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Autore: Nike90Wyatt    04/11/2022    1 recensioni
Milano, 2016. Marinette Dupain-Cheng vive la nuova realtà di studentessa dell’Accademia di Moda Bellerofonte per coronare il suo sogno di diventare un giorno una stilista di livello internazionale. Quella borsa studio ottenuta grazie al suo immenso talento è stata una vera benedizione del cielo. Ma la strada verso la gloria è frastagliata e irta di imprevisti e le certezze di Marinette, lontana dal sostegno dei suoi amici, iniziano a vacillare fino a crollare del tutto quando una minaccia tanto pericolosa quanto imprevedibile inizia a incombere su Milano. I poteri di Ladybug potrebbero non essere sufficienti per affrontarla; pertanto, Marinette dovrà ricorrere a tutto il suo coraggio e fare delle scelte che cambieranno per sempre la sua vita.
[Cover Credits: https://www.instagram.com/my_bagaboo_/]
Genere: Azione, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Nonna Gina, Tikki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il rintocco delle campane del Duomo arriva ovattato attraverso i finestroni dell’aula di chimica. Un miasma di misture strane, simile a frittura scadente, ha invaso l’ambiente. Nessuno osa chiedere alla professoressa Adamanti di aprire le finestre.
Scommetto che anche d’estate, sulla spiaggia, indossa giacca a vento, sciarpa e stivali invernali.
Accomodo la guancia sul pugno. Il composto di bicarbonato di sodio e aceto frigge nell’ampolla, il palloncino giace gonfio sul banco.
Sono l’unica finora ad aver portato a termine l’esercizio odierno. Non credevo che gli altri trovassero tante difficoltà, ma è bello per una volta essere la prima della classe.
Sono tentata dall’alzare la mano e chiedere alla professoressa di uscire per farmi un giro – mi meriterei pure una boccata di aria pulita – ma so che lei me lo negherebbe; quindi, tanto vale aspettare la fine della lezione. Solo la perfida Letizia può ottenere il consenso a uscire dall’aula, anche se non porta a termine i suoi compiti. A lei tutto è concesso. Anche rubare un quaderno da una sua compagna di classe e passarla liscia.
Non ho ancora trovato il modo di affrontarla a viso aperto e chiederle di restituirmelo. Sono più che certa che è stata lei, ma non ho prove e nessuno mi crederebbe. A Sonia non ho detto nulla; per fortuna, il nostro progetto è in rotta d’arrivo, la presentazione è pronta e il capo troneggia semi-completo sul manichino nella mia stanza.
La campanella trilla nel corridoio, sancendo l’inizio dell’intervallo.
La professoressa Adamanti guarda l’orologio e storce la bocca sepolta da un chilo di rossetto magenta. «Può uscire solo chi ha ultimato il compito.» Dopo un’ora a respirare aria viziata, la sua voce querula è il colpo di grazia. «Gli altri resteranno qui.»
Mi alzo dal posto e mostro il palloncino gonfio. Sono ancora l’unica ad aver finito.
Mi avvio in silenzio all’uscita, Juan e Richard sollevano i pollici nella mia direzione sorridendo. Sonia, invece, è china sul libro.
Esco dall’aula e chiudo la porta alle mie spalle. Finalmente un po’ di ossigeno.
Sbadiglio e mi stiracchio.
Gli studenti delle altre aule sciamano verso il cortile interno e mi passano davanti.
Cammino nella direzione opposta alla loro, svolto a destra, verso i bagni.
Controllo lo smartphone: nessuna notizia.
È passata una settimana dall’attentato dei Satiri al municipio. La giunta comunale e il vicesindaco – ora sindaco in carica in attesa delle prossime elezioni –, in accordo con il governatore della regione, hanno conferito al questore poteri decisionali speciali per gestire l’ordine pubblico.
Sarò io strana, ma non vedo alcun cambiamento per le strade. C’è solo tanto timore per il prossimo attacco.
 Questo silenzio da parte dei Satiri mi mette a disagio. L’intuito mi suggerisce che stanno architettando qualcosa di grosso, vista l’ostinazione da parte dei pezzi grossi ad ignorarli, nonostante il decesso del sindaco.
Ad ogni modo, prendo ciò che posso e questo periodo di tregua mi consentirà di lavorare di più su me stessa, sul ritrovare questo benedetto io interiore di cui parlava il Wang Fu giovane.
Oltre a ciò, dovrò anche fare qualche ricerca più approfondita sulla simbologia che utilizzano i Satiri. Magari sarà una perdita di tempo, ma un tentativo posso comunque farlo.
Scendo i pochi gradini verso il bagno delle ragazze e ripongo il cellulare. In biblioteca troverò qualcosa. Ho scoperto che se qualche informazione manca su Google, la biblioteca dell’Accademia ha la risposta. Potrebbe essere paragonata alla leggendaria biblioteca di Alessandria.
Spalanco la porta del bagno con la spalla.
«Queste stoffe fanno schifo!» strilla una voce femminile. «Nemmeno nel più squallido mercatino delle pulci venderebbero questa roba. Io esigo il meglio. Mi sono spiegata, razza di asina ragliante?»
Nell’angolo c’è una ragazza, mi dà le spalle ed è voltata verso l’ultimo lavandino. Ha una cascata di boccoli biondi che le scende oltre le scapole; indossa una camicetta blu elettrico con la scritta GUCCI sul fondoschiena e una gonna a balze. Letizia. Accanto ai suoi stivaletti in pelle giace un rotolo di stoffa verde smeraldo.
«Se ti dico una cosa, tu esegui e basta.»
Chi è la povera vittima che sta subendo questo strazio? Sé stessa nello specchio? Sarebbe capace di arrivare a questo livello di follia?
Mi sollevo sulle punte e sbircio da sopra la sua spalla. Rannicchiata nell’angolo, con la schiena premuta contro le piastrelle del muro c’è una tipa minuta, dai capelli biondi che incorniciano un volto timoroso, ricoperto da una spruzzata di efelidi.
Non l’ho mai vista in giro. Dall’aspetto dev’essere una del primo anno.
Mi avvicino di un passo, stando sulle punte. La ragazza in trappola ha gli occhi gonfi di lacrime, spaccati dai capillari. Trema.
Letizia sbatte il palmo sullo specchio, lo fa traballare, e la ragazza sobbalza per lo spavento.
«Ora stammi bene a sentire.» Letizia sovrasta di tutta la testa la povera vittima. «Appena terminano le lezioni tu vai nella migliore boutique di Milano e compri due confezioni di stoffe pregiate e voli a portarmele a casa, cosicché il mio sarto possa confezionare l’abito per la gara.»
Avvicina il viso alla ragazza. «E prega che Alessio le apprezzi.»
Che imbrogliona! Si fa confezionare l’abito dal suo sarto personale e manda in giro questa povera ragazza a comprare la stoffa. Sommando il fatto che ha rubato il mio quaderno, in definitiva lei non ha fatto assolutamente niente.
La ragazza deglutisce. «Ho b-bisogno che t-tu mi dia i soldi per comprarle.»
Letizia le pinza il naso con indice e medio, lascia la presa e lo schicchera. «Anticipa tu.»
«N-Non ho i soldi.»
«Che poveraccia.» Letizia fa un versaccio. «È l’ultima volta che mi affido a un verme come te.»
Stringo i pugni. È inammissibile che una studentessa tratti in questo modo una ragazza più piccola. Sapevo che Letizia fosse altezzosa, superba e viziata ma non mi aspettavo potesse essere tanto spregevole.
E io che pensavo che dietro quella facciata da donna di mondo si nascondesse un grande talento, al pari di Audrey Bourgeois. Niente è farina del suo sacco.
«Questo errore ti costerà caro.» Letizia calpesta il rotolo di stoffa a terra. «Dovrai pedalare per ottenere la mia grazia.»
Nemmeno Chloè è mai arrivata ad un tale sfoggio di idiozia.
Poso la mano sulla spalla di Letizia. «Potresti piantarla?»
La ragazza strabuzza gli occhi e incassa la testa tra le spalle.
Letizia si volta piano, inchioda i suoi occhi azzurri su di me. «Che vuoi, baguette? Fai i tuoi bisogni in silenzio come un bravo cagnolino e poi sparisci. Non ho intenzione di respirare la tua stessa aria.»
«Allora è qualcosa su cui andiamo d’accordo.» Mi dipingo in faccia il più falso dei sorrisi. «Perché non te ne torni a leccare i piedi a qualche professore, invece di torturare il prossimo?»
Letizia ritrae la spalla e mi fronteggia. Mi soffia in faccia, gettando una zaffata di caffè. «Vedi di farti gli affaracci tuoi baguette.» Fa un passo di lato, mi sfila accanto ed esce dal bagno.
Mi volto e accarezzo il braccio pallido della ragazza. «Stai bene?»
Lei raccoglie in fretta il rotolo dal pavimento e scappa via.
Bel ringraziamento per averla aiutata.
Mi stringo nelle spalle. Almeno ho zittito per qualche ora l’oca giuliva. Una piccola vittoria di cui andarne fiera.
 
***
 
Un violento acquazzone si è abbattuto su Milano nelle ultime ore. Il cielo plumbeo è lo specchio dell’umore della città, sconquassata dalla costante minaccia del gruppo anarchico.
Salgo la scalinata in marmo che conduce alla biblioteca; superata la porta scorrevole, batto le scarpe sullo zerbino e lascio l’ombrello sotto l’attaccapanni, le gocce calano dalla tela e bagnano il rivestimento.
L’ultima notizia che circola è che i cittadini più che spaventati sono furiosi e ostili… nei miei confronti. O meglio, nei confronti di Ladybug, quella figura buffa che non ha fatto altro che causare danni e ostacolare la polizia.
Altro che eroina.
Attendo il mio turno dietro un ragazzo dai capelli rossicci, secco e alto, con spessi occhiali a coprire metà del volto.
Mi torturo l’unghia del pollice. La verità è che al di fuori di Parigi, al di fuori della mia bolla di sicurezza, non sono altro che un fenomeno da baraccone. Mesi ad affrontare akumizzati e sentimostri mi hanno condotta a sovrastimare le mie abilità, e ora tutti i miei limiti sono affiorati.
Tikki non vorrebbe sentirmi ragionare in questo modo, soprattutto dopo gli sforzi che sto facendo per cambiare, ma devo guardare in faccia alla realtà.
Come se non bastasse, ho la strana sensazione di essere osservata. Lancio un’occhiata alle mie spalle, l’ingresso è deserto. Forse sto impazzendo.
Il ragazzo si dilegua tra gli scaffali della biblioteca. È il mio turno.
Poso sul bancone della responsabile, una donna anziana dall’espressione severa con un paio di occhialini da lettura a coprire occhi celesti, la tessera della biblioteca.
«Marinette Dupain-Cheng.» La bibliotecaria digita sul computer i miei dati. «Quali libri desidera consultare?»
«Ci sono dei volumi dedicati alla simbologia? Qualcosa che spieghi il significato di—»
«Qui può trovare di tutto, signorina.» La bibliotecaria muove il mouse, seleziona dei dati. La stampante vomita un foglio con una breve lista. Lei me lo porge. «Questi sono tomi per i quali non è consentito il prestito. Potrà solo consultarli all’interno del locale biblioteca e non è permesso effettuare foto con lo smartphone.» Allunga una mano rugosa. «Devo chiederle di consegnarmelo.»
Con riluttanza, annuisco. Dovrò fare affidamento al quadernetto degli appunti che ho con me e alla mia capacità molto ristretta di sintesi. Recupero dalla tasca il cellulare e lo consegno alla signora. Prendo il documento e scorro la lista avviandomi agli scaffali.
 
***
 
Poso i libri su un tavolo libero – più di tre non riuscivo a portarne senza rischiare di farli cadere, rovinarli e incappare in sanzioni che non posso permettermi di risarcire – e tiro fuori dallo zaino a tracolla il quaderno per gli appunti e una penna biro.
Inchiodo i palmi sui libri e volto la testa di scatto. Sul corridoio opposto al mio, un’ombra imponente e incappucciata scompare dietro uno scaffale.
Mi passo una mano sulla fronte. È confortante sapere che il mio intuito funziona e che non sto impazzendo sul serio; sarei più tranquilla, però, se sapessi chi è che mi spia.
Scuoto la testa. Ci penserò dopo.
Mi accomodo su una sedia, alle mie spalle un enorme finestrone ad arco affaccia sulla piazzola dell’Accademia. Da questa posizione, posso anche tenere d’occhio i corridoi di fronte.
Non credevo che la biblioteca fosse tanto frequentata, ma io sono abituata a quella dell’istituto François-Dupont, dove al limite ci si trova Max o Sabrina intenti a studiare, o Mylene e Ivan quando vogliono dei momenti di privacy.
Apro il primo volume con cura: è un tomo dal titolo Simboli esoterici pagani, le pagine sono ingiallite dal tempo ma sono tenute integre in modo esemplare.
Sfoglio le pagine alla ricerca di quel maledetto simbolo. So per certo che se ne capirò il significato, sarò anche in grado di architettare una strategia d’attacco. Voglio e devo convincermi che sia così.
Mi soffermo su una pagina: al centro risalta l’immagine di un semicerchio nero che sfuma nel bianco man mano che ci si avvicina ai bordi. Dal centro si dipanano delle punte simili a frecce. Non è proprio uguale a quello che ho visto sul collo del gigante, ma il disegno è simile.
Scorro con l’indice le righe, alla ricerca del significato metaforico di questo simbolo.
Un movimento attira la mia attenzione.
Sollevo la testa e mi ritrovo a fissare gli occhi neri di Alessio Tancredi, cappuccio sulla testa. Indosso ha una felpa con zip bianca, chiazzata dalla pioggia all’altezza delle spalle, e dei jeans scuri tenuti da un cinturone di Gucci. Il volto è contratto in un’espressione cupa.
Era lui che mi seguiva? «Alessio? Cosa fai qui?»
«Vagavo un po’ per i locali in cerca di riparo dalla pioggia.» Si toglie la felpa e la adagia sullo schienale di una sedia. Sotto porta una t-shirt nera che gli lascia scoperte le sue braccia scolpite. Distende i tratti del viso. «Non speravo di incrociare un’angelica fanciulla cervellona, ma direi che mi va bene così.»
Ammicca e le mie gote avvampano.
Alle sue spalle sfila la bibliotecaria: gli batte due dita sulla spalla, si porta l’indice davanti alla bocca e soffia aria tra i denti stretti, intimandogli il silenzio.
Alessio congiunge i palmi e china il capo.
«Permetti?» Alessio indica la sedia dove ha adagiato la felpa. Si siede senza nemmeno aspettare il mio assenso.
Un ricciolo color ebano gli danza sulla fronte. «Dunque, quali studi arcani ti conducono in questo luogo?»
«Una ricerca sulla simbologia,» sussurro. Non è un granché come scusa, ma è la prima che mi è balenata nella testa e sembra che a lui vada più che bene.
Evito di incrociare il suo sguardo e mi rituffo tra la moltitudine di frasi scritte in latino alternate da sporadiche traduzioni in italiano. La sua spiegazione non mi ha convinto del tutto, ma non riesco a comprendere che motivo avrebbe di seguirmi. Magari, lui si trova davvero qui per caso: la sua stazza possente, il cappuccio e la mia paranoia mi hanno indotta a conclusioni errate.
Allungo il braccio per prendere la penna, il polso urta uno dei libri che ho messo di lato e lo fa cadere a terra con un tonfo che rimbomba per l’intera biblioteca.
Accidenti alla mia sbadataggine!
Mi chino per raccoglierlo, ma il libro sfila via e mi ritrovo a fissare le piastrelle del pavimento.
Alzo la testa, il volto sorridente di Alessio è a un palmo dal mio, il suo respiro mi solletica le labbra.
Schiudo le labbra, il cuore mi martella nelle orecchie, la pelle mi brucia.
«Signori!»
Sobbalzo sulla sedia, Alessio si allontana e si volta.
La bibliotecaria ha i pugni sui fianchi e batte a terra la punta della scarpa. «Questo non è un luogo per incontri romantici. Questa è una biblioteca.»
Alessio si rizza in piedi. Diamine, quanto è alto. Guarda la bibliotecaria con l’espressione mortificata. «Mi scusi. È colpa mia. Le prometto che non creerò altri disturbi.»
La bibliotecaria mi scocca un’occhiata di fuoco. «Lo spero per voi. Al prossimo richiamo sarò costretta a cacciarvi.»
Alessio china il capo. «La ringrazio per la sua pazienza.»
Lei gira i tacchi e scompare nel corridoio.
Mi sventolo il volto con la mano. Dubito che questo calore che avverto sia dovuto ai termosifoni.
Alessio fa roteare il libro nella mano e lo riadagia sul tavolo. «Sei un’appassionata di culture pagane? Sortilegi, stregonerie…»
«N-no, i-io so-sono…»
«Perdonami, non era mia intenzione disturbarti mentre studi.»
Prendo un profondo respiro e gli sorrido. «Non c’è problema.»
Lo invito a sedersi e lui si accomoda.
La sua espressione diviene seria. «Se vuoi, posso darti una mano con la tua ricerca. Ho una certa esperienza riguardo scienze esoteriche e antiche.»
Nonostante il continuo tambureggiare nel petto, accolgo con piacere la sua offerta. Grazie a lui, potrei ridurre di tanto il tempo che avrei passato sui libri alla ricerca di qualcosa che non sono nemmeno sicura di trovare.
Tiro a me il quaderno e la penna. Prendo a disegnare il marchio che quel tipo aveva sul collo, nella speranza che Alessio ci capisca qualcosa.
Terminato il disegno, glielo mostro.
Alessio assottiglia lo sguardo. Pianta il palmo sul foglio e lo rovescia. «A me sembra un pavone.»
Spalanco la bocca. «Come?» Mi copro le labbra con le mani e incasso la testa. Forse ho urlato troppo.
Alessio mi sorride e spinge il foglio nella mia direzione. «Guarda. Non so perché sia rovesciato, ma la sagoma è proprio quella di un pavone. Il simbolo della superbia.»
Non riesco a crederci. Come ho fatto a non pensarci prima?
In effetti, ora che è capovolto, quel simbolo ricorda proprio un pavone. E Alessio ha detto che rappresenta il simbolo della superbia.
«Sei convinta?»
Annuisco. «Ti ringrazio, Alessio. Sei stato fenomenale; probabilmente io ci avrei messo giorni prima di arrivarci.»
Ammicca. «A tua disposizione, bella streghetta.»
Mi avvicino a lui e gli schiocco un bacio sulla guancia, non devo nemmeno chinarmi per essere alla sua altezza.
Lui mi attrae a sé e ricambia il gesto. Un po’ più a destra e mi avrebbe sfiorato le labbra.
Arretro, alzo le mani e raccolgo in fretta tutta la mia roba. Devo allontanarmi immediatamente da qui o rischio l’infarto.
Prendo sottobraccio i libri, incespico nei piedi ma riesco a mantenere l’equilibrio. «A p-prestino, a-a presto, Alassi… Alessio.»
Accidenti a me. Che problemi ho con i modelli? 
 
***
 
Attraverso a grandi falcate il corridoio deserto che separa le aule di chimica dai bagni, la pochette oscilla e mi batte sul fianco.
Scuoto la manica destra, inzuppata di caffè solubile mescolato ad altre sostanze di cui non voglio sapere la provenienza. Se non mi sbrigo a metterla sotto l’acqua corrente, la macchia non andrà più via, ne sono certa.
La Adamanti oggi si è sbizzarrita con le esercitazioni in classe, assegnando compiti di una difficoltà estrema. Risultato: la mia ampolla ha traboccato e ora rischio di rovinare per sempre la mia maglietta. Almeno ho avuto la grazia di poter uscire prima.
Sarà stata la frustrazione della lezione di ieri, in cui solo io e altri due studenti siamo riusciti a gonfiare il palloncino. Qualcuno dovrebbe dirle che non è incrementando la difficoltà che renderà la sua materia piacevole ai ragazzi, anzi.
Entro nel bagno. Non c’è nessuno.
Sfilo il gilet di jeans, lo appendo alla maniglia e mi libero della maglietta. La getto nel lavandino e indosso di nuovo il gilet di jeans. Non è poca la quantità di pelle che mi lascia scoperta, ma non mi espelleranno per questo. In fondo, fa anche abbastanza caldo.
Apro il lavandino, il getto d’acqua impregna la maglietta. Strofino forte la manica, la macchia inizia a schiarirsi. Se non dovesse andar via, potrei tagliare la parte rovinata e cucirne una nuova.
La porta del bagno si apre, un rumore di tacchi risuona dal pavimento e si ferma proprio alle mie spalle.
Sollevo la testa. Lo specchio sopra al lavandino rimanda il mio volto e, sullo sfondo, quello di Letizia. Qualcuno lassù deve odiarmi.
Mi volto. «Cosa posso fare per te?»
«Voglio chiarire alcune cose.» Preme un’unghia smaltata di bianco contro il mio sterno. «Non ti conviene avermi come nemica, devi stare attenta a come ti muovi.»
«Alludi forse a quello che ho visto e sentito ieri? Precisamente, ti riferisci al modo in cui hai trattato quella povera ragazza oppure al fatto che al progetto tu stai solo mettendo la firma in calce, senza aver alzato un dito?»
La palpebra sinistra di Letizia ha uno spasmo.
«Come pensavo. Puoi stare tranquilla, Letizia. Non ho intenzione di mettere i manifesti in giro. L’esatto opposto di quello che faresti tu a ruoli invertiti.»
«Senti, baguette—»
Le schiaffeggio la mano e serro i denti. «Il mio nome è Marinette. Dupain. Cheng. E sono stufa del tuo atteggiamento altezzoso e prepotente. Nessuno dovrebbe essere trattato come quella povera ragazza. Ma l’hai vista? Era terrorizzata dalle tue minacce.»
Letizia contorce la bocca. «Era mia cugina, con lei faccio quello che mi pare.»
«Interessante sapere che tratti i parenti come se fossero i tuoi schiavi personali.» Mi giro e chiudo il rubinetto, ormai la maglietta è inzuppata del tutto. «Ancora non riesco a comprendere cosa vuoi tu da me. Ho persino lasciato perdere la faccenda del quaderno.»
«Quale quaderno? Di che accidenti parli?»
Stritolo la maglietta, un rivolo d’acqua cade nel lavandino. «Sai benissimo a cosa mi riferisco.» Le scocco un’occhiata da sopra la spalla. «Io almeno ho meritato l’ammissione all’Accademia.»
Se è poco furba come lo fu Chloè all’epoca, non si accorgerà che in ogni capo che disegno, aggiungo la mia firma sulla stoffa.
Strizzo un’ultima volta la maglietta. Mi avvio all’uscita, facendo attenzione a non sfiorare Letizia o il suo veleno mi contagerà.
Lei mi afferra il polso. «Sta’ alla larga da Alessio Tancredi.»
Dunque, è questo il succo del discorso. Qualcuno deve averle riferito dell’incontro tra me e Alessio in biblioteca. A lei non interessa che io possa parlare con qualcuno di quanto ho visto ieri, dell’atto di bullismo nei confronti di quella ragazza – che dubito sia la cugina – o che si diffonda la voce che lei sia un’imbrogliona, una scansafatiche che non alza un dito. Sa solo diramare ordini.
Mi libero con uno strattone. «Alessio è libero di frequentare chi vuole. Se preferisce la mia compagnia alla tua, dovresti farti un paio di domande. Magari, ripensa al modo in cui tratti le persone.»
Esco dal bagno senza darle la possibilità di replica.
Accidenti che nervoso. In questo momento, se ci fosse Papillon, sarei una vittima facilissima.
Sciolgo i codini e scuoto i capelli, lasciandoli sciolti sulle spalle.
Salgo gli scalini, mi dirigo verso l’ultimo piano. Ho bisogno di prendere una boccata d’aria senza nessuno che mi disturbi. Per fortuna, l’accesso al terrazzo è consentito a tutti gli studenti, salvo diverse disposizioni della direzione.
La Adamanti non noterà nemmeno la mia assenza prolungata. È troppo impegnata a concedere permessi speciali a Letizia, sebbene la migliore del corso sia io e l’ho dimostrato in più di un’occasione. 
Lungo la tromba delle scale incrocio un paio di ragazzi dell’ultimo anno. Si voltano a guardarmi e mi rivolgono un paio di fischi di approvazione, le loro facce sembrano quelle di Juan e Richard quando divorano i pasticcini.
Stringo le braccia al corpo e proseguo la salita. Cosa non fa un po’ di reggiseno in vista.
Raggiungo l’ultimo piano, spingo il maniglione antipanico ed esco sul terrazzo. L’aria è molto pesante, il cielo è plumbeo ma non piove.
Alla fine, togliere la maglietta è stato un bene.
Apro la pochette. «Devo comprarmi un bel sacco da boxe, per scaricare un po’ di stress o Letizia non arriva a fine anno con tutti i capelli sulla testa.»
Tikki si affaccia sulla cerniera. «Te la sei cavata benissimo, invece, Marinette. Le hai risposto con eleganza e classe e, allo stesso tempo, l’hai messa al suo posto, proprio come farebbe una ragazza matura. Non mi aspettavo nulla di meno da te.»
«Allora perché non mi sento soddisfatta?»
«Anche un santo farebbe fatica a sopportare Letizia. Tu sei riuscita a mantenere un self control invidiabile. Sono fiera di te.»
«Credi che basterà per il nostro “cambiamento”?»
Tikki mi strizza l’occhio. «Un passo alla volta.»
Stendo la maglietta pinzandola per le spalle. La macchia è scomparsa, aloni di bagnato la chiazzano sui fianchi e all’altezza del petto. «E oggi, oltre alla chimica, abbiamo ricoperto anche il ruolo della lavandaia.»
Un trillo fortissimo risuona all’interno dell’edificio. È l’allarme incendio. Oggi, però, non erano previste esercitazioni.
Tikki svolazza dalla pochette e mi sorride.
Ho le mani che mi tremano. «Credi sia l’occasione per…»
«Non sono io a doverlo dire.»
Ha ragione. Evolversi significa anche abbracciare la responsabilità delle mie decisioni. «Tikki… trasformami.»
   
 
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