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Autore: historiae    28/10/2022    0 recensioni
Darcy varca per la prima volta la soglia del grande monastero, e l’impatto con la luce è devastante. Stordita e senza forze, la strega delle ombre viene messa faccia a faccia con il suo peccato e affronta i primi passi che la condurranno verso la redenzione. Con dignità, stringe i denti e cerca di resistere all’influsso positivo di Roccaluce e di non soccombere sotto il suo elemento avverso, per mantenere intatta, a ogni costo, la sua integrità.
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Darcy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Uno strano suono aleggiava nell'aria, proveniente da una fonte indefinita nello spazio e nel tempo, ed echeggiava con un rimbombo sulle particelle di energia che componevano le pareti vorticose del portale dimensionale.

Quando Darcy se ne accorse, aguzzò l'udito e gli altri sensi, incrementando il suo stato di allerta, ma non potè voltarsi per constatare se anche i due uomini che le camminavano appresso lo stessero udendo o meno. Il loro silenzio e la loro noncuranza lasciavano pensare che ciò, per loro, non costituisse alcunchè di nuovo.

Le loro mani massicce erano ancorate alle sue braccia in una morsa salda e spietata. Con i polsi bloccati dietro la schiena, oramai intorpiditi per l’assenza di circolazione, Darcy avanzava passo dopo passo sul terreno intangibile, verso una destinazione dall'aspetto ancora ignoto, di cui finora conosceva solamente il nome.

Fino ad allora impegnata a lottare per tentare una fuga, si era accorta all’improvviso di essere sola. La sua percezione della presenza delle sorelle si era attenuata, e come in un surreale sogno, aveva udito le loro voci affievolirsi a poco a poco fino a svanire del tutto.

Il rumore ovattato che aleggiava nel portale sovrastava ogni voce, e avrebbe impedito a qualsiasi domanda di giungere alle orecchie dei due templari, che per altro non sembravano essere ben disposti a fornire risposte.

Percependo un crescente senso di disagio, Darcy provò l'impulso di arrestarsi poco prima che i templari la spingessero in avanti, verso l’uscita del portale che si apriva, rivelando al di là una considerevole quantità di luce.

Miriadi di sottili lame luminose penetrarono nel varco dimensionale gettando intermittenti bagliori sui corpi delle tre figure, come sprazzi di sole attraverso una chioma d'albero.

Darcy socchiuse le palpebre, infastidita, appena raggiunse la soglia. Mosse l'ultimo passo sul marmo lucente dinanzi al monumentale portale d'ingresso del monastero di Roccaluce.

Non potè minimamente sottrarsi alle mani dei due uomini ancorate a lei come le spire di un serpente costrittore, né potè arretrare o divincolarsi in alcun modo, mentre i suoi occhi, da sempre affini alle tenebre, venivano invasi da un'ondata di luce.

Luce.

Serrò le palpebre, come dinanzi alla visione più raccapricciante del creato, e ritrasse il viso gemendo in preda a un dolore lancinante alla testa. Ma dinanzi al bagliore continuo e bruciante di quel luogo non sembrava esserci scampo. Il laccio che le legava le mani le impedì di proteggersi. La luce la sferzò come un migliaio di spilli, esercitando su di lei la sua forza, tanto incompatibile con la sua essenza da toglierle in un solo colpo ogni energia.

Si accasciò a terra tremando, travolta da un'ondata di nausea. Sì sentì ritorcere le viscere e gridò per il dolore datole da quella tortura, cercando di sottrarsi, invano, a quel candore caldo e opprimente.

Doveva essere l'inferno. Si sentì morire.

Ora il canto monotono dei monaci si spandeva nell'aria nitidamente, accompagnato dal suono intermittente dolce ed ipnotico di una campana tibetana che impregnava di energia positiva ogni angolo di terra e di cielo, ogni filo d'erba ed ogni granello di sabbia di quel luogo ancestrale.

Inginocchiata a terra e in preda al dolore fisico e mentale più devastante che avesse mai provato, Darcy percepì un lembo di tessuto coprirle gli occhi, e solo allora si concesse di dischiuderli con fatica, mentre la sofferenza datale dal contatto con la luce solare le lasciava addosso solo un grande affanno. A stento ricominciò a respirare con regolarità, assaporando l'appena percepibile sollievo dato dalla parziale oscurità.

 

-Un po' di sole non le avrebbe fatto male.- disse uno dei cavalieri all'altro.
-Non credo che il Consiglio approverebbe se ogni nuovo arrivato ci lasciasse la pelle ancor prima di scontare la pena.-

Darcy maledisse mentalmente l'uomo appena in tempo perchè lui la risollevasse di peso.

-Si abituerà. Come hanno fatto tutti gli altri. Su, cammina.- disse, brusco. La strega fu condotta oltre il portone.

Lasciato alle spalle il calore del sole, Darcy trovò ad attenderla l’ombrosa frescura dell’immenso chiostro. Svuotata di ogni energia e incapace di vedere, procedette a tentoni attraverso l'interminabile corridoio semibuio che si addentrava nella fortezza.

 

Quando i due templari la fecero fermare e le liberarono con rapidità i polsi legati, Darcy ricominciò a percepire il formicolio del sangue che ricominciava a scorrerle nelle mani, e senza esitazione si strappò la benda dagli occhi. Dal poco che riuscì a vedere, capì di trovarsi in una stanza di media ampiezza, la cui unica fonte di luce proveniva da una piccola monofora posta al centro della parete che le stava di fronte. Il sottile raggio luminoso che cadeva a piombo dinanzi a lei era meno diretto, ma abbagliante abbastanza da obbligarla ad alzare una mano per proteggersi gli occhi.

-Qui c'è la tua uniforme.- disse una delle guardie. -Indossala. Tra poco verranno a prenderti.-

Voltandosi per osservare i due uomini, Darcy non riuscì a coglierne perfettamente i lineamenti, tanto la sua vista era affaticata.

-Quando potrò vedere le mie sorelle?- fu la prima domanda che le uscì spontanea.

-Non sta a me dirlo.- fu la risposta del templare. Detto ciò, egli uscì assieme al compagno, girando la chiave nella serratura con un suono sordo e poco rassicurante.

 

Rimasta sola, Darcy gettò la benda che ancora teneva nella mano, in un angolo, e si inginocchiò sul pavimento, cercando di fare ordine nella sua testa. Era abbandonata a sé stessa, senza sapere dove fossero Icy e Stormy, in quel luogo pregno di magia positiva e della luce intensa da essa scaturita, il cui solo pensiero le scatenava una tremenda emicrania. E chissà per quanto avrebbe dovuto rimanervi.

Osservò i palmi delle sue mani, i cui contorni iniziavano solo ora a divenire meno sfocati e indefiniti. Alcune fastidiose e minuscole macchie di luce erano rimaste nel suo campo visivo, e per un momento temette che la sua vista fosse stata compromessa in modo permanente. Per sua fortuna, ci volle solo una manciata di minuti perchè cominciasse a riabituarsi alla penombra della stanza. Distinse le pareti in pietra antica e le modanature orientaleggianti della piccola finestra; una sediola di legno chiaro su cui giaceva, apparentemente intoccato, un minuscolo libello di preghiere rifinito d'oro; e infine un piccolo letto interamente bianco. Sfiorò con la mano la seta sottile della fodera del cuscino e pensò che tutto sommato neanche a Torrenuvola aveva mai avuto la fortuna di possedere un giaciglio tanto accogliente.

Raccolse l'uniforme candida e la osservò, rassegnata.

Si tolse i vecchi vestiti impolverati e non più degni di qualsivoglia strega meticolosa nelle apparenze. La luce che pioveva dalla finestra si riflettè sul bianco della stoffa generando un leggero bagliore che percorse il suo intero corpo arrivando a ferirle gli occhi. Il tessuto povero e grezzo non fu piacevole da sentire sulla pelle già sensibile e scottata dalla luce folgorante. Ma non c'erano molte alternative su cui Darcy potesse contare.

Sospirando, congiunse i due bottoni sul petto. La stoffa la stringeva lievemente alla gola e ai polsi, quanto bastava a farla sentire un topo in trappola.

 

Seduta sul letto, nell'unica zona d'ombra della stanza dove poteva dirsi a suo agio, Darcy assaporava il silenzio, facendo scorrere le dita lungo i capelli, e sciogliendo i minuscoli nodi che trovava. Non sapeva dire quanto tempo fosse passato, e il desiderio di sapere dove fossero Icy e Stormy andava facendosi sempre più forte.

Quando d’un tratto udì il clangore della chiave che girava nella serratura, fu colta da un sussulto.

Vide ricomparire il templare che l’aveva condotta lì, lo stesso che l’aveva immobilizzata dopo la lunga battaglia di Alfea e che l’aveva trascinata dentro il varco.

I suoi occhi, durante quei minuti di attesa, avevano ritrovato ristoro, e ora poteva cogliere interamente la fisionomia dell’uomo, il nero dei suoi occhi severi e delle folte sopracciglia, gli zigomi pronunciati e la lunga capigliatura raccolta. I muscoli in tensione non lasciavano spazio a dubbi circa la sua forza fisica, e la sua uniforme corazzata lasciava intendere che fosse titolare di un’autorità salda e difficilmente aggirabile.

-Alzati.- pronunciò, e prima ancora che Darcy potesse eseguire l’ordine di malavoglia, le sue mani si erano già aggrappate ai suoi polsi e li avevano immobilizzati con un altro cappio. Innervosita, la ragazza lo precedette fuori dalla cella, se non altro per evitare che lui la costringesse a camminare con la forza. Con il templare alle costole, infilò il lungo corridoio di pietra, senza sapere dove fossero diretti. La sua unica speranza, in quel momento, era che la portassero finalmente dalle sue sorelle. Il pensiero che anche loro avessero subito lo stesso suo trattamento, la rincuorava un poco.

L’eco dei passi rimbombava sulle volte antiche e imponenti, mentre le voci dei monaci echeggiavano ancora nel loro canto sacrale che teneva viva l’energia dell’intero luogo, come un disco ripetuto all’infinito.

La penombra iniziò pian piano a lasciare posto a un leggero chiarore e sulle pareti andavano comparendo di nuovo piccole e sparse macchie di luce. Darcy serrò la mandibola, reprimendo il disagio, conscia del fatto che probabilmente sarebbe stata condotta nuovamente all’esterno.

Con sorpresa, però, la guardia si fermò molto prima di raggiungere il portale d’uscita.

Sulla parete, tanto piccola e scura da risultare quasi invisibile, si apriva una porta di legno puntellata di inserti metallici in perfette condizioni, seppur antichi di migliaia di anni.

Varcarono quella soglia e si ritrovarono in un ambiente poco illuminato, una sorta di sagrestia con un soffitto ad archi ribassati dall’aria quasi claustrofobica, in contrasto con l’immensità degli spazi esterni. Immersi in un silenzio meditativo, altri prigionieri sedevano lungo le pareti, su panche di legno lustro. Lo smarrimento e il nervosismo che trasparivano dai loro volti, indicavano che si trattava di nuovi arrivati.

Per ognuno di loro, un cavaliere templare stava in piedi, di guardia.

Darcy non sapeva cosa aspettarsi. Si trovava lì da meno di un’ora e già sentiva di non poterne più. Il fatto che nessuno le parlasse, poi, era disturbante all’inverosimile.

Non passarono che pochi minuti che una porticina si aprì sul lato opposto della sala.

Uscì una ragazza, scortata dal suo carceriere. Darcy la seguì con lo sguardo mentre camminava verso l’uscita a passi lenti. La sua uniforme candida rifletteva la luce forte che pioveva dalle monofore affacciate sulla volta celeste. Doveva avere all'incirca l'età di Icy, ma l'espressione distesa del volto la faceva apparire molto più giovane. Avvolto alla sua testa vi era uno strano oggetto, una fascia luminosa che dava l’idea di essere alquanto spiacevole da portare.

Senza capire come, Darcy si ritrovò oltre la soglia di quella porta, con le mani finalmente libere, in una piccola stanza completamente bianca. Il dolore alla testa la colpì nuovamente, mentre cercava di mettere a fuoco i dettagli e gli oggetti che aveva intorno.

Qualcosa, in quell’ambiente, le ricordava l’infermeria di Torrenuvola, con l’unica differenza che non vi era traccia di tende alle finestre o di qualunque altro mezzo che tenesse lontana la luce del giorno. Le ci vollero diversi secondi per abituarsi a quel supplizio, prima di scorgere i contorni sfocati di una figura umana che le veniva incontro.

Lo vide stendere il braccio alla sua sinistra e invitarla ad accomodarsi su un giaciglio morbido e comodo. Sbattendo le palpebre un altro paio di volte riuscì finalmente a distinguere quello che sembrava essere una piccola fontana di marmo bianco proprio al centro della stanza, da cui sgorgava, leggiadro e pulito, un filo di acqua purissima. Una piccola scultura in alabastro raffigurante il Grande Drago faceva mostra di sé su un tavolino marmoreo decorato a intarsio. Il culto della grande entità aveva il suo centro proprio tra quelle mura e ciò non sorprese Darcy, che ora aveva spostato lo sguardo sullo sconosciuto che l’aveva raggiunta.

Era un monaco; era alto di statura, e la sua tunica color vaniglia non arrivava a toccare terra, lasciando scoperte le sue scarpe di stoffa pregiata. Darcy non seppe dargli un’età, ma pensò che dovesse essere piuttosto giovane. Al contrario dei templari che aveva incontrato finora, quel ragazzo non sembrava avere intenzione di trattarla con prevaricazione o aggressività, ma anzi le rivolgeva un sorriso placido e sincero, il primo che la strega avesse potuto esperire durante quelle ore.

Teneva qualcosa tra le mani, ed era la ragione per cui, ora, Darcy lo guardava con sospetto. Una strana aureola luminosa, la stessa che aveva visto sul capo della ragazza che l’aveva preceduta fuori di lì.

Quando, con modi gentili e delicati, sollevò le mani per portarle all’altezza della sua fronte, Darcy si ritrasse, con diffidenza.

-Tranquilla, questo non ti farà male.- disse il monaco, con garbo.

Se fosse stata abbastanza in forze, se avesse potuto trarre ancora un po’ delle energie necessarie dall’ombra della sua cella, si sarebbe difesa in altro modo, ma in quel momento la sua magia non rispondeva più. Era stanca, esausta, e oltretutto quella cordialità le era così poco familiare, quasi irritante.

-Ci vorranno solo pochi secondi.- parlò ancora il monaco. Darcy rimase immobile, con le mani abbandonate sul grembo, i capelli scuri che la avvolgevano come una coperta, in contrasto con il bianco immacolato della sua uniforme. Apatica, lasciò che l’uomo le applicasse il laccio di energia attorno alla fronte.

-Ti è stato detto a che cosa serve?-

La ragazza scosse la testa, inespressiva. Non aveva avuto la fortuna di essere informata, nell’arco di tempo che aveva seguito il suo arrivo. Ma durante gli studi aveva avuto modo di documentarsi su quella pratica e sugli strumenti di conversione delle anime corrotte dal male. I monaci addetti alla loro riabilitazione si servivano di un inibitore di energia negativa che, al contempo, contribuiva a indirizzare gradualmente la loro coscienza verso la moralità.

Fu quello che le spiegò anche il giovane uomo, prima di aggiungere: -Per i primi giorni proverai un po’ di fastidio. Ma ti ci abituerai.-

Gli occhi castani del giovane monaco guardavano nei suoi, come a volerle leggere dentro, senza mostrare timore o avversione nei suoi confronti. Probabilmente era stato addestrato alla calma e al coraggio anche di fronte ai più pericolosi criminali della dimensione magica, e da quello studiolo dovevano esserne passati a centinaia. Era la prima volta che qualcuno riusciva a mantenere un tale sangue freddo in sua presenza, ma Darcy si convinse che ciò era dovuto alla sua momentanea vulnerabilità, che la rendeva innocua anche al più pavido dei soggetti.

Per una frazione di secondo, al contatto con la fascia di energia, si sentì svuotata, persa, come se il tempo e lo spazio attorno a lei si fossero all’istante congelati in un presente privo di senso, eterno ed immobile. Sentì il flusso della sua magia fermarsi, spegnersi, come se un ostacolo avesse interrotto il fluire di una sorgente, rendendola un involucro morto. Sentì la lucidità mentale alleggerirsi, come se stesse per perdere il libero arbitrio.

Ma ciò non durò che un istante, poiché immediatamente sentì di poter opporre resistenza. La sua magia le era stata tolta, ma l’oggetto inibitore non era stato abbastanza efficace da cancellare tutto, tutta la forza che ancora aveva celata dentro, la sua integrità mentale, la sua essenza.

Il calore e la pace della notte erano ancora lì, tra i suoi ricordi più piacevoli.

Lei era più forte.

-Non devi essere spaventata.- pronunciò il monaco.

La ragazza si servì di qualche istante per recuperare la rapidità dei riflessi, rallentata dall’opprimente oggetto che, con tutto l’accanimento per cui era stato programmato, cercava di indirizzare il suo pensiero. La diffidenza nei confronti del giovane uomo aveva fatto posto ora a un familiare sentimento di sufficienza. Che perdesse pure il suo tempo a rassicurarla con parole buone. Non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di darle soggezione.

-Posso solo immaginare quanto debba essere stato difficile per te. Non lo è mai per nessuno. La tua energia viene dall’ignoto, dalle ombre. La luce è il tuo nemico naturale. Come anche l’obiettività, la giustizia. Per questo Roccaluce ti è così avversa.- si fermò. Tutto ciò era quanto ci fosse di più ovvio. -Ma con il tempo scoprirai che la luce non vuole e non può farti del male. Presto non brucerà più e ti sentirai sempre meglio. Ti darà gioia e pienezza. Riavrai la vita che meriti, se imparerai ad accoglierla.-

Illuso, pensò Darcy. Gli occhi indagatori del giovane monaco ci aveva visto fin troppo lungo. Ingannare quel genere di elementi non era mai facile, ma dato che lui stesso rispondeva a un protocollo deciso a tavolino ai piani alti dell’ordine dei templari, l’unico modo per illuderlo e ottenere la libertà era quello di fargli credere che avesse ragione. La furbizia salvava la vita in modo molto più efficace di qualsiasi rivolta violenta.

Con fatica, Darcy aggiustò la postura, ponendosi a testa alta e rivolgendosi a lui con tono di voce fermo e sicuro. Dato che lui sembrava l’unica persona in quel posto disposta a concederle qualche indizio, decise di approfittarne.

-Cosa mi succederà, adesso?-

Il monaco le rivolse un altro sorriso pieno di premura, mentre con delicatezza le sistemava meglio il nastro inibitore sulla fronte. Sembrava molto attento a volerla lasciar andare con un aspetto dignitoso.

-Ti porteranno al Tempio.- rispose.

-Per che cosa?-

Il monaco fece un leggero sospiro, ma mantenne la sua espressione serena e composta. Evidentemente era abituato a ripetere e ripetere quelle indicazioni a tutti i nuovi venuti.

-Riceverai il Battesimo. Sarà il tuo primo rito di passaggio, l’inizio del tuo percorso verso la purificazione. E sarai sola. Io non posso rivelarti nulla di quello che vedrai, ma starà a te decidere cosa farne.-

Data l’improvvisa riluttanza dell’uomo, Darcy si astenne dall’informarsi oltre su cosa l’avrebbe attesa una volta entrata nel Tempio. Una leggera agitazione si impadronì di lei, e il monaco se ne accorse.

-Quando rivedrò le mie sorelle?-

-Molto presto.- la rassicurò lui. -Molto presto.-

Fece un passo indietro e le diede il permesso di andare, congedandola con il saluto di pace.

 

La sensazione di debolezza si acuiva man mano che Darcy, accompagnata dal carceriere, si avvicinava alla soglia d’uscita della fortezza, diretta verso il grande Tempio del giardino retrostante.

Essere stata privata dei poteri magici era come essere stata tramutata in un contenitore vuoto, disposto per essere ora convertito a ricettacolo di sentimenti benevoli. Un’atrocità che Darcy non avrebbe assolutamente permesso. Un formicolio la invadeva in tutto il corpo, rendendole difficile proseguire con sicurezza verso l’esterno, dove una nuova pioggia di raggi di sole la attendeva, pronta a ferirla senza pietà.

I suoi polsi erano stati nuovamente legati e l’unico modo di proteggersi sarebbe stato nuovamente quello di serrare le palpebre. Non avrebbe mai pensato che la stretta del templare che la guidava potesse essere un’ancora di salvezza su quel piccolo tratto di terra.

Tuttavia, si accorse con sorpresa che il contatto con quella fonte di luce non la abbattè nel modo in cui si aspettava. Rabbrividì al pensiero di stare già abituandosi a convivere con quell’energia opposta alla sua, e le sembrò per un attimo di aver tradito sé stessa. Forse, pensò, era stato solo il primo impatto con la luce ad atterrarla tanto da farle credere di non sopravvivere. Forse il monaco aveva ragione; forse, con il tempo, il suo soggiorno alla fortezza sarebbe divenuto, da ingestibile, quantomeno vivibile. Doveva solo stringere i denti e impegnarsi perché si concludesse presto. Ora, se si sforzava a sufficienza di resistere al sole accecante, poteva persino tenere gli occhi socchiusi e osservare il grande giardino che si apriva davanti a lei.

Giganteschi vasi di terracotta ospitavano al loro interno specie vegetali della più ampia e antica varietà e, nonostante le loro dimensioni colossali, non erano sufficienti a creare l’ombra e il ristoro di cui la strega sentiva ora il bisogno, come acqua in pieno deserto.

Un’immensa e ripida scalinata di marmo bianco le si stagliava di fronte, imboccando l’invisibile entrata dell’edificio sacro. La costruzione, alta almeno un centinaio di metri, era impreziosita con inserti policromi e sculture raffiguranti la nascita e il viaggio del Grande Drago fino al suo ultimo respiro. La grande torre sfidava il cielo e sembrava poggiarsi direttamente al sole, a cui tendeva, fiera, e che ne abbagliava la sommità.

Mentre saliva gradino dopo gradino, Darcy vide altri prigionieri come lei discendere le scale, accostati dalle loro guardie. Uno di loro, una donna dagli occhi neri come la notte, la guardò con una tale rabbia che le fece all’istante provare empatia. Non vi erano altri sentimenti da conoscere, per le creature votate all’oscurità come lei, oltre a quelli negativi, e ora, vittime del potere di Roccaluce, non potevano più trovare sfogo nella violenza o nei pensieri per loro rassicuranti. Solo il dolore dei ricordi prevaleva, insieme alla collera della prigionia.

Salito l’ultimo gradino, la calura e il chiarore si fecero intollerabili. Quando il templare la condusse con forza attraverso la soglia del Tempio, la situazione non migliorò.

Un ambiente circolare completamente bianco e illuminato a giorno la avvolgeva come una colossale gabbia. Possenti colonne di marmo sorreggevano ampi portali riccamente decorati che a loro volta sorreggevano altre colonne e altri archi in un crescendo di imponenza, candore e preziosità.

Larghe cascate di luce inondavano la sala piovendo dalle grandi finestre direttamente sulle figure umane che vi si muovevano all’interno, minuscole come formiche al cospetto della grande cupola.

Sentendosi girare la testa, Darcy si concentrò su dove metteva i piedi, cercando di non guardare in alto. Avanzò nel corridoio centrale mentre notava le poche presenze dei monaci che passeggiavano, assorte, nelle navate adibite alla preghiera.

Al centro esatto della cella sacra, il sacerdote attendeva in piedi su un piccolo podio, abbigliato con una regale tonaca di seta e una stola dorata.

Giunta davanti a lui, Darcy non sentì le mani del templare lasciarla, e nemmeno la corda allentarsi.

Si soffermò sullo sguardo austero dell’anziano uomo che reggeva nella mano il pastorale scintillante e al cui fianco era appostato un piccolo involucro di metallo, il cui contenuto restava un mistero.

Con prepotenza, Darcy fu costretta ad inginocchiarsi di fronte all’anziano e fu colta all’istante da un sentimento di collera e repulsione. Se al cospetto del giovane monaco aveva avuto fortuna, qui la situazione non prometteva affatto bene. Osservò il religioso portare la mano all’interno del piccolo contenitore ed estrarla subito, tendendola verso di lei. In preda al panico, cercò di sollevarsi e sfuggirgli, ma il templare al suo fianco la teneva ancora immobilizzata.

Quando finalmente il sacerdote, con il pollice intriso di una sostanza simile ad oro liquido le marchiò la fronte, Darcy non potè fare nulla.

Trattenne un grido di dolore per il bruciore devastante sulla pelle e strinse i denti, ma quella tortura non accennava a smettere. Gli uomini che le erano accanto rimasero impassibili di fronte alla sua sofferenza. Doveva essere questo, il sacramento di cui le era stato accennato.

Sentì quella speciale sostanza, tanto carica di energia positiva da darle il capogiro, compiere il suo effetto quando percepì alcune immagini formarsi nella sua mente, gettandola in un parziale stato di incoscienza.

Doveva trattarsi di un sortilegio orchestrato ad hoc, oppure un tremendo effetto collaterale di quel composto, perché come in un sogno, alcuni frammenti del suo passato le comparvero davanti e, con essi, il sentimento di sofferenza proveniente direttamente dagli animi delle sue vittime. Pensò dovesse essere il tentativo malriuscito di mostrarle il male che aveva fatto nella vita e di instillare in lei il senso di colpa e la sua sete di redenzione; come un giudizio finale pronunciato in silenzio, attraverso quelle visioni che a nulla servirono se non ad acuire il suo desiderio di liberarsi da quel giogo, uscire da quel limbo e tornare alla vita che le apparteneva.

Il messaggio che le stavano lanciando quelle visioni era chiaro; aveva peccato di menzogna, e lo aveva fatto per tutta la vita, infliggendo indicibili sofferenze a chi aveva incontrato, anche a chi aveva genuinamente voluto camminarle accanto. La bugia, che fosse per vendetta, per noia o per spassionata cattiveria d’animo, era il peccato più grande che si potesse commettere contro il Bene e la Verità; lasciare che la falsità e l’ambiguità governassero il mondo era il perfetto pretesto per l’avvento di caos e distruzione, nemici dell’ordine per definizione, che avrebbero condotto le persone alla confusione e alla lotta continua, compromettendo gli equilibri; un biglietto di sola andata per un mondo senza valori e difese, manipolabile dalle forze del male. Alterare la realtà era un atto di odio e sfida nei confronti del grande disegno divino, e per questo andava punito.

Come in trance, Darcy vide sé stessa acquisire innumerevoli altre sembianze, prendere posto all’interno di vite che non le appartenevano, nutrendosi poi delle emozioni che gli altri, ignare di tutto, le donavano; si vide diffondere malelingue, indirizzare altre persone su binari di vita insani e distruttivi, nascondere propositi meschini di sfruttamento dietro un cuore attento; si vide umiliare menti fragili portandole alla disperazione, indurle a rivelarle le loro debolezze per poterle usare a loro sfavore, colpire alle spalle, svelare segreti importanti, peccare di superbia.

Quello che meno la sorprese, fu il fatto di restare indifferente a ciò che vide, e che neanche il minimo accenno di rimorso la sfiorò. Subì passivamente quello strano stato di alterazione della coscienza come il riavvolgimento di un vecchio nastro di fotografie, e l’unico sentimento che provò durante quei minuti, fu la schiacciante nostalgia per la sua libertà.

Proprio quando credette che potesse continuare all’infinito, la visione cessò, gradualmente, riportandola alla realtà. La pelle non bruciava più, e con il fiato spezzato potè constatare di nuovo la presenza del sacerdote in piedi davanti a sé, la mano ferma del templare stretta attorno ai polsi, il marmo liscio sotto le ginocchia, la luce che pioveva intorno.

Non ebbe nemmeno il tempo di aprire bocca o di risollevarsi autonomamente sulle sue gambe, che il templare la costrinse ad alzarsi, al consenso dell’anziano.

In preda a tremiti di rabbia, Darcy precedette il templare all’uscita del Tempio, una massiccia scalinata di marmo identica a quella d’ingresso, che questa volta scendeva gettandosi morbida verso una distesa verde accarezzata dal sole.

Darcy mise a fuoco la vista e scorse, sulle colline che si estendevano per chilometri in quella che doveva essere una sorta di illusione spaziale, dei puntini bianchi in movimento.

Sospinta dal carceriere, percorse le scale fino a terra, mentre la visione dello spazio che le si stagliava davanti si faceva sempre più nitida.

Un grande cancello dorato la separava da quel mare verde e luminoso dove non sembrava esserci traccia di altri templi, monaci o strani figuri pronti ad attentare al suo limite di sopportazione. Stando agli eventi, il suo percorso di iniziazione avrebbe dovuto essere compiuto, il che significava che tra non molto avrebbe finalmente rivisto le sorelle. Non attendeva altro, ed era sicura che se l’avessero tenuta sulle spine ancora un po’, avrebbe raggiunto l’esasperazione. Non avrebbe potuto contare sulla magia, ma era certa che avrebbe trovato un modo per infliggere dolore.

A pochi passi dal cancello, si arrestò di scatto nel percepire un fremito d’ali dinanzi al suo viso. Inorridita, si riprese e notò una grande farfalla dalle ali purpuree svolazzare via, oltre la soglia, fino nei giardini, dove forse aveva la sua casa. Tanto era grande, che non scomparve alla vista prima di qualche secondo, e si nascose tra gli alberi più lontani. Darcy chiuse gli occhi, conscia di quello che l’aspettava oltre, e inspirò ed espirò profondamente più volte.

Tra le colline, altri prigionieri interagivano serenamente, qualcuno camminava a passo lento ammirando le magnifiche specie di fiori e sollevando il viso al cielo lasciandosi baciare dal sole; una giovane donna camminava placidamente a seguito di due bambini, probabilmente nati tra quelle mura, che si rincorrevano veloci; il vento leggero sospingeva il grande aquilone che il bimbo più grande teneva legato con un cordino tra le dita.

All’ennesimo respiro, Darcy riaprì finalmente gli occhi. I suoi piedi già poggiavano sulla soffice distesa d’erba, e senza che avesse avuto modo di accorgersene, i suoi polsi erano stati liberati. Li osservò, sfiorando i segni della corda appena visibili sotto i polsini dell’uniforme, e si guardò alle spalle per notare che il cancello dorato si era già chiuso alle sue spalle.

Sentendosi in trappola e smarrita come mai in vita sua, si fece forza e avanzò a testa alta muovendo piccoli passi e cercando di riacquistare il senso dell’orientamento, tanto acuto prima quanto debole ora, in quello strano posto dove la luce sembrava mescolare i contorni e i riferimenti dello spazio come il pennello di un pittore folle sul quadro della realtà.

All’ombra di un albero secolare, non molto lontano, riuscì a distinguere, per puro caso, due figure.

Si erano alzate in piedi nel vederla, accennando a muoversi nella sua direzione.

Erano vestite come lei, e sul loro capo brillava la stessa fascia luminosa.

Proseguendo verso quella piccola oasi di penombra, percependo un senso di sollievo, Darcy distinse in quelle sagome una sfumatura violacea e i capelli candidi e l’inconfondibile pelle marmorea che avrebbe riconosciuto fra mille.

  
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