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Autore: Persefone26998    25/10/2022    0 recensioni
Una serie di flashfic ispirate alle lettere dell'evento "Hidden strife"
Che vi piacciano o meno Kaeya e Diluc, la loro storia è talmente complessa ed emotivamente coinvolgente che non si può non essere ispirati a scrivere
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Diluc Ragnvindr, Kaeya Alberich
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“Qualunque sia la verità, è davvero faticoso leggere
quelle parole sfocate con un solo occhio, lo sai?
Non preoccuparti, rimarrà un segreto”
 
Come Kaeya riesca a trovarlo persino nel fitto della foresta di Avidya, lì dove il cielo sembra sparire tra le fronde degli Adhigma che ombreggiano alle radici dei grandi alberi a fondamento di tutta la terra della Conoscenza, resta un mistero che Diluc si è ormai arreso a svelare; aveva semplicemente accettato che, ad un certo punto del suo infinito pellegrinaggio, sarebbe arrivato un falco messaggero dal piumaggio brunastro e l’insegna dei Cavalieri di Favonious o, come in quel preciso caso, un mercante con un cappello di filo sempre troppo ampio per la sua testa e un sorriso vecchio come il mondo. E per quanto ammetterlo significhi venire a patti con dei sentimenti che non vuole affrontare, come un bambino che si avvolge nelle coperte per sfuggire al mostro sotto al letto, c’è un conforto abitudinario nelle linee fini ed eleganti di quella grafia che gli danza davanti agli occhi anche nella nazione senza sogni.

Sumeru è il luogo più singolare in cui Diluc sia stato nel suo viaggio fino ad allora, come un insieme di bolle in cui sembrava che la vera protagonista in grado di tirare i fili del destino non fosse altro che un’ombra dimenticata, una nazione con un Archon vivo che sembrava agli occhi degli abitanti più morto del proprio predecessore; uno studente dell’Accademia che aveva incontrato nella foresta, forse l’unica persona che gli era parsa degna di fiducia in quella terra così strana e verso cui provava un senso di vergogna ad avergli nascosto la sua vera identità, gli aveva detto che tutto su Teyvat è come un grande albero collegato: in superficie ci sono metri e kilometri a separare e dividere, a far sembrare quasi che i fili che connettono i singoli al tutto si assottiglino fino a sparire in un sogno; ma in profondità le radici si intrecciano, si aggrovigliano tra loro condividendo lo spazio e ciò di cui si nutrono, tanto che le scelte del singolo si ripercuotono sul tutto, perché ogni cosa in Teyvat risuona e fa vibrare anche due fiammelle distanti la strada tra il suo accampamento e i tetti rossi di Mondstadt.

C’è uno strano conforto in quel sogno e non dovrebbe crogiolarvisi, o finirà per perdersi sulla strada della sua vendetta.

È che se sta a pensarci troppo, se rilegge ancora e ancore le parole dell’altro, sente che il cuore potrebbe scoppiargli da quanto disgustato sia verso se stesso; sa che Kaeya non è cieco, che tutte quelle parole non sono che una messa in scena manieristica che l’altro tiene col mondo e che è come cercare di stare in bilico su una corda a tentare di trovare il vero e il falso in ciò che dice Kaeya. Ma sa anche che la sensazione lorda del suo crimine sulle dita non la laverà via mai, che non serve un occhio non cieco per alleggerire il senso di colpa che gli schiaccia il viso nella fanghiglia, che il viscido odore ferroso del sangue impastato da terra e pioggia se lo porterà impresso nella carne fino all’ultimo fiato.

Ché non c’è niente di più grande e più terribile del vivere del proprio senso di colpa, come un miasma velenoso che corrode la natura stessa dell’essere umano, lo spezza e lo rimonta trasformandolo in mostruosità bloccato in quel limbo in cui il tempo è un oroboro che inghiotte se stesso; Diluc sa che per lui non c’è perdono anche se la scrittura di Kaeya è sempre bellissima e l’altro non sa tenersi appiccicata quella maschera di strafottente arroganza neanche nelle lettere che gli scrive, perché Kaeya resta sempre il suo Kaeya anche con quella catena che si sono legati al collo prima di buttarsi dalle cime di Starsnatch.

E Diluc vorrebbe davvero con tutte le sue forze che fosse rimasto solo l’odio e la vergogna a tenerli uniti, lo prega con fervenza a Barbatos notte dopo notte, lo spera ogni volta che l’acido gli balla sulla punta della lingua quando un falco o un mercante gli fanno scivolare quelle lettere tra le mani, lo desidera perché altrimenti il male che ha causato non è che la riprova che grattando la scorza dei giusti non si trovano altro che mostri.

Ma le lettere di Kaeya sanno di Calla Lily e, in mezzo agli orrori che si susseguono davanti ai suoi occhi e nel bagliore sinistro dell’eresia bugiarda che si porta al polso, sono l’unica cosa che lo tiene attaccato alla ragione. Perché Kaeya è Kaeya, mentre a quel ragazzo che sta accarezzando con cura le parole del suo passato di Diluc non è rimasto il resto di niente.
  
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