizione di Bach sarebbe stato più semplice. Inoltre, John non era d’aiuto. Sorrideva, prima di tutto, e da sudato era più bello che in camicia, e questo Sherlock non riusciva a spiegarselo. I suoi capelli biondi piano piano si ribellavano al suo controllo, finendogli davanti agli occhi, e a quel punto lui si passava una mano tra le ciocche per sistemarli. Sherlock non riusciva ad essere troppo concentrato mentre John lo guardava in quel modo, e lo rincorreva, e gli sistemava le parti del corpo gentilmente per fargli assumere la postura corretta.

Davvero Sherlock non sapeva come fosse possibile che in una settimana (neanche, un paio di lezioni forse?), si sia preso una cotta per niente di meno che John Watson. Molly l’avrebbe ucciso. Ma niente di ciò che era appena accaduto lo avrebbe potuto preparare a quello che sarebbe successo poco dopo.

“Prova a placcarmi!” propose John, sorridente, bello, sudato. Sherlock si voltò dove c’era il resto della squadra che simulava una partita, e percepì con i suoi occhi il dolore di quell’azione, vedendola svolta dagli altri. John notò la sua preoccupazione.

“Ti giuro che non mi muovo, dai” lo pregò, allargando le braccia. Il moro si guardò e poi guardò l’altro e calcolò che la sua massa poteva arrivare a massimo la metà di quella di John. Poi prese un respiro, e si buttò su di lui. Caddero entrambi a terra, Sherlock su di lui, quasi ad abbracciarlo.

“Bravo!” esclamò John, mentre si rialzava e porgeva la mano all’altro. “Ora rifacciamolo mentre mi muovo”.
Sherlock avrebbe voluto dire che aveva deciso di unirsi alla squadra di rugby perché è un bello sport, ma sapeva anche lui quanto era falsa quest’affermazione. Odiava il rugby, avrebbe continuato a odiarlo, ma niente era paragonabile alla sensazione di stare vicino a John, giocare con lui, farsi insegnare le tecniche e i trucchetti, vederlo felice quando riusciva a fare qualcosa di nuovo. E questo non ha niente a che fare con il rugby.

Mentre si cambiavano ricevette un messaggio da Jim. Ne aveva ricevuti parecchi in quei giorni ma li aveva ignorati. Nell’ultimo lui gli chiedeva di vedersi nell’aula di musica. Dove si erano incontrati la prima volta, pensò subito dopo. Aveva deciso di chiudere definitivamente con lui, e per farlo doveva vederlo di persona, anche se questo gli costava parecchio. Non parlò molto dopo aver letto il messaggio, e John se ne accorse, ma decise di non intervenire. Anche se sembrava essere passato molto più tempo da quando si erano parlati la prima volta, si conoscevano da una settimana. Davvero, non sembrava, era così semplice stare con lui. Decise però di seguirlo, anche se non sapeva perché.

Sherlock lo trovò appoggiato al muro, con la sua aria da strafottente, affascinante come sempre- no, non più.
Jim si avvicinò, posandogli una mano sul braccio.

“Non toccarmi” sibilò il più piccolo.
“Dai, non fare il prezioso” sussurrò lui al suo orecchio.
“Ho detto di non volerti più vedere”
“Ed io non ti credo”

Sherlock si allontanò di scatto, guardandolo con gli occhi spalancati.
“Su Sherlock, io ti piaccio, tu mi piaci. Perché non dovrei baciarti in questo momento?” e Jim cercò di avvicinarsi, ma l’altro lo scansò via con entrambe le mani.

“Non mi guardi neanche in faccia quando ci sono le altre persone, ed io non sono solo un ragazzo che puoi baciare quando ne hai voglia. Ho dei sentimenti anche io. Inoltre, ti ho visto, con Irene Adler. Grazie per avermelo detto” sputò fuori furioso, e avrebbe voluto andarsene in quel preciso istante, ma Jim lo bloccò di nuovo, trattenendolo per il braccio.

“Perché vuoi farmi fare pressione per fare coming out?” urlò quasi.
“No- non sto facendo questo. Se stai cercando di capire te stesso va bene, lo apprezzo, ma non puoi trattarmi come hai sempre fatto. Io sono un essere umano!”
“Ne sei così sicuro?” sussurrò Jim, e quel tono lussurioso e saccente, sicuro di sé, lo spaventarono, tanto che non riuscì a rispondergli.

Cosa voleva dire? Tutti lo consideravano una macchina, certo. Passava le ore nel laboratorio di chimica, o a correre o a studiare violino, e il suo cervello era come un database, ma di certo era un essere umano, fatto di carne ed ossa e desideri e sentimenti. Gli stessi sentimenti che Jim teneva nel pugno stretto insieme al suo braccio, e che decise di frantumare nel momento in cui la stretta si fece più feroce.

Jim Moriarty non era solo un anno più grande di Sherlock, ma anche più forte, e Sherlock non riuscì a fare niente quando lui si buttò sulle sue labbra, schiacciandolo tra sé e il muro. L’unica cosa che poteva cercare di fare per evitare il bacio era spostare la testa a destra e a sinistra.

Aveva paura di Jim, del suo comportamento spesso irascibile e del fatto che non riuscisse a staccarsi dalla sua morsa, che diventava sempre più stretta. La cosa peggiore fu sentire le sue stesse lacrime sulla sua pelle e la sua voce, diventata sottile, implorarlo di fermarsi. Le mani di Jim si andarono a stringere sul suo giacchetto. Sherlock chiuse gli occhi.

D’un tratto non sentì più niente, nessuna pressione, nessuna bocca sulla sua, nessuna mano. Jim era lontano da lui e davanti a lui c’era John. “Ti ha detto di fermarti” sbottò rabbioso John. La sua rabbia era la cosa più rassicurante che Sherlock avesse mai percepito, non si sentiva minacciato ma protetto. Velocemente si asciugò le lacrime, mentre lui cacciava via Jim e si girava verso di lui.

“Tutto okay?” chiese, e Sherlock annuì senza proferire parola, per evitare che la sua voce tradisse la paura e la vergogna di quanto appena accaduto.
Poi prese un respiro. “Come facevi a sapere che ero qui?”
“Io… ti ho seguito. Mi sembravi preoccupato e volevo sapere come stessi”
Sherlock alzò il viso, rivelando gli occhi lucidi. “Scusa” sussurrò.
“Non è colpa tua” rispose confuso John.
“Ma sento di doverlo dire”
“Non farlo! No, non aprire bocca!” rise John. Poi gli mise un braccio intorno al collo. “Andiamo via, se no ci chiuderanno qui” disse, e Sherlock gli sorrise.

Si separarono all’uscita da scuola. Mentre Sherlock aspettava l’autobus prese il cellulare e aprì la chat vuota con John. Non era riuscito a ringraziarlo come si deve, voleva farlo ma ogni volta gli veniva da chiedere scusa. Urlò frustrato in mezzo alla strada vuota, per poi scrivere di fretta un “Grazie” e mandarlo senza pensarci due volte.

In macchina con sua madre John guardava fuori dal finestrino. La donna provava a parlargli ma lui era nel suo mondo. Poi guardò il telefono e, quando vide il messaggio di Sherlock, sorrise.

“John?” chiese la madre, e John rispose con un suono gutturale. “Come sono andati gli allenamenti?”

“Bene, sono andati bene”.
 
 
 
 NdA. Davvero. Ho pubblicato e di certo non so quando sarà la prossima volta che lo rifarò, ma giuro che questa storia avrà una sua fine, e spero che l'attesa ne valga la pena. 
Grazie a chiunque sia arrivato fin qui, ci vediamo al prossimo capitolo!
-A

 
 
 
   
 
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