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Autore: Sofifi    27/10/2022    8 recensioni
29 aprile 2080
Il conto alla rovescia è iniziato! Mancano meno di quattro giorni alla Festa di Primavera e la comune di Diagon Alley è in fermento.
Nella città gioiosa lavorare è un optional, eppure non è raro che i cittadini scelgano di rimboccarsi le maniche e si prodighino in progetti annuali, più o meno importanti. Forse sono tutti fin troppo altruisti… o forse la verità è che a Diagon Alley la felicità è un qualcosa che ci si vuole meritare.
~Una storia in cui Harry Potter è, suo malgrado, ancora una volta il Prescelto.
[TheOnesWhoWalkAwayFromOmelas!AU, leggibile come distopia ambientata nel futuro]
[Questa storia è candidata agli Oscar della Penna 2023 indetti sul forum Ferisce più la penna]
Genere: Dark, Introspettivo, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Harry Potter
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate | Contesto: Altro contesto, Da Epilogo alternativo
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🎲 L’aritmetica del cuore 🎲

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La rappresentazione in scala della comune di Diagon Alley risplendeva sopra a una vecchia scrivania traballante della biblioteca centrale. Kadisha si risistemò un dreadlock dietro all’orecchio destro, piegò il busto in avanti e sfregò i gomiti contro alla brughiera vicino al bordo. Davanti a lei si estendeva ciò che restava dell’aerea boschiva Ex Nocturn Alley, la cui bonifica e ristrutturazione sarebbe stata il vanto del suo progetto annuale. Sbuffò – ormai doveva mettere a punto solo gli ultimi dettagli – e cominciò a rivalutare i consigli della squadra di costruzione.

“Il santuario,” le aveva detto Benjamin, “dev’essere maestoso.” Lei aveva annuito e lui si era passato una mano tra i ricci fulvi, poi aveva impugnato la bacchetta e tracciato una chiocciola scoppiettante nell’aria, dando vita a una figura a forma di fontana di cioccolato. “Mi raccomando, che si sviluppi in altezza!” aveva ribadito con voce rauca, facendosi pallido come una candela. “E che possa essere un eterno ricordo, un eterno flagello…”

Kadisha si lasciò sprofondare nello schienale in velluto morbido della sedia: non c’era più molto tempo per terminare il santuario del Prescelto, ma per fortuna il 2080 era un anno bisestile e quindi mancavano ancora tre giorni e mezzo alla Festa di Primavera.

Aggrottò le sopracciglia e spostò l’edificio bianco e slanciato di qualche centimetro, rivelando una stanza sotterranea. Il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. Una creatura spigolosa si appiattiva contro la parete e gemeva come una bestia al macello.

Kadisha prese un respiro profondo e serrò le palpebre, cercando di scacciare i flash della sua unica visita, ma il corpo nudo e ossuto di Harry Potter non se ne voleva andare dalla sua testa. Ormai se lo sognava di notte – ogni notte – e a volte immaginava persino che fosse lei stessa a essere rinchiusa in quello sgabuzzino scuro sotto terra, coperta da piaghe infiammate e immersa nel fetore rancido della merda, della muffa e del cibo avariato. Kadisha si morse forte il labbro, riaprì gli occhi e tornò alla realtà. Tremando posò nuovamente il sarcofago di marmo sopra a ciò che non voleva guardare.

Boccheggiò, trattenendo le lacrime. Ma dopotutto era giusto così: se non fosse stato per il Prescelto della loro civiltà, delle loro ricchezze, delle loro conoscenze… non sarebbe rimasto più nulla. Solo eterna miseria e sofferenza, e per tutti – non per una persona soltanto.

Era giusto così.

Gliel’avevano insegnato a scuola e gliel’aveva confermato sua madre.

Era giusto così.

Eppure la giustizia, quando era stata abbastanza grande per visitare la stanza, le aveva fatto passare l’appetito per quasi una settimana.

Kadisha si schiarì la voce, poi alzò gli occhi dal tavolo e li rivolse ad Alma, che se ne stava stravaccata su una poltroncina nell’angolo della biblioteca, con la fronte rivolta alla finestra e alla giornata tersa. “Allora, hai intenzione di aiutarmi oppure no?”

Alma esitò un istante, poi lasciò penzolare una gamba, a disagio, e scosse forte la testa. “No,” disse arrossendo. “Ci ho pensato e non me la sento.”

“Non te la senti?” Kadisha cominciò ad avvertire la tensione irrigidirle tutti i muscoli. Era impossibile provare a collaborare con una tale… Una tale ingrata scansafatiche! “E come pensi di guadagnarti questo tenore di vita? Non credi di dover dar qualcosa in cambio alla comunità, per far vedere che… Che ti importa?”

Alma fece scomparire le labbra in una linea sottile, poi inspirò ed espirò rumorosamente un paio di volte. “Non dobbiamo guadagnarci un bel nulla, non è colpa nostra se –”

“Non dirlo!” Kadisha si ripiegò su se stessa, fronteggiando un’ondata di brividi. “Ti prego, non dirlo!”

“Non sei obbligata a restare se la consapevolezza di questa cosa ti fa stare così!” Alma si rese conto di essersi infervorata troppo e si tappò la bocca con uno schiaffo. “Sai, io…” Abbassò di fretta gli occhi sul pavimento. “No, niente.”

“Allora, mi aiuterai?” supplicò Kadisha, ridestandosi e congiungendo le mani davanti al naso.

Alma scosse di nuovo la testa, e tornò a osservare la finestra. “Questo non posso farlo.”

 

 

Quando la campana di Diagon Alley rintoccò per annunciare la pausa pranzo Kadisha tirò fuori dalla cartella in canapa due muffin salati alle olive, avvolti da involucri da cucina in cera di soia. Nelle ultime settimane lei e Camilla si erano parlate a malapena, ciascuna consumata dal proprio progetto, e Kadisha dopo essersi fatta la doccia, la sera prima, aveva pensato di preparare qualcosa di buono per passare un momento di calma assieme prima della confusione della Festa di Primavera.

Pensare a Camilla – e alle olive – di solito le faceva sempre battere forte il cuore, ma adesso non riusciva a sorridere. Richiuse la borsa e s’impegnò ad alzare lo sguardo dal cibo con fare minaccioso. Poco importava, però, che avesse chiuso gli occhi in due fessure strettissime e si fosse morsa la lingua coi denti per simulare una smorfia: Alma aveva ancora lo sguardo rivolto alla finestra. Ma cosa c’era di così interessante, là fuori?

Kadisha si alzò e fece un paio di passi in avanti in punta di piedi, in modo da poter avere sott’occhio il cortile della biblioteca. Alcune adolescenti dai capelli verde neon avevano improvvisato un torneo di magia accanto alla fontana maestra, due uomini in tunica fumavano foglie di mandragola ai piedi di un ciliegio e un gruppo di anziani aveva preso possesso della scacchiera gigante, con pedine-cespuglio in pitosforo, accanto alla sartoria Edgecombe.

Guardando meglio, Kadisha riconobbe una delle vecchie come la nonna di Alma. Sembrava stesse bene, stretta nel suo abitino rosso lampone, e appariva divertita dalle cesoie che si erano materializzate tra le braccia di un alfiere quando aveva raggiunto l’ultimo cavallo avversario. Chissà perché Alma continuava a guardarla. Chissà perché non scendeva semplicemente di sotto a salutarla, se ne aveva voglia.

Per un istante Kadisha pensò di chiedere, poi però si ricordò che era arrabbiata. Molto arrabbiata. E così fece finta di nulla, si voltò e a passi decisi uscì dalla biblioteca, sbattendo la porta. Un piccolo coro di Shh! scocciati la raggiunse nel corridoio.

Se ne fregò.

Con uno scatto raggiunse il pianerottolo e cominciò a scendere i gradini due a due, diretta alla stanza degli sperimentatori.

 

 

 

🚶🏿‍♀️

 

 

 

Non era mai andata nei sotterranei della biblioteca, prima. Quando lei e Camilla si mettevano d’accordo per vedersi nella pausa pranzo, solitamente, s’incontravano nell’atrio o in cortile.

Kadisha osservò la porta blindata dell’archivio, poi riprese a correre per scendere l’ultima rampa di scale. All’improvviso ebbe un giramento e strizzò forte il corrimano per non inciampare. L’ultima volta che era scesa così in profondità si trovava nel santuario della via maestra, quello in cui era ancora sepolto, vivo, il Prescelto.

Kadisha voleva urlare ma non trovava la forza di farlo, così lasciò semplicemente cadere i muffin per terra e si aggrappò alla ringhiera anche con l’altra mano.

Doveva riprendersi.

Gli scalini in marmo si facevano sempre più confusi e inghiottivano i due involucri in cera di soia quattro o cinque gradini più in giù. Kadisha chiuse gli occhi, si morse la guancia irritata e poggiò la fronte sull’avambraccio destro. Una cascata di dreadlocks sottili cadde oltre al parapetto, liberandole il collo ed esponendolo al fresco dei sotterranei.

Quando smise di sentirsi sull’orlo del pianto riprese a scendere le scale e raccolse i fagotti da terra.

Il corridoio che portava alla stanza degli sperimentatori era largo e luminoso. La parete sinistra era ricoperta da uno stuolo di frigoriferi rosso fenice, rosso carminio, e poi, dietro a un angolo, giallo citrino.

Kadisha proseguì finché non trovò la porta antincendio di cui le aveva parlato una volta Alma. Sopra allo stipite c’era una targhetta in ottone intarsiato, non diversa dalle altre che decoravano ogni angolo della comune. Gruppo 22, 2078. Eccolo lì, il progetto a cui aveva lavorato la sua collega una volta diventata maggiorenne, assieme al tizio della squadra di costruzione. Kadisha inarcò le sopracciglia. Forse Alma era sempre stata una scansafatiche, dopotutto, anche ben prima di far visita al Prescelto. Davanti a lei c’era solo una porta, una normalissima porta. Per essere un progetto annuale non le sembrava un granché.

Bussò e dopo qualche secondo un ragazzo con un camice lilla e degli occhialini da esecutore venne ad aprirle. Kadisha sorrise e provò a guardargli oltre le spalle, ma lui era troppo alto. “C’è Camilla?”

Il ragazzo annuì e la lasciò entrare.

La stanza degli sperimentatori odorava d’erba fermentata e terriccio bagnato. Non c’era da stupirsene, dato che stavano mettendo a punto un nuovo fertilizzante. Kadisha arricciò il naso e cominciò a guardarsi attorno.

Le postazioni di lavoro erano vuote e gli sperimentatori chiacchieravano raggruppati sul fondo della sala. Camilla era una pozionista e quindi doveva essere vestita di bianco. Kadisha la notò seduta su un divanetto con un plico di fogli in mano, impegnata a discutere con due colleghi; le si avvicinò e aspettò di essere riconosciuta.

“Amore!” Camilla balzò in piedi, spalancando occhi e bocca in un’espressione stupita. “Che ci fai qui?”

“Sorpresa!”

Camilla lasciò cadere i fogli sul sofà e corse incontro alla propria ragazza.

Quando le loro labbra si sfiorarono Kadisha notò che i capelli biondi e gonfi dell’altra erano impregnati dell’odore forte del fertilizzante. Si staccò dal suo corpo quasi di scatto.

Cercando di far finta di nulla le allungò un muffin, poi scartò il proprio. Le olive le ricordavano le piaghe purulente che infettavano il corpo nudo di Harry Potter. Kadisha chiuse il pugno libero, piantandosi le unghie nella carne, però quel gesto – quel dolore – non bastò a riportarla alla realtà.

Lei, proprio lei, stava progettando il nuovo santuario in cui avrebbero rinchiuso il Prescelto. Nonostante le mura alte e le torri abbracciate da lingue di fuoco eterno, alla fine, avrebbe comunque portato il simbolo della prosperità e del dolore di Diagon Alley ancora più lontano dagli occhi dei comunardi, ancora più lontano dai loro cuori.

Era giusto così?

Alzò lo sguardo sulle labbra di Camilla, che masticava le croste di Harry Potter con noncuranza, emettendo versi di approvazione e piacere. Fu pervasa da un’ondata di nausea e lasciò cadere per terra il proprio muffin ancora intero.

Quando Camilla se ne accorse, con un colpo di bacchetta lo sollevò da terra. Lo ripulì e fece per restituirlo alla legittima proprietaria, che però rimase immobile. “Tutto bene?”

Kadisha sentiva gli occhi e lo stomaco bruciare. Scosse appena la testa, provando a ingoiare il groppo che le occludeva la gola. “No.” Parlare faceva male. “Credo… Credo di aver litigato con Alma.”

Camilla aggrottò le sopracciglia. “Come mai?”

“Si rifiuta ancora di lavorare. Come se non le importasse di – Hai capito.”

Camilla posò muffin e bacchetta su uno sgabello, poi prese le mani dell’altra tra le proprie.

Kadisha si concentrò sul freddo che cominciava ad avvolgerle i palmi, sulle esplosioni che le percuotevano il petto, sull’odore rivoltante dell’erba fermentata. Bum, bum, bum. Era solo erba fermentata. Solo erba fermentata.

Era merda, muffa e cibo avariato.

“Io mi faccio il mazzo. Noi ci facciamo tutti il mazzo perché il suo sacrificio non sia inutile e lei se ne sta stravaccata a guardare fuori dalla finestra.” Una lacrima di rabbia cominciò a segnarle la guancia. “E poi indovina che mi risponde se provo a dirle qualcosa? Che se quello che succede mi fa star male sono solo fatti miei, e che non sono obbligata a restare.”

“Magari…” Camilla accartocciò il viso in una smorfia pensierosa. “Magari Alma si comporta in questo modo perché sta pensando di andarsene.”

Kadisha tirò su col naso, poi socchiuse e richiuse le labbra più volte, incapace sia di prendere in considerazione l’ipotesi, che di scartarla con certezza. Dopo un breve momento di silenzio si schiarì la voce. “E perché mai dovrebbe?”

“Suppongo che il suo rifiuto a lavorare possa essere una presa di posizione. Andarsene è la stessa cosa. Non che serva a qualcosa, anzi, ritengo che sia molto stupido ma…”

“Sicuramente la vita, fuori da Diagon Alley, è più dura.”

“E con abbastanza sofferenza per tutti.” Camilla incrociò le braccia e scosse le spalle. “È una questione di numeri. Dopotutto c’è una ragione se lavora su e non quaggiù.”

Kadisha storse il naso e osservò di sottecchi la ragazza, che aveva sempre bisogno di innalzare la propria autostima dando degli stupidi agli altri… In una situazione diversa avrebbe alzato gli occhi al cielo. Fece schioccare la lingua e, senza neppure rendersene conto, si ritrovò a guardare il soffitto.

“Non prendertela, è vero che la matematica non è il vostro forte.”

“Camilla, stiamo letteralmente costruendo un santuario che deve stare in piedi.”

“Sì, con la magia.”

 

 

 

🚶🏿‍♀️

 

 

 

Quella sera Kadisha era andata a letto presto. Sperava di poter recuperare qualche ora di sonno ma i suoi pensieri continuavano a tornare sempre alla stessa persona: Harry Potter.

Forse aveva ragione Camilla, in una situazione come quella bisognava essere pratici e non dare troppo spazio alle emozioni – solo ai numeri. Ma da quando il Prescelto aveva smesso di essere un martire e ai suoi occhi era diventato un uomo, le veniva impossibile non pensare che fossero le radici stesse di Diagon Alley a essere marce. La prosperità della comune era basata sul dolore di un individuo, e come diceva Camilla il dolore di uno era sempre meglio di quello di molti. Kadisha si rigirò tra la montagna di coperte e pupazzi, col cuore in gola. Tranne che per chi doveva subirlo: per lui non era meglio, non era peggio. Per lui, che fosse solo o in compagnia, era la stessa identica cosa.

Forse aveva ragione Camilla, era una questione di numeri, ma quando la matematica urla come si fa a guardarla ancora dallo stesso freddo punto di vista? Il Prescelto era coperto di croste e di piaghe. Il Prescelto non aveva più la lingua, ma era comunque impossibile interpretare le sue grida nel modo sbagliato. Il Prescelto stava soffrendo nel modo in cui soffrono tutti, non come un eroe, e attorno a lui non c’era alcuna aura di onnipotenza – sebbene i cittadini di Diagon Alley si fossero attrezzati per usarlo come capro espiatorio in eterno.

Era giusto così. Gliel’avevano insegnato a scuola e gliel’aveva confermato sua madre. Ma ci credeva davvero?

I battiti accelerati del suo cuore sembravano suggerirle di no.

Con uno strattone si liberò dal piumino e da un paio di soffici plaid stropicciati. Cominciò a grattarsi il viso e le braccia, come se il calore della casa potesse bruciarle la pelle, e si fiondò fuori dal letto.

Spalancò la finestra e respirò a pieni polmoni l’aria gelida della notte. Un brivido di adrenalina le attraversò la spina dorsale, riportandola alla realtà. Le strade secondarie della comune erano immerse nel buio, anche se…

Kadisha si sporse oltre al davanzale e infilò il collo tra gli steli secchi dei gerani. C’era un palazzo, in fondo alla via, che sembrava emanare una flebile luce; se non si sbagliava era quello in cui viveva anche Alma. Qualcuno doveva essere sveglio, al terzo o al quarto piano. Che potesse trattarsi proprio di lei?

Kadisha ripensò alla teoria di Camilla. In quel momento cominciò ad apparirle probabile. Più che probabile, quasi innegabile.

Alma se ne sarebbe andata, e l’avrebbe fatto quella notte.

Kadisha si rese conto di avere bisogno di ossigeno – più ossigeno ancora. Aveva il fiatone e il suo corpo fremeva, agitato, pronto a… cosa? Strizzò gli occhi.

A volare lontano.

Senza pensarci due volte prese uno zaino dal guardaroba e iniziò a buttarci dentro le prime cose che le capitavano a tiro. Si assicurò di avere con sé la bacchetta poi, ancora in pigiama, balzò sulla scopa e cominciò a sfrecciare in direzione della luce artificiale.

Il vento le sferzava le guance e i suoi occhi lacrimavano, ma non importava. Voleva approfittare dell’incoscienza delle ore piccole, quelle in cui il cervello è ancora addormentato e si disinteressa di equazioni. Per una volta voleva concedersi di ragionare col cuore.

Procedeva a scossoni, come ubriaca. Aveva freddo e paura, ma gli angoli della sua bocca continuavano comunque a piegarsi verso l’alto. A un certo punto, nonostante la pelle che tirava, smise persino di farci caso.

Quando si arrestò, a pochi metri dal palazzo, Kadisha ebbe la conferma che stava aspettando. Alma le dava la schiena dalla parte opposta del vetro, stretta in un abbraccio che aveva tutta l’aria di essere materno.

Presto le due figure si lasciarono andare. La più anziana tirò fuori dalla tasca un fazzoletto; la più giovane, invece, afferrò la scopa e raggiunse quatta quatta la finestra.

Alma si accorse della presenza inattesa e spalancò la bocca in un’espressione stupita, presto sostituita da un sorrisetto furbo. Si portò l’indice davanti alle labbra, poi si aggrappò alla maniglia, che fece girare senza fare rumore. Preso il volo, richiuse gli infissi alle proprie spalle con un colpo leggero della bacchetta. Una volta completata quella piccola operazione piegò appena la testa e indicò il muro con un palmo aperto. “Nonna è meglio che non si svegli,” spiegò. “Non ha ancora perdonato sua sorella per essersene andata, ed è stato molto molto tempo fa. Io non ero ancora nata.”

Improvvisamente la scena di quella mattina in biblioteca si colorò di una sfumatura diversa. Kadisha si morse il labbro e si diede mentalmente della stupida per non aver capito tutto prima. “Era da tanto che pensavi di partire?”

“Sì, ma non riuscivo a trovare il coraggio di farlo.” Alma fece spallucce e per poco non scivolò dalla scopa. Digrignò i denti e strinse le dita attorno al legno, poi, una volta ritrovato l’equilibrio, tirò un sospiro di sollievo e tornò a sorridere. “E tu invece che mi dici? Mi aspettavo di rivederti, ma non così presto.”

Kadisha sentì le guance bruciare. “Credo… Credo di aver preso realmente una decisione solo qualche minuto fa.” Lasciò scivolare lo sguardo verso terra, non si era resa conto di essere così in alto. Raddrizzò in fretta la schiena, trattenendo una vertigine, e prese un respiro profondo. Tutt’a un tratto il senso di colpa si fece soffocante.

Ma che stava facendo?

Boccheggiò in cerca d’aria fresca. Se ne sarebbe davvero andata così, come una ladra, senza salutare nessuno? Inghiottì a vuoto e Alma le poggiò una mano sulla spalla.

Sì.

Dopotutto, che senso avrebbe avuto procrastinare ancora? Lei aveva già deciso e nemmeno i numeri erano stati in grado di convincerla, in tutti quegli anni.

Forse aveva ragione Camilla, c’era davvero un motivo per cui non lavorava nei sotterranei, eppure per la prima volta quella constatazione non le risuonò in testa come un insulto. A lei di Harry Potter importava e la cosa non sarebbe cambiata.

“Sei ancora in tempo per tornare indietro, se vuoi.”

Kadisha scrollò la testa. Non era vero, e in fondo lo sapevano entrambe. “Facciamo questa cosa.”

“Sì.”

Partirono, veloci, a cavallo delle loro scope, e attraversarono per un’ultima volta il centro della città. Sorvolarono Il paradiso delle orge della signora Shafiq, la biblioteca, e il santuario della via maestra che presto sarebbe caduto in disuso. Quando raggiunsero il limitare della comune, Kadisha cercò con lo sguardo la casa di Camilla.

Le luci erano tutte spente.

Il suono di un gemito si unì ai fischi del vento. Lacrime ghiacciate cominciarono a scalfire le guance di Kadisha, poi a cadere sul suo petto, creando voragini. Eppure lei continuò ad andare avanti, anche con la vista offuscata. Superata quella casa – strappato il cerotto – non si voltò più indietro nemmeno una volta.

Sorvolarono l’area boschiva Ex Nocturn Alley e lasciarono il territorio protetto grazie alle pene del Prescelto, procedendo sotto al debole bagliore della luna. Poco più avanti, tra le fronde dei faggi e dei tigli, un ragazzo dalla chioma rosso Weasley attendeva di essere raggiunto.

Alma salutò Benjamin e i tre proseguirono assieme il loro viaggio.

Non avevano una meta, ma sembrava che sapessero ciò che stavano cercando. E forse un giorno l’avrebbero addirittura trovato, lontano da Diagon Alley.

 

 

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Note:
Questa è la storia che mi ha tenuto compagnia nelle ultime settimane. Scriverla è stato po’ un esperimento, per me. Dal punto di vista stilistico ho provato molte cose nuove, ed è stato difficile e talvolta persino stressante, però sono contenta perché comunque sono arrivata alla fine e, nel viaggio, penso di aver imparato molto. Sicuramente c’è ancora tanto di migliorabile in queste righe, ma questa stesura mi piace più delle precedenti, ed è già qualcosa.
Ringrazio i miei beta – Matteo, Eraldo e Thomas – per i preziosi consigli, di cui ho tenuto conto per compiere le mie scelte finali. E poi ringrazio chiunque mi abbia letto, spero che farlo sia stato piacevole.
Un abbraccio!
  
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