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Autore: Evali    05/11/2022    0 recensioni
Un villaggio isolato, un popolo spezzato in due in seguito ad una terribile calamità, due divinità da servire, adorare e rispettare in egual modo: Dio e il Diavolo.
"- Io amo gli uomini.
- E perché mai io sono andato nella foresta e nel deserto? - replica il santo. – Non fu forse perché amavo troppo gli uomini? Adesso io amo Iddio: gli uomini io non li amo. L’uomo è per me una cosa troppo imperfetta.
- È mai possibile! Questo santo vegliardo non ha ancora sentito dire nella sua foresta che Dio è morto!"
Genere: Fantasy, Sovrannaturale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
Capitoli:
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Io, che prima ero la mia propria padrona

 
La puzza di morte imperava e brulicava nel campo di battaglia.
Come tanti piccoli vermi, i sopravvissuti si sparpagliavano qua e là, distrutti, feriti, incuranti di controllare se vi fosse qualcuno di ancora vivo tra quelle cataste di corpi sparsi ovunque, marcenti. Volevano solo tornare a casa. Ma non potevano.
Condannati a restare in quel paese straniero, in cui venivano visti niente più che invasori, sadici, approfittatori avidi e in cerca di gloria.
Forse, non avevano tutti i torti, le genti di quei luoghi appartenenti all’estremo est di un luogo chiamato “Asia”.
Non erano giunti lì con l’intenzione di imparare qualcosa da loro, dei loro usi, della loro cultura, no.
Denaro. Era il denaro che li aveva spinti a viaggiare su una nave per più di un mese, il denaro che serviva loro per comprare altre armi, rifornimenti per le prossime guerre da combattere.
Gli imperatori che popolavano quelle terre, apparentemente, erano pieni d’oro. Possedevano più oro di quello che c’era in tutto il continente occidentale, da cui il ragazzo proveniva.
Lontano, totalmente e dolorosamente diverso.
Il ragazzino si guardò intorno, respirando affaticato, ma eretto, ancora in grado di reggersi in piedi, di reggere una spada tra le mani, di non soccombere al peso dell’armatura appesantita dal sangue di cui era impregnata.
Osservò tutti i corpi sparsi sul terreno arido di quel campo ingrigito. Il cielo sopra di loro era altrettanto grigio.
Riconobbe i volti tumefatti e sfigurati di alcuni suoi compagni d’arme, stesi a terra senza vita, i quali non si aspettavano di certo tanta ferocia e brutalità.
La guerra era spietata, atroce.
Ma lui, lui era ancora in piedi, nonostante fosse tra le reclute più giovani presenti nel suo esercito.
Chissà per quale motivo, Dio lo stava proteggendo. Lo stava proteggendo anche se non credeva più in lui.
Dopo tutto ciò che aveva visto su quei campi di battaglia, anche un ragazzino di dodici anni può smettere di credere in Dio.
La temperatura era più secca, rispetto a casa sua.
Improvvisamente, ai suoi occhi si palesò una vecchia donna.
Era una nativa del luogo, così diversa da lui nei tratti, da sconvolgere, come lo erano tutti.
La donna, la creatura, era ricurva su se stessa. Camminava per il campo di battaglia che odorava già di putrefazione, fermandosi ogniqualvolta incontrava un corpo sul cammino, nonché molto spesso.
Si abbassava su ognuno di quei giovani cadaveri maschili, li spogliava dell’armatura all’altezza del ventre, li sventrava e rubava le loro viscere, strappandole via e infilandosele dentro una saccoccia.
Li sviscerava con la stessa facilità con cui si sviscerava un pesce dopo una lunga giornata di pesca.
Nel suo volto non c’era nulla. Nessun sentimento, nessuna espressione, mentre faceva ciò che faceva.
Accadevano cose strane in quel continente, il ragazzino oramai ne era avvezzo, ma quella che stava vedendo era in assoluto la più strana di tutte.
Ella aveva un abito nero, fatto di stracci, che ricadeva sul suo corpo grosso, avvizzito, ricurvo, appesantito. Sopra i capelli lunghi, neri, ingrigiti, simili a pagliericcio, indossava un velo grigio, somigliante a quelli che si indossavano per i lutti.
Il ragazzino non riuscì a guardarla bene in volto da quella distanza, ma si accorse che aveva gli occhi talmente fini e a mandorla da sembrare invisibili, quasi due fessure vuote in un volto terribile, che rispecchiava l’immagine della morte. Le labbra sottilissime e serrate, la pelle bianca spettrale, gli zigomi alti e grinzosi.
La donna, all’improvviso, si voltò verso di lui mentre stava sviscerando l’ennesimo dei suoi compagni morti in battaglia, accorgendosi di essere osservata.
Il ragazzo trasalì lievemente, rendendosi conto di essere l’unico a guardarla.
La vecchia finì di mettere anche quelle viscere dentro la sua saccoccia, poi si rialzò in piedi e si avvicinò a lui lentamente, portando con sé un vento funereo, putrido, di desolazione.
Egli si accorse che, nonostante fosse solo un ragazzino, era comunque alto quanto lei, specialmente a causa della posizione ricurva del corpo della donna.
- Che hai da guardare, Occhi tondi? – gli domandò lei, con voce rauca e rabbrividente, nella sua lingua ardua, diversissima da quella del ragazzo, incomprensibile. Inoltre, la “Donna che rubava le viscere degli uomini” possedeva una cadenza duramente dialettale.
Il ragazzino non fece una piega, né mostrò alcun segno di paura: aveva visto talmente tanta atrocità e bestialità in quel luogo, da non riuscire a sorprendersi più.
Ebbe l’ardire di guardarla negli occhi, quegli occhi che erano il contrario dei suoi, allungati all’inverosimile, infossati, come quelli di tutti gli orientali.
Per tale ragione gli orientali avevano affibbiato loro quel nomignolo: “Occhi tondi”. Per loro erano questo, gli occidentali: dominatori incoscienti, vanagloriosi dissacranti, dagli occhioni grandi e fintamente ammalianti.
- Nulla – le rispose lui, abbozzando una risposta nella lingua di lei. Erano in oriente oramai da quasi un anno, dunque era naturale che la maggior parte di loro avesse dovuto un minimo interfacciarsi e imparare quella impronunciabile lingua asiatica, almeno l’indispensabile. Niente a che fare con la dolce lingua comune che parlava nella sua terra, in occidente.
Sapeva che la sua pronuncia dovesse apparire alla donna come inascoltabile.
- Sai chi sono? – continuò la vecchia, mostrando la sua bocca colma di denti marci e grigi, ad ogni parola che pronunciava.
- Mio padre mi raccontava delle storie, da piccolo. Su una strega, di nome Erichto, che sviscerava i cadaveri degli uomini caduti in battaglia. Rubava i loro organi e se li mangiava.
La vecchia lo osservò, osservò ogni dettaglio di lui, come cibandosene. O forse pregustando il buon sapore che avrebbero avuto anche le sue, di viscere.
Gli occhi del ragazzo erano due macchie di colore limpide, grandi, turchesi come un cielo che si trovava lontano da lì.
Le uniche due punte di colore in quel grigio spettrale che li circondava.
La sua giovane pelle era escoriata in alcuni punti, una ferita sul labbro secco, un taglio sulla fronte, lividi sparsi sulle mascelle.
I capelli erano chiari. Ma non irradiavano luce propria come gli occhi. Erano spenti, invece, sporchi di sangue non suo, e gli ricadevano sulla fronte, sul viso, in maniera scomposta.
- La tua pronuncia della mia lingua è molto sporca, Occhi tondi. Ma è molto migliore di quella di tutti i tuoi fratelli e compatrioti – commentò la donna. – La strega di cui ti parlava tuo padre… era una strega asiatica?
- Non lo so.
- Quanti anni hai?
- Dodici.
- Non sembri un bambino. Perché combatti, se sei un bambino?
- Volevo combattere.
- Perché vuoi togliere la libertà ad altri?
Stava per rispondere che non avrebbe mai voluto togliere la libertà a nessuno.
Ma era proprio quello che le sue truppe stavano facendo, lì in Asia, in quei villaggi dimenticati da dio.
- Cos’altro diceva tuo padre riguardo la strega a cui piace mangiare gli uomini? – lo incalzò la creatura.
- Che era una creazione del Demonio. Che solo il Demonio può creare un essere simile.
- Qui non esiste nessun “demonio”.
Non esiste il vostro dio.
Il vostro dio non vi aiuterà.
Qui non esistono angeli.
Né diavoli.
Qui abbiamo altre divinità, molto più potenti di quanto crediate.
Fareste meglio a tornarvene da dove siete venuti, Occhi tondi.
Porti una croce appesa al collo?
Il ragazzo negò con la testa in risposta.
- Allora il tuo corpo è ancora incontaminato.
Non c’è motivo che io mi nutra di te così presto.
Il ragazzino la scrutò a sua volta, senza timore, ma al contempo senza spavalderia, né ombra di superiorità.
Aveva una forza dentro, che non passò inosservata alla creatura.
Fu in quel momento che la sua conversazione con quell’essere forse umano o forse no, venne interrotta dalla supponente voce del suo comandante che lo chiamava a sé a distanza:
- Von Hohenheim! Von Hohenheim, dove diavolo sei?? Von Hohenheim, se sei ancora vivo, vieni qui!
Il ragazzo si voltò verso la direzione da cui proveniva la voce, ma non si mosse.
- Ti stanno cercando? – gli domandò la donna asiatica.
- Sì.
- Mi farete vostra schiava?
- No – le disse lui, pensando che fosse quello che voleva sentirsi dire.
- Perché no? Avete fatto prigionieri tutti, nei villaggi circostanti.
Hai paura di me, Occhi tondi?
Non posso perdonarti, se ne hai.
Parlava veloce, raucamente, con quel dialetto stretto che non si sforzava di rendere comprensibile, ma il ragazzo la comprese comunque.
- Von Hohenheim! Ruben von Hohenheim!
- Ruben!! Ruben, dove sei?? Sei vivo?? Ci stiamo ritirando alla base! – la voce dei suoi compagni d’arme si unì a quella del comandante, e si facevano sempre più vicine.
La vecchia sporse i polsi raggrinziti nella sua direzione, offrendosi. – Legami. E portami dai tuoi superiori. Non posso essere dannosa, se legata.
- Non voglio legarti, né portarti con me.
- Legami, ho detto – insistette la donna. – Se mi lascerai libera, troverò il modo di uccidere tutti i tuoi compagni invasori, nel sonno. Non si accorgeranno neanche di non avere più le viscere. Lascerò te per ultimo.
- Perché vuoi che io ti porti con me?
- Perché è il mio destino, Occhioni.
Nessuno decide del destino di un uomo a parte gli spiriti.
- Ruben!! – un ennesimo richiamo li riscosse.
- Lega il mio fato al tuo, Ruben – pronunciò la donna, con voce sempre più imponente e oscura. Si lasciò scivolare il nome di lui sulla lingua, incorretto, sporco, impreciso, cercando di mimarlo per come lo aveva udito dalle voci che stavano richiamando il ragazzo. – Poiché siamo già legati, che tu lo voglia o no.
 
- Comandante – disse Ruben entrando nella tenda, notificando al maggiore la sua presenza, come era solito fare. – Mi avete fatto chiamare? – domandò, mettendosi sull’attenti.
Non aveva neanche avuto il tempo di lavarsi via il sangue di dosso e i vestiti sudici, dopo la battaglia appena avvenuta.
- Oh, eccoti, ragazzo – rispose il comandante, firmando alcune pergamene, seduto dietro un modesto tavolino. – Chi era la donna con cui stavi parlando poco prima che ti trovassimo?
- Una vagabonda che vagava sul campo di battaglia, una donna del luogo.
- E perché l’hai portata con noi senza il mio consenso?
Se avesse dovuto dirgli la verità a riguardo, il comandante non gli avrebbe creduto.
- Una schiava in più è pur sempre manodopera in più.
- Oggi non è giornata di saccheggiamenti, von Hohenheim. Ad ogni modo, oramai è qui nel nostro campo, quindi la terremo con noi. Non so come tu abbia potuto pensare che avrebbe potuto farci comodo, dato che è una vecchia decrepita – commentò scocciato. – Ad ogni modo, sei uno dei più giovani del mio esercito e sei ancora in vita, nonostante tutte le gravose battaglie che abbiamo dovuto affrontare negli ultimi mesi. Questo ti rende una delle risorse migliori che ho. Che fai, non mi ringrazi per tutte queste lusinghe?
- Grazie, comandante – rispose freddamente il ragazzino.
Il comandante si stravaccò sulla sedia e si tirò indietro i capelli, manifestando la sua stanchezza.
- Questa sera vi sarà una cena con il capo del villaggio Koon. È un villaggio molto ricco, il capovillaggio ha già fatto allestire un bel banchetto per noi comandanti che tratteremo faccia a faccia con lui.
- Bene. Non vedo come ciò possa concernere me, io sono ancora una recluta – rispose atono. Voleva solo tornare nella sua tenda. Lavarsi, pulirsi di dosso tutto il marciume che lo ricopriva, e dormire per due giorni interi, fino alla prossima battaglia.
- Il tuo atteggiamento incurante mi sta facendo domandare se ho preso la decisione giusta… - sbuffò l’uomo, e Ruben lo guardò interrogativo. – Tu sarai presente, von Hohenheim. Ci farai da coppiere.
- … coppiere? I capi villaggio asiatici sono pieni di schiavi, perché dovrei fare io il coppiere..?
- Dovresti ringraziarmi, ragazzino. Lo sto facendo solo per te.
- Per me?
- Sì, esatto, per te – sottolineò il comandante.
- Sono certo che il capovillaggio amerebbe di più essere circondato da belle fanciulle che gli servono i pasti, non certo da me.
- E chi te lo ha detto? Come se non fossi a conoscenza dei “curiosi” costumi che hanno, in questa terra dimenticata da Dio! – disse con sdegno. - Gli asiatici hanno un debole anche per i ragazzini, maschi, soprattutto se occidentali.
- Mi volete presente a quel banchetto per allietare gli occhi del capovillaggio? – domandò contrariato il ragazzo.
- Sei impossibile, sai? – rispose l’uomo, rassegnato. - Sei un bravo combattente, un domani potresti essere messo al comando. Secondo te per quale motivo ti voglio presente lì, eh? Se voglio riporre le mie aspettative su di te, voglio addestrarti come posso, già alla tua tenera età. Facendo da coppiere, potrai ascoltare i nostri discorsi e comprendere come funziona la politica e la diplomazia – gli spiegò. - Se avessi avuto la faccia a forma di sorcio come quella di Thomas, avresti potuto snervare quel borioso ricco asiatico anche solo stando fermo, a quel banchetto. Ma, fortunatamente, non ce l’hai. Quindi, il capovillaggio non avrà nulla da dire se sarai tu ad affiancare la servitù femminile nel servirci da bere. Questi asiatici sono una razza inferiore, è del tutto normale che ammirino l’aspetto fisico di noi occidentali; insomma, li hai visti? Saranno sempre attratti da un occidentale, femmina o maschio che sia. Quindi ora togliti quell’armatura, vatti a ripulire, e mettiti qualche cencio pulito e rispettabile addosso: gli orientali sono molto attenti alla pulizia. Hanno case fatte di mattoni, hanno una quantità di oro e ricchezze che sfamerebbe venti dei nostri villaggi, sono maniacalmente attenti all’immagine, però, al contempo… credono che un semplice temporale sia la manifestazione dei loro spiriti che parlano! Non hanno un dio, hanno credenze pagane e primitive, sono selvaggi. Sono una contraddizione vivente!
Uscito dalla tenda del comandante, Ruben voltò gli occhi al cielo e si accorse che stesse tuonando. Lampi e tuoni squarciarono quel velo grigio opaco, e gli schiavi asiatici che si portavano dietro, di accampamento in accampamento, urlavano e piangevano ogni volta che accadeva.
Per loro indicava cattivo presagio.
La sera giunse troppo velocemente, non lasciandogli nemmeno il tempo di riposarsi un po’.
Uno dei suoi compagni d’arme gli offrì, senza farsi scoprire, una di quelle strane stecche da fumare, asiatiche, che riuscivano a far svanire il sonno e a ridonare le forze in men che non si dica.
Grazie a quella poté darsi una parvenza di concentrazione e di serietà, mentre serviva da bere ai comandanti del proprio esercito, e al padrone di casa, nonché il capovillaggio Koon.
Ma mentre gli uomini di potere parlavano, il ragazzino non riuscì a non pensare alla strega che aveva incontrato quel pomeriggio, e che l’aveva costretto a schiavizzarla.
Un tuono potentissimo squarciò il cielo, zittendo le chiacchiere di tutti i presenti al banchetto.
Una ragazza, una delle figlie del capovillaggio, si inginocchiò e iniziò a pregare in una lingua antica, che non era né asiatica, né occidentale.
Un velo rosso trasparente le copriva il bel volto dai tratti fortemente orientali, mentre intonava quelle suppliche, spaventata.
- Alzati in piedi, Meyin – le ordinò duramente il capovillaggio, nella propria lingua.
- Gli spiriti sono adirati, padre! – esclamò lei rialzandosi in piedi.  
- Taci e vattene da questa sala.
- Gli spiriti sono adirati perché una magia sconosciuta è penetrata nella nostra terra!
- Zitta! – la rimproverò il capovillaggio alzandosi in piedi, rivolgendole uno sguardo di fuoco.
A ciò, ella abbassò il volto in segno di sottomissione.
Dopo di che, la ragazza si voltò a guardare Ruben, il quale era rimasto immobile, in piedi, nella sua posizione. Gli si avvicinò quatta e accostò le labbra al suo orecchio. – La colpa è tua.
Ruben si voltò verso di lei, spaesato, chiedendo mutamente spiegazioni che non ricevette.
Di conseguenza, la sua attenzione venne attirata da alcuni rumori provenienti dall’esterno della struttura.
- Tu – lo chiamò il capovillaggio, guardandolo a distanza. – Va’ a controllare cosa succede fuori.
Ruben obbedì, si congedò e uscì all’esterno.
Una pioggia a vento lo colpì, in faccia e sui vestiti, facendo sbattere la porta dietro di sé.
Camminò sul fango, cercando di capire da chi provenissero quei lamenti, fin quando non intravide due dei suoi compagni d’arme, reclute come lui, avventarsi e litigarsi una ragazza del luogo, probabilmente una delle figlie del capovillaggio.
- Bert, Garren – li richiamò avvicinandosi, attirando la loro attenzione.
La povera ragazza che si stavano contendendo strillava e piangeva, con i vestiti strappati e graffi dappertutto.
- Ehi, Ruben, vuoi favorire?? – gli domandò Garren con un sorriso sornione tra le labbra. – Non sono belle come le nostre, ma devi ammettere che questa qua è graziosa!
- Non vi bastano tutte le donne che abbiamo fatto schiave da altri villaggi? Ora volete molestare anche le ragazze libere?
- Sempre a lamentarti tu, von Hohenheim! Dimmi, fai lo schizzinoso perché ti preservi per la tua futura sposa? Cos’è, nel villaggio da cui provieni siete tutti casti? – lo provocò Garren.
- Guarda che non inganni nessuno! Parli così perché non hai mai assaggiato una donna, altrimenti faresti esattamente come noi, idiota – aggiunse Bert, stringendo le braccia della ragazza e strattonandola.
Quei due ragazzi avevano la sua età. Erano solo dei ragazzini.
Eppure, riuscivano senza problemi ad avere la meglio su una ragazza del luogo più grande di loro.
Questo, solo perché le donne asiatiche erano tutte minute, tanto da sembrare delle bambine, talvolta.
Ruben, senza battere ciglio, tirò fuori un pugnale che portava sempre con sé sotto i vestiti, puntandolo alla gola del suo compagno d’arme.
Bert pietrificò, emettendo un piccolo gridolino di spavento. – Non lo faresti…
- Non mi piace come trattate le persone del luogo – rispose semplicemente Ruben, spingendo la lama sulla gola del ragazzo, mentre Garren era paralizzato a sua volta.
- Lasciatela andare.
Se avete voglia di fottervi le femmine libere, allora trovatevi qualche pecora e scopatevi quella – ordinò categorico.
- Sei un pazzo, von Hohenheim…
- Tutto questo per una maledetta orientale… andiamo via, Bert, dai.
I due si allontanarono con la coda tra le gambe, tornando alle loro tende.
- Immagino che se tuo padre ti trovasse qui, seminuda, ti punirebbe molto peggio di quanto avrebbe punito i miei famelici compagni – commentò il ragazzino, rivolto alla fanciulla, la quale giaceva a terra tremante, sconvolta e semisvestita. Aveva utilizzato la lingua asiatica, in modo che lei potesse comprenderlo. – Mi ha chiesto lui di venire a controllare cosa stesse succedendo qua fuori. Potrebbe venire a controllare in prima persona, perciò ti conviene rivestirti al più presto e tornartene in casa - nella sua voce c’era una fredda gentilezza, pragmatica ed essenziale.
- Perché sei venuto in mio soccorso? – gli domandò lei, in un sussurro.
- Non c’è un perché – rispose Ruben, stanco di parlare, accorgendosi che avesse appena smesso di piovere. Lo trovò strano.
Un giramento di testa la colpì in pieno, facendolo barcollare, fino a spingerlo a sedersi a terra, sul fango, per non perdere l’equilibrio.
- Ti senti bene? – gli domandò la fanciulla.
- Sì… - le rispose, cercando di mettere a fuoco l’immagine di lei, che stava divenendo appannata. – Ti ho detto di andare via di qui… se tuo padre ti vedesse, ti punirebbe. È così che funziona qui, no? Quando un uomo dissacra la verginità di una donna, la colpa ricade sempre sulla donna.
- Nella tua terra funziona diversamente?
- Non lo so, non ne sono certo. Sono due anni che non torno nella mia terra.
- Trovi ingiusto che una donna venga punita per un’azione che non ha commesso?
- Sì. Non capisco cosa mi succede… non riesco a vederti, né a sentirti bene.
- Ti manca la tua terra, Ruben?
- Cosa…?
- Ti manca la tua terra?
- Sì… - rispose affaticato, cercando di rialzarsi in piedi, ma senza successo. – Che cosa mi hai fatto…?
- Perché pensi che la colpa sia mia? – domandò la fanciulla, avvicinandosi a lui.
- Appena mi sono avvicinato, ho cominciato a non sentirmi bene. Io ti ho salvata da quei due. Perché mi stai punendo…?
- Mi hai salvata…? Che cosa avete fatto, alla mia terra, voi invasori…? Quante altre donne innocenti hanno violentato e massacrato i tuoi compagni d’arme? Quanti valorosi soldati, fratelli, figli, mariti, padri hai ucciso nel campo di battaglia, Ruben? Quanti, alla tua giovane età??
Quest’isola è mia, è nostra.
Ci venne dagli spiriti dei nostri antenati, e voi ce l’avete presa.
Appena arrivati, ci tenevate buoni, vicino al cuore.
Con le vostre false promesse, ci davate il vostro cibo dolce, acqua e mirtilli.
Ci insegnavate a nominare la luce, nella vostra lingua.
E noi vi amavamo di conseguenza, mostrandovi la nostra fiducia e tutte le qualità di questa isola:
Le sorgenti d’acqua dolce, i fossi d’acqua salata, i luoghi sterili e quelli fertili.
Maledetti noi per averlo fatto!
Che tutti gli incantesimi dell’isola vi cadano addosso!
Perché ora io sono tutti i sudditi che avete.
Io, che prima ero la mia propria padrona.
Ruben sgranò gli occhi, sconcertato e meravigliato insieme, da quelle parole che gli avevano fatto tremare la schiena e il cuore. Poi, un dubbio terribile gli attraversò la mente offuscata. – Sei tu… sei la strega che rubava le viscere agli uomini… - e non appena lo disse, la vista gli ritornò perfettamente funzionante, e la sensazione di offuscamento svanì.
Tentò di rialzarsi in piedi, ma la donna gli fu addosso prima che potesse muovere anche solo un muscolo. Ella era ritornata alla sua forma originale: vecchia, grinzosa, grossa, terrificante.
Lo inchiodò a terra, incastrandogli i piedi nel fango e trattenendogli i polsi sopra la testa, con le dita di una sola mano.
- Non ribellarti, Occhi tondi. Non servirà.
- Cosa vuoi da me?
- Me lo domandi con coraggio. Un coraggio che può facilmente diventare sfrontatezza, in un attimo.
- Hai scelto la persona sbagliata… io non ho potere.
Io non ho il potere di liberare le tue genti, io non decido nulla qui.
Non ho mai desiderato sopprimere una popolazione.
- È un po’ tardi per le scuse, ragazzo.
Oh, se il tuo comandante ti vedesse in queste condizioni… piegato e spezzato da una donna.
Ti sei prestato a questo.
Se davvero vuoi far cessare la strage che state compiendo nella nostra terra… dovrai agire in prima persona.
- Ti ho già detto che non ho potere!
- Allora createlo, il potere!
Sei stato scelto da qualcuno oltreoceano per questo!
Gli spiriti ci riferiscono solo ciò che può andare a nostro vantaggio…
Devi sapere che qualcuno ti sta cercando.
Qualcuno che ha un tremendo bisogno del tuo aiuto – pronunciò la donna, mentre tra le sue mani prendeva consistenza una pergamena arrotolata. – Una magia sconosciuta l’ha fatta arrivare fin qui, tra le mie mani.
Ruben sgranò gli occhi. – È per me?
- Per chi altro dovrebbe essere, Occhi tondi?
- Dammela. Potrebbe avermela mandata mia madre. È da tempo che non scrive. Era malata quando mi sono arruolato…
- È di tuo padre.
- Di… mio padre? – ripeté Ruben stupito.
- La cosa ti sorprende?
- Non ci siamo lasciati in buoni rapporti, io e mio padre.
- A tuo padre serve urgentemente il tuo aiuto.
- Cosa gli è accaduto?
La vecchia lo lasciò andare, ma allontanò la lettera da lui.
- Un passo alla volta, Ruben.
 Nella lettera, tuo padre ti esorta a tornare in occidente.
Ed è esattamente ciò che farai: tu convincerai il tuo comandante e tutto l’esercito di invasori che affliggono questa terra a tornarvene nella vostra patria, a liberarci per sempre.
Li convincerai… altrimenti sarai morto prima di affacciarti ai tuoi tredici anni.
Finirai tra le mie fauci e non vedrai più la luce del sole:
Ho una gran voglia di mangiarti gli occhi.
Quegli occhi grandi, chiari e corposi.
Ma credo che inizierò dai piedi. La parte che amo di meno. Così sarà tutto un crescendo, di succulento piacere olfattivo e gustativo…
Ruben era disgustato dalle parole che uscivano dalla bocca della strega.
- Mi hai sentito bene, Occhi tondi?
Farai esattamente ciò che c’è scritto nella lettera, e te ne andrai dall’Asia, con tutte le tue genti.
Il nostro Fato è legato, Ruben von Hohenheim.
La sorte dei miei consanguinei è nelle tue giovani mani – concluse, ponendogli la pergamena tra le dita, facendo tuonare il cielo.
- Chi sei tu…? – le domandò il ragazzo, allibito, guardandola negli occhi funerei senza paura.
Ella gli rivolse un sorriso tremendo in risposta. – Mi piace il nome che voi Occhi tondi date alle cose. Quando, nel tuo letto, ricorderai qual è il volto della donna che popola i tuoi incubi più tremendi… chiamala pure Erichto.
 
 
- Sta’ fermo così, Ioan… - sussurrò Judith avvicinandosi maggiormente alla fronte del bambino, per tagliargli i capelli bagnati in maniera più precisa.
Ma Ioan, quel giorno, sembrava non riuscire a stare fermo, tanta era l’emozione.
Il bambino fissò lo sguardo concentrato della ragazza, e non poté fare a meno di sorridere, muovendosi.
- Ioan… ti ho detto di stare fermo – lo rimproverò lei con voce severa, cercando di non sorridere a sua volta. Se per colpa sua gli avesse tagliato i capelli male, si sarebbe arrabbiata davvero.
- Lo hai già fatto altre volte? – le domandò il bambino, sistemandosi meglio sullo sgabello.
- Mi sono sempre tagliata i capelli da sola, e li ho sempre tagliati ai monaci e alle monache – lo rassicurò lei. – Tuttavia, loro restavano fermi, a differenza tua.
- Scusa, scusa!
- E a te chi li taglia solitamente?
- Mia madre. A Blake li tagliava nostro padre, invece.
Judith allontanò la forbice dal viso del ragazzino e osservò il risultato. – Sembra che io abbia fatto un buon lavoro. Però il risultato finale verrà sancito solo quando i capelli ti si asciugheranno. Ora lavo la forbice e te li taglio dietro – affermò la ragazza con tranquillità, allontanandosi per andare a sciacquare la forbice dentro la bacinella d’acqua.
Era una placida mattina. Calda ma non troppo.
Il pancione le dava meno dolori del solito, il suo corpo era avvolto da una vestaglia pesante.
Camminava per casa a piedi nudi, come una bambina. Alla cattedrale non lo aveva mai fatto.
Le sembrava di vivere in quella casa da anni, quando, in realtà, era passato solo qualche giorno.
La casa di Blake profumava sempre di pulito, di luogo accogliente, o di qualcosa di cucinato.
Era tanto tempo che non sentiva un simile odore, da quando non cucinava in casa con sua madre e sua nonna.
Judith iniziò a canticchiare una melodia a bocca chiusa, fin quando non le tornò in mente qualcosa:
- Ioan?
- Ti ricordi ancora la prima battuta della tua scena, nel secondo atto, con May?
- Certo che me la ricordo. Ricordo persino le battute di May.
- “Un diamante in un mare di vetro” – recitò Judith.
- “La bellezza non è tutto. La bellezza è l’unica cosa” – proseguì Ioan. Judith era certa che il ragazzino non avesse ancora appreso appieno il significato di quella frase. Come avrebbe potuto? Ognuno di loro non avrebbe potuto. Eppure, era stata lei a scrivere quel copione. Un copione che nessuno avrebbe compreso.
- “Ma non sono sempre stato assuefatto da te, sai?”
- “Io invece sì” – continuò Judith.
- “E non ho mai amato così tanto qualcuno come amo me.
Vorrei uccidermi, per trattenere la mia immagine e la mia anima in un lago, così che tutti possano vederla” – una terza voce, proveniente dalla stanza accanto, completò la battuta, facendo sorridere Ioan e sorprendendo Judith.
- Blake mi aiutava a memorizzare tutte le battute e faceva la parte di May per aiutarmi ad esercitarmi, ogni volta che glielo chiedevo – spiegò il bambino. – Ecco perché se le ricorda tutte anche lui.
Judith sorrise, divertita e meravigliata. – Tu resta qui, torno subito – disse a Ioan, posando le forbici e raggiungendo l’altra stanza.
- Non sapevo che avessi così buona memoria – esordì la ragazza, sorpassando l’uscio della stanza da letto di Ioan, dentro cui si trovava la figura del suo amato, il quale era intento a preparare gli abiti da far indossare a suo fratello per quell’evento speciale, dandole le spalle.
Blake non si voltò a guardarla, ma accennò un lieve sorriso, mentre continuava a lisciare il tessuto della tunica che Heloisa aveva ritirato dalla sarta apposta per l’occasione.
- Il tuo copione non è cosa facile da dimenticare. Specialmente se tuo fratello te lo ripete dieci volte al giorno – le rispose. Dopo qualche secondo, percepì il profumo della ragazza farsi più intenso, e le mani di lei circondargli il busto da dietro.
Judith appoggiò il volto sulla schiena del ragazzo, sorridendo. – Attento. Se ti dimostri un talento come il tuo fratellino, potrei considerare di far recitare anche a te qualcosa – lo minacciò giocosamente.
- Piuttosto la morte – rispose lui, continuando a trafficare con gli abiti.
Lei gli pizzicò i fianchi con forza, facendogli emettere una piccola smorfia di dolore.
A ciò, il ragazzo si voltò verso di lei, fintamente contrariato. – Non stavi tagliando i capelli a mio fratello? – la provocò.
- Torno da lui in un attimo… - sussurrò, poco prima che egli si abbassasse a baciarla, lentamente.
- Tua madre non è ancora tornata – bisbigliò lei, poggiando la guancia sul suo petto.
- No. E neanche padre Craig.
- Sono giorni che Heloisa mi evita. Da quando mi sono “stabilita” qui. Credi che non mi voglia qui?
- Mia madre è felice che tu sia qui – la rassicurò Blake, accarezzandole i capelli.
- Allora perché non fa altro che andarsene di casa da quando dormo qui?
- La domanda è un’altra, Judith – Blake la prese gentilmente per le spalle e le allontanò il viso dal proprio petto, per guardarla negli occhi. – Perché dormi qui da cinque giorni? Non fraintendermi, amo stare con te e mi piace la nostra quotidianità. Ma so anche che hai la tua vita alla cattedrale, alla biblioteca, la tua casa è stata quella per dieci anni. Mi sembra strano che tu te ne sia andata così, e ti sia stabilita qui all’improvviso. Sembra che tu stia evitando di tornare lì. Sembra quasi che tu stia scappando dai monaci – le fece notare. – Prima o poi dovrai parlare con loro. Lo sai, vero?
Colta nel segno, Judith distolse gli occhi da lui e li portò altrove, nonostante non avesse ancora sciolto l’abbraccio.
- Lo so. Ma non è ancora il momento – liquidò l’argomento.
- D’accordo, come vuoi.
- Che vestiti stai preparando per la trottola di là? – gli domandò lei, affacciandosi verso il letto, per guardare il mucchio di abiti che erano sistemati sopra il giaciglio.
- Mia madre gli ha preso almeno cinque abiti diversi dalla sarta, esagerando, come al solito: vorrebbe fargli portare un cambio d’abito per i festeggiamenti, quasi come se fosse lui a sposarsi – si lamentò. - Sto scegliendo quale tra questi cinque fargli indossare.
- Io opterei per quello color zaffiro – suggerì Judith.
- Dici?
- Sicuramente si abbinerebbe meglio ai suoi occhi, anche se sono molto più chiari.
Quello rosso carminio è un gran no.
- Lo penso anche io.
- Allora è deciso: quello color zaffiro.
- Va bene, adesso basta, va’ via – le disse sciogliendo l’abbraccio e allontanandola, per indispettirla. - Sono io quello adibito all’abbigliamento oggi, tu torna a tagliargli i capelli.
- Sei un maledetto anaffettivo – si lamentò lei seccata, ma sempre con un sorriso ad ornarle le labbra piene. – Non sarà il caso di tagliare anche i tuoi?
- Non farti venire in mente strane idee: i miei capelli non si toccano, stanno bene lì dove sono.
- È perché li porti sempre legati in qualche modo, che non si nota quanto siano cresciuti. Sono sicura che, se li sciogliessi, sarebbero più lunghi dei miei – affermò la ragazza. – Non che l’idea mi dispiaccia, effettivamente… – commentò, riflettendoci su.
- Ehi, voi due uccellini d’amore! Io sto ancora aspettando che qualcuno finisca di tagliarmi i capelli – si lamentò il piccolo Ioan, facendo capolino da dietro l’uscio.
- È colpa di Judith, Chris. Le piace sottrarsi ai suoi doveri.
- Lo so che è anche colpa tua, Even – gli rispose il ragazzino tornando nel suo sgabellino, seguito da Judith, che non riusciva a fare a meno di ridere. – Tu la distrai.
- Cos’è, adesso stai dalla sua parte? Dov’è finita la solidarietà fraterna? – replicò Blake fintamente offeso, raggiungendoli nell’altra stanza a sua volta.
Judith terminò di tagliare i capelli del bambino, poi guardò il risultato e sorrise, soddisfatta di se stessa. – Ora stai molto meglio, mio piccolo Superbia.
- Grazie, Judith! – esclamò il bambino felice, abbracciandola. – Sono contento che tu sia qui - aggiunse poi, sorprendendo la ragazza, la quale ricambiò l’abbraccio toccata, e voltò lo sguardo verso Blake. Il ragazzo le sorrise, incoraggiante, mentre osservava la scena. – Tra tutte le fanciulle che avrebbe potuto scegliere mio fratello, non ho mai davvero sperato che potessi essere tu, la mia nuova sorella acquisita – aggiunse il bambino. – Sarebbe stato troppo bello che la mia insegnante di teatro vivesse in casa nostra, e invece… sei qui. Non preoccuparti per nostra madre: anche lei ti vuole bene. Deve solo abituarsi.
- Ioan… da quando sei così saggio e maturo? – gli domandò Judith, meravigliata.
Il ragazzino alzò le spalle, in un gesto di casualità, per poi voltare gli occhi anche verso suo fratello. - Siete proprio sicuri che non volete venire anche voi al matrimonio? Insomma, so che non conoscete direttamente il fratello di Dionne, né la sua consorte, ma Dionne ci ha detto esplicitamente che sono invitate anche tutte le nostre famiglie al matrimonio. Specialmente le nostre insegnanti Judith e Hinedia.
- Oggi ho delle faccende da sbrigare, caro; inoltre, i gemelli mi stanno provocando dei fastidi ultimamente, perciò non mi fa bene partecipare a dei festeggiamenti simili – gli rispose Judith. - Probabilmente anche Hinedia è impegnata oggi, per questo avrà rifiutato l’invito.
- E tu, Blake?
- Non posso, Chris. Oggi devo-
- Andare alla galleria – dissero in coro Judith e Ioan, interrompendolo e anticipandolo.
Il ragazzo sgranò gli occhi, sorpreso. – Sono davvero così prevedibile…?
- Beh, ultimamente passi tutto il tuo tempo lì. O lì o alla fucina – commentò Ioan.
- Non è colpa mia se gli scavi stanno andando incredibilmente bene. E poi, se già lo immaginavi, perché me lo hai chiesto, piccola canaglia?
- Ho fatto un ultimo tentativo per convincerti.
- Beh, devi decisamente perfezionare i tuoi metodi persuasiv-
Judith tappò la bocca di Blake con la mano. – Basta, ora, voi due. O Ioan farà tardi. Tra poco ti passeranno a prendere Gwen e sua sorella, giusto? – domandò la fanciulla a Ioan, rivolgendogli uno sguardo furbo, che fece arrossire il ragazzino.
- Sì… beh, cos’è quell’espressione?
- Nulla. Avevo la tua stessa faccia, da piccola, la prima volta che un ragazzino della tua età fu particolarmente galante con me. Tu e Gwen vi piacete molto, si vede. Mi raccomando, sii carino con lei ed evita di parlarle della Primavera. Lo sai che odia la Primavera.
Ad ogni modo, signorino, non sei ancora vestito. Ti conviene andare subito a vestirti, se vuoi farti trovare pronto, mentre io vado a prepararti uno spuntino da portarti, nel caso le cose andassero troppo per le lunghe. Sicuramente accadrà.
- Va bene, “mamma” – rispose il bambino, beccandosi una spinta bonaria dalla ragazza.
- Sei sicuro che non vuoi che ti accompagni io? Sono una donna incinta, certo, ma posso ancora camminare, che il Diavolo lo voglia.
- Non preoccuparti, Judith. E poi, dovrebbe essere Blake ad accompagnarmi, dato che è il più atletico qui. A lui non peserebbe – disse pungente il ragazzino.
Il succitato roteò gli occhi al cielo. – Hai finito? Vuoi farmi pesare ancora un po’ il fatto che io sia sempre alla galleria?
Ioan gli fece la linguaccia, mentre Judith se ne andava in cucina, a preparare uno spuntino, come aveva detto.
Rimasti soli, i due fratelli si guardarono allo specchio dinnanzi a loro, sorridendosi a vicenda.
- Judith ha ragione: avanti, vatti a cambiare. Così, non appena sarai vestito come un figurino, potrai specchiarti.
Ma Ioan non si mosse e continuò ad osservare la propria immagine allo specchio, accostata a quella di Blake. In particolar modo, osservò il riflesso di Blake.
Uno sconosciuto non avrebbe mai capito che fossero fratelli, non avrebbe trovato alcuna somiglianza tra loro.
I componenti della loro famiglia, delle generazioni andate, erano sempre stati molto alti.
Alti, slanciati e aitanti. Blake rispecchiava pienamente quelle caratteristiche.
Lui, invece, non era affatto così.
Aveva ancora tempo per crescere, certo. Tuttavia, Ioan sentiva che non sarebbe mai diventato come lui: egli era mingherlino, sin troppo, con la costituzione gracile e minuta, di conseguenza, possedeva una statura bassa, per un ragazzino della sua età.
- Credi che, tra qualche anno, diventerò alto quanto te? – gli domandò a bruciapelo, stupendo Blake.
- Può essere – rispose il ragazzo.
- Non mentirmi, Even. Tu alla mia età non eri così gracile.
Credi che ci somigliamo io e te…? Almeno un po’?
Blake gli sorrise allo specchio, rivolgendogli uno sguardo rassicurante. – Certo che ci somigliamo – gli disse, mettendosi di profilo. – Girati di profilo anche tu.
Ioan obbedì, così Blake riprese: - I nostri nasi. Sono identici, non vedi?
- Hai ragione – rispose Ioan, lievemente rincuorato, come se tale constatazione potesse infondergli forza, e alleggerirgli il cuore di tonnellate.
- Quaglia lo chiama “il naso da gatto”.
- Tuttavia… non lo so cos’è che mi turba, esattamente.
- Chris, non puoi pretendere di avere un corpo robusto e virile all’età di dieci anni.
- Non è quello che intendevo. Non pretendo di essere robusto come lo è George, ad esempio.
Però vorrei…
Insomma, anche tu sei snello, certo, però hai della carne intorno alle ossa.
Io invece no. Per quanto mi sforzi di mangiare, di mangiare più degli altri… sembra che il mio corpo non prenda mai peso. Sembra che io sia destinato a rimanere così.
Non somiglio affatto a nostro padre. Lui sì che aveva un aspetto portentoso.
In una stanza piena di persone, non riuscivi a smettere di guardare lui.
E poi, c’è anche la mamma. Anche lei ha un aspetto rigoglioso, in salute, ed è difficile non notarla, quando è in una stanza con altre donne.
Tu somigli ad entrambi.
Possibile che io, invece, sia un tale fuscello, privo di consistenza?
Blake si posizionò dietro di lui e gli poggiò le mani sulle spalle. – Chris, devi capire che tu sei stato malato per tutta la tua vita, sin dalla tua nascita. Questo, purtroppo, non potremmo mai cancellarlo. È un dato di fatto che dobbiamo accettare. Ora stai iniziando a stare meglio. Ma la ripresa, soprattutto se si parla di una malattia come la tua, non è immediata. Ci vuole tempo. E bisogna anche accettare il fatto che, in tutti questi anni, il tuo corpo non ha potuto crescere a dovere, perché non ha potuto nutrirsi a dovere. Tutto quello che mangiavi, lo rigurgitavi, ricordi? Era la malattia a tenere prigioniero il tuo corpo, fratello. Adesso, sei tu che hai le redini. Vedrai, crescerai, datti il tempo di farlo. E poi, tu non te ne accorgi, ma io sì: sei un po’ più alto rispetto a prima.
- Ah sì…?
- Te lo garantisco.
- Credi che papà sarebbe fiero di noi?
Un’altra domanda a bruciapelo che sorprese il ragazzo. – Certo che lo sarebbe.
Ioan sorrise in risposta. – Lo credo anche io. Ci voleva bene, papà.
- Sì, ci voleva bene.
- Anche se non era perfetto.
Blake lo osservò, cercando di carpire cosa gli passasse per la testa quella mattina. - Sai, a Gwen non credo interessino queste cose – riprese il discorso di poco prima. - Se le interessassero tanto, credo si sarebbe gettata tra le braccia di qualcun altro.
Eppure, stravede per te.
Tuttavia, se vuoi sentirti più virile, per lei… posso insegnarti a raderti – gli propose, per smorzare quell’atmosfera cupa che circondava il ragazzino.
Ioan sgranò gli occhi chiari, per poi sorridere divertito. – Davvero?? Però io non ho niente in faccia, nemmeno un pelo. E non mi sembra che sia mai cresciuta la barba neanche a te.
- Ma come, non lo sai? – gli domandò Blake, affilando lo sguardo.
- Cosa dovrei sapere?
- La stupida leggenda che aleggia sulla nostra dinastia di proprietari della galleria.
- Che leggenda…?
- Papà me la raccontò quando avevo la tua età: sembra che un nostro lontano antenato, il primo proprietario della galleria di Bliaint, un giorno sia rimasto intrappolato in una zona profonda e inesplorata della galleria che, malauguratamente, ha preso fuoco.
- Cosa?? Ma è terribile…
- Lui è riuscito a salvarsi, però le fiamme gli hanno bruciato la faccia, specialmente nella zona che va dal naso fino alle mascelle e al mento. I medici di allora gli hanno applicato degli ungenti che hanno guarito parzialmente la sua pelle dall’esterno, permettendogli di non apparire sfigurato. Eppure, non sono mai riusciti a guarire la sua pelle dall’interno.
- Che significa?
- Che, a quanto si dice, il fuoco gli abbia bruciato tutti i bulbi che avrebbero dovuto fargli crescere la barba. Guarda caso, a nessuno degli uomini della nostra dinastia è mai cresciuta la barba. Neanche a papà è mai cresciuta.
- Hai ragione…
- Bizzarro, vero? Da qui è nata la leggenda: nessun proprietario della galleria ha mai avuto la barba, proprio per quello che è accaduto al nostro antenato.
Ioan rise di gusto, trovandola una storia assurda e inquietante insieme. – Ma… non è strano? Che un incendio sia scoppiato dentro la galleria… - domandò, riflettendovi su.
- Sì, lo è. Sono accaduti molti eventi strani alla galleria, nei secoli andati – liquidò il discorso Blake, mentre le parole di suo padre gli tornavano alla mente:
“Non sei l’unico membro della nostra famiglia ad essere impazzito a causa di quella dannata galleria!”
C’erano ancora molte cose che non sapevano.
- Even? – gli domandò dopo un po’ Ioan, riscuotendolo.
- Sì?
- Hai ancora intenzione di scappare via di qui? Nonostante adesso tu e Judith siate promessi? – gli chiese, parlando piano per farsi sentire solo da lui, sapendo che Judith fosse in cucina.
Blake ammutolì. Il suo viso si svuotò.
Rimase in silenzio per un po’, stringendo lievemente la presa sulle spalle sottili di suo fratello.
- Sì. Scapperemo via di qui, quando sarà il momento.
A Bliaint non siamo al sicuro.
- Perché non le chiedi di venire con noi? Secondo me lo farebbe.
- Non posso.
Mesi fa, Judith mi ha rivelato di voler restare qui, per cambiare le cose dall’interno.
Ella ha molti piani in mente, per rendere la vita degli abitanti migliore.
Altrimenti, se così non fosse stato, se ne sarebbe andata già tanto tempo fa. Sarebbe scappata via, lasciandosi alle spalle le violenze sessuali che ha subìto, senza guardarsi indietro.
Invece è rimasta. È una ragazza coraggiosa e molto determinata.
- Allora… perché non vuoi aspettare, prima di scappare, per dare modo a Judith di portare i cambiamenti che ha in mente?
- Perché demolire una struttura dalle fondamenta è un processo estremamente lungo.
E, purtroppo, non abbiamo tempo.
Le truppe del conte straniero sono vicine, e non sappiamo cosa accadrà.
Ma non voglio costringerti a fare nulla, Christopher.
Se vorrai restare qui… se vorrai restare con Gwen e vivere la tua vita a Bliaint, io non posso impormi su di te.
A ciò, Ioan appoggiò una mano fredda sulla sua e gliela strinse, guardandolo negli occhi dallo specchio, con decisione. - Dove vai tu vado io, fratello. Sempre.
Blake gli accennò un sorriso fiero. - Ora è davvero il momento che tu vada a cambiarti d’abiti, se non vuoi far aspettare la tua bella.
- Even… credi che Quaglia tornerà, prima o poi? Mi mancano i ritratti che mi faceva. Credi che… prima che noi due ce ne andremo da Bliaint… faremo in tempo a salutare anche lui? – gli domandò, palesando i suoi occhi lucidi.
Blake perse un battito.
- Sì. Tornerà. Tornerà, stanne certo. Ora va’.
Quando Blake raggiunse Judith in cucina, la trovò intenta a preparare ancora il delizioso spuntino per Ioan, composto da una focaccia con verdure e una limonata.
Blake bevve un po’ della limonata, beccandosi un calcetto sottobanco da parte della ragazza.
Dopo qualche minuto li raggiunse anche Ioan, pronto e vestito di tutto punto.
- Tesoro, sei elegantissimo.
- Grazie, Judith.  
Qualcuno bussò alla porta.
- Perfettamente in tempo – commentò Blake finendo di masticare un pezzo di focaccia e andando ad aprire.
- Ciao, Blake! – lo salutò allegramente Gwen, stretta nel suo elegante abitino verde oliva.
- Spero che non siamo troppo in anticipo – esordì la sorella della ragazzina, una fanciulla di diciannove anni, similissima a Gwen, nonché la sua versione più grande, bellissima nel suo vestito color caramello, che le evidenziava le curve in maniera discreta e affatto volgare.
Blake l’aveva conosciuta una delle volte in cui si era recato a casa loro a riprendere Ioan.
- Gwen, Mona, prego, entrate – le accolse il ragazzo, lasciandole entrare.
- Gwen, mi piace molto il tuo vestito! – si complimentò subito Ioan, vedendola.
- Ti piace? Beh, anche tu stai benissimo – ricambiò lei, emozionata.
- Buongiorno anche voi, Judith – disse Mona alla rossa, la quale ricambiò il saluto.
Le voci correvano: oramai tutti sapevano della riunione tra Blake e Judith, al villaggio.
Tutti, tranne i monaci.
Judith, dal canto suo, conosceva la sorella di Gwen grazie a tutte le volte in cui la ragazza era andata a prendere la sorellina alla fine delle lezioni teatrali.
- Gwen è emozionatissima: è il primo matrimonio a cui partecipa e non sta più nella pelle - spiegò la ragazza, osservando la sua sorellina, la quale aveva le guance rosse e sorrideva pimpante. - Dunque, ora vivete qui – assunse Mona, rivolgendosi a Judith.
La rossa sapeva che la sorella di Gwen fosse una ragazza diretta, e non mancò di risponderle prontamente. – A dir la verità no. Sono qui solo in via temporanea. Penseremo ad una casa insieme solo dopo esserci sposati. Vogliamo rispettare le tradizioni.
- È giusto. Le tradizioni vanno rispettate – le fece notare la fanciulla, sorridendo. – È un vero peccato che voi due non riusciate a venire oggi. Conosco sia il fratello di Dionne, sia la ragazza con cui si sposerà, sono delle persone squisite e molto devote, che il Diavolo li protegga. Sono certa che gradirebbero anche la vostra presenza, siete due persone molto vicine a Dionne e a tutti gli altri “bambini degli otto peccati capitali”. Inoltre – fece una piccola pausa, palesando un sorrisino divertito. - Talvolta i bambini si incontrano tutti a casa nostra, come ai vecchi tempi. Chiedono sempre di voi, Judith, tutti quanti, mancate molto a ognuno di loro – detto ciò, si rivolse poi a Blake. – Senza contare che Sorie chiede spesso di voi, Blake. Credo si sia presa una piccola cotta.
- Confermo! – dissero in coro i due bambini.
- Sorie sa bene che sono un po’ grande per lei – commentò il ragazzo.
- Di quello non le importa – gli rispose Ioan. – Però sa che sei di Judith, e lo rispetta.
Judith sorrise divertita, in risposta. – Mancano tutti molto anche a me. Dite loro che presto faremo una riunione tutti insieme, come i vecchi tempi, anche con Hinedia.
- Sarebbe molto bello.
- Forse non sarebbe il caso di includere ancora quella pazza – commentò sprezzante Mona. – Ha tentato di uccidere mia sorella, e, in più, è pur sempre una serva del Creatore.
- Mona, ti ho già detto che non era in sé quel giorno… - tentò di farla ragionare Gwen.
- In sé o non in sé, hai comunque rischiato di morire a causa sua.
- Come ha già detto Gwen: Hinedia non era in sè quel giorno. L’abbiamo tutti perdonata per quello che ha fatto – la difese a spada tratta Judith.
- Inoltre… sì, è una serva del Creatore. Ma cosa ci vieta di considerare i servi del Creatore esseri umani, esattamente come noi? – le rispose a tono anche Blake, avvicinandosi. – Vi ricordo che ne ospito uno in casa mia, da mesi. Per giunta, anche straniero. Non dovrebbe esservi discriminazione tra noi. Considerando, poi, che Hinedia ha anche contribuito alle prove dei bambini e alla buona riuscita di tutto lo spettacolo, dovreste solo esserle grata.
Mona ammutolì, non replicando più.
- Ad ogni modo, sapete quando verrà giustiziata Beitris? Voi, Judith, che siete interna al clero, dovreste saperlo.
Tale domanda fece irrigidire Blake.
- Insomma – riprese Mona. – quella maledetta strega ribelle è prigioniera da quanto? Mesi? E non è stata ancora arsa al rogo. Non capisco come mai le viene mostrata tanta compassione: ha sterminato l’ordine monacale del nostro culto del diavolo, ha diviso il nostro villaggio e ha anche fatto adirare i signori, provocando un’epidemia che ci ha decimati. Non esiste piaga peggiore di lei – disse con rabbia.
Judith notò l’agitazione ben celata di Blake accanto a sé, e parlò. – Abbiamo tentato di purificarla tramite i riti di purificazione, per non ucciderla, esattamente come abbiamo fatto con il ragazzo-strige. Ma, come ci ha dimostrato lo sfortunato suicidio di quest’ultimo, i riti di purificazione non funzionano. Dunque, la giustizieremo, sì. A breve – liquidò l’argomento.
- Bene. Non vedo l’ora di vederla bruciare dinnanzi ai miei occhi – disse fieramente Mona. – I nostri monaci sanno cosa è meglio per noi. Tutti questi roghi che si sono susseguiti negli ultimi anni sono stati una benedizione da parte dei due signori. I monaci sono i loro messaggeri e non dovremmo mai opporci a loro. Certo, abbiamo scoperto che Allister Chaim e alcuni suoi successori hanno fatto delle cose orribili ai bambini, per anni. Tuttavia, sappiamo che i monaci della nostra generazione non sono così. Sono migliori. Seguono solo il volere dei signori.
Mona apparteneva a quella fascia del villaggio tanto devota da sembrare accanita.
Per lei, qualsiasi cosa decidesse il clero era una manna dal cielo, ed ogni crimine andava denunciato e punito nel peggiore dei modi, senza distinzioni.
Era una seguace della giustizia o, per lo meno, credeva di esserlo.
Forse, se i monaci avessero giudicato giusto bruciare al rogo la sua sorellina, Mona li avrebbe lasciati fare.
- Mona, dai andiamo! Dionne, Kilian, May e tutti gli altri ci staranno aspettando! – si lamentò Gwen.
- D’accordo, d’accordo, ora andiamo.
Judith diede a Ioan il suo spuntino e lo vide uscire di casa, mentre Blake gli augurava di divertirsi.
Ora, i due amanti erano di nuovo soli in casa.
Judith si voltò verso Blake, accennandogli un sorriso, senza alcun motivo in particolare.
Il ragazzo ricambiò, poi raggiunse il ripiano della cucina, per prepararsi un the.
- Andrò a parlare con i monaci domani – esordì Judith, sedendosi su una delle sedie.
- Una buona cosa.
- Tornerò a dormire alla cattedrale. I paesani potrebbero chiacchierare troppo, se non lo faccio.
- Cosa ti importa delle chiacchiere? – le domandò lui.
- Mi importa, Blake. Già hanno parlato abbastanza. Dicono di te troppe cattiverie perché io possa farmele scivolare addosso. È estenuante. Se iniziassero a parlarci alle spalle anche come coppia, non potrei sopportarlo.
- Ti curi troppo di ciò che dicono – le disse lui, ponendole una tazza di the davanti. – A me non è mai importato. Da sempre, sin da quando ho imparato a leggere nonostante fosse proibito, mi sparlano alle spalle, chiamandomi infedele, ribelle, persino eretico.
- Se tornassi alla cattedrale, Heloisa non avrebbe bisogno di passare venti ore al giorno fuori di casa - disse angosciata, riportando a galla il discorso.
- Judith, te lo ripeto: mia madre approva la tua presenza qui. Ha solo bisogno di spazio. Probabilmente starà trascorrendo tutte le sue giornate a portare fiori e omaggi nelle cripte disseppellite, considerando quanto è attaccata a ciò che è accaduto.
È una donna strana, Heloisa. Non tentare di capirla, non puoi.
- Mai strana quanto suo figlio – lo punzecchiò lei, pizzicandogli ancora un fianco.
Stava diventando una dispettosa abitudine, quella di dargli pizzicotti ovunque, per indispettirlo, specialmente quando si dimostrava anaffettivo.
Il ragazzo si stava ritrovando la pelle coperta di lievi lividi, e Judith non si sentiva affatto in colpa per questo.
Nellie saltò sul tavolo, tentando di leccare l’infuso di Judith, ma, prima di riuscire nell’intento, Blake le diede due carezze, poi la tirò giù dal tavolo.
- Mi preoccupa di più padre Craig, sinceramente – riprese Blake, abbassando lo sguardo verso la propria tazza, un poco turbato. – Non è mai stato lontano da casa così spesso. Non so cosa gli sia preso. Tu lo sai? – le domandò. – Probabilmente lo conosci meglio di me.
Judith non sapeva come rispondergli. Qualsiasi cosa avesse detto, sarebbe stato un segreto da non rivelare, qualcosa da non dire, o si sarebbe mostrata inadeguata.
Eppure, Blake era sinceramente preoccupato, e Judith non poteva ignorare ciò.
- Credo semplicemente che… sai, fa un certo effetto vederti sorridere di più.
Blake non comprese e la guardò confuso. – Mi stai dicendo che non sorrido mai?
- Intendevo, vederti più sereno. In grado di sorridere spensieratamente, gioiosamente. Non sorridi mai così. Non per vantarmi, ma credo di essere l’unica in grado di farti sorridere così. È difficile non accorgersene.
Padre Craig sicuramente se ne è accorto. È un buon osservatore e, in più, non ti perde mai d’occhio.
- Più sereno, eh? – il ragazzo vi rifletté su, effettivamente non l’aveva ancora fatto.
- A cosa stai pensando?
- Solo che… non è paradossale? Il fatto che io sia più sereno, che sia in grado di sorridere più spensieratamente. Insomma, certo, gli scavi alla galleria vanno bene, mio fratello è guarito e finalmente posso amare liberamente la donna che amo.
Tuttavia, non dovrei essere sereno, né spensierato, considerando che: Quaglia è sparito; mio padre è morto da poco e il suo assassino è ancora là fuori; abbiamo appena scoperto le atrocità che hanno subìto i Bambini sciagurati; l’incantesimo di protezione che avevano fatto Myriam, Ephram e Imogene è infranto dopo la sparizione di quest’ultima, e…
… E dovrò andarmene via da Bliaint, lasciandoti sola.
Blake si tacciò, prima di dire quell’ultima frase, nonché la preoccupazione che lo angosciava di più, dinnanzi alla diretta interessata.
Non si accorse che Judith si fosse alzata e ora fosse esattamente davanti a lui, a distanza ravvicinata.
Ella gli infilò le mani dietro la nuca e lo guardò, con i suoi grandi occhi neri da cerbiatta, profondi come l’inchiostro più scuro, lucidi e rassicuranti, quasi materni: - Non dobbiamo sentirci in colpa per aver finalmente trovato, dopo tante vicissitudini, il nostro personale e intimo nido di serenità, Blake.
Blake le sorrise in risposta, mentre ella gli poggiò le mani sui fianchi, la parte di lui che più amava toccare. – Il fatto è che non voglio che se ne vada anche lui. Non intendo nel senso letterale del termine, sono abbastanza certo che non abbia intenzione di tornare ad Armelle, per ora. Tuttavia, già Quaglia se ne è andato, e non averlo più intorno mi turba più di quanto avrei mai immaginato… se si allontanasse anche padre Craig, non la vivrei bene.
Judith fu felice che il ragazzo si sentisse finalmente libero di esprimere i suoi sentimenti. – Quaglia ti manca molto, non è vero?
Blake intuì la gioia interna dell’amata nel vederlo emotivo, per una volta. – Già. Se lo dici a qualcuno sei morta.
Judith sorrise. – E ti manca un po’ anche padre Craig, considerando che non ti sta sempre attorno, come faceva prima che io arrivassi in casa tua.
- Questo non implica che tu debba tornare alla cattedrale se non vuoi. Sei la benvenuta qui, sempre.
- Lo so, caro.
Un’altra questione si palesò nella mente della ragazza mentre si abbracciavano, sentendo semplicemente il calore l’uno dell’altra.
- Hai detto di aver terminato il marchingegno con la polvere nera, ieri – gli disse, guardandolo negli occhi.
- Sì, infatti. Ho fatto tutti gli esperimenti che dovevo negli ultimi giorni: è pronto all’utilizzo.
- Tuttavia… non sarà mai perfezionato e sicuro fin quando non lo proveremo su qualcuno – dedusse la ragazza, deglutendo a vuoto.
- È un marchingegno che serve a uccidere, a giustiziare in maniera più veloce e indolore rispetto al rogo, Judith. Non possiamo provarlo su qualcuno per vedere se funziona.
Dovremmo utilizzarlo così com’è sulla prossima persona che verrà giustiziata, con il benestare dei monaci, e sperare che fili tutto liscio.
- E se quella prossima persona fosse Beitris? – domandò di colpo, facendolo irrigidire.
Blake si allontanò involontariamente da lei, impietrendo.
- Hai sentito Mona, Blake.
Oramai non c’è più ragione di tenere Beitris in vita, perennemente imprigionata. Lo sanno tutti.
Pensa a questo: in ogni caso, quella che sta vivendo in quella cella non è vita, e non verrebbe mai e poi mai liberata, per nessun motivo al mondo.
Avrebbe dovuto essere giustiziata molto tempo fa.
- Ma non possiamo provare il marchingegno proprio su di lei per prima…
Potrebbe non funzionare nel modo corretto la prima volta.
Potrei aver sbagliato qualche calcolo, qualche dose, non possiamo saperlo.
- Sono i tuoi sentimenti che parlano ora.
- Potrebbe soffrire, se il marchingegno non funzionasse subito nel modo giusto..
- Soffrirebbe comunque meno, rispetto ad un’esecuzione al rogo.
- Come puoi esserne certa?
- Avevi detto di non provare più niente per lei.
- Ma le voglio comunque bene, Judith!
Accidenti… - imprecò sfregandosi il viso, nervosamente.
- Sapevi che presto o tardi sarebbe morta, Blake.
Dovremmo provarlo su qualcuno, in ogni caso, prima o poi.
Se vogliamo portare questo cambiamento il prima possibile, ed evitare che tanti altri muoiano con un metodo tanto atroce e inumano… dobbiamo farlo ora.
Se non lo provassimo su di lei e aspettassimo il prossimo o la prossima… verrebbe comunque bruciata al rogo e soffrirebbe come un cane. È questo che vuoi?
Proprio perché tieni a lei, non vuoi provare a farla morire in maniera indolore?
Se il marchingegno non funzionasse… nel peggiore dei casi non morirebbe, e saremmo costretti a bruciarla al rogo, in estremo.
Blake si calmò, riconoscendo la logica del ragionamento della ragazza. – D’accordo. Lo faremo. Ad ogni modo, non sottovalutare la questione del benestare dei monaci: dovrai essere molto persuasiva per convincerli a farci usare il marchingegno su un condannato. Ti ricordo che per loro il rogo è sacro, perché credono che, tramite le fiamme, i peccati del peccatore vengano purificati – le rammentò.
- Lo so. Approveranno. Dovranno farlo.
Dato che è tutto pronto, l’esecuzione potrebbe essere fissata già nei prossimi giorni.
Ti consiglio di andare da lei, a dirle addio, appena puoi – lo incoraggiò Judith.
Il ragazzo annuì, rassegnato, riavvicinandosi. – Un matrimonio e un’esecuzione a distanza di così poco. Sarà un brutto presagio?
- Chi lo sa.
- Judith?
La ragazza alzò di nuovo lo sguardo su di lui, a tal richiamo.
Blake le carezzò una guancia, scrutandola. – Ora che hai recuperato i ricordi… non abbiamo ancora parlato della questione più importante di tutte.
- Qual è?
- Ricordi chi ti ha fatto perdere la memoria, Judith? Chi ti ha aggredita, quella notte?
Fu in quel momento che a Judith tornò in mente quel ricordo traumatico, il più traumatico di tutti: Hinedia, con un viso che non sembrava neanche il suo per quanto rabbioso e oscuro, che la spingeva, tentando di ucciderla.
Judith non sapeva chi l’avesse salvata quella notte.
Non poteva saperlo.
Non poteva sapere che Hinedia non si fosse fermata autonomamente, e che fosse stato piuttosto un ragazzo che oramai era diversi metri sottoterra a convincerla a non finirla.
Tuttavia, quel ricordo non le era riapparso alla mente, fino a quel momento, fino a quando Blake non glielo aveva domandato.
Fu come venire colpita da una secchiata di acqua bollente, scorticante.
Di una sola cosa era certa al momento: esattamente come Hinedia non era in sé il giorno dello spettacolo, quando aveva spinto Gwen e Edith giù dal palco; non doveva essere in sé neanche quando l’aveva aggredita quella notte, e quasi uccisa. E, molto probabilmente, non lo era neanche quando aveva ucciso il padre di Blake.
Avrebbe dovuto venire a capo di quella storia e scoprire cosa le era successo, indagare.
Fu in quel momento che decise che sarebbe andata a casa di Hinedia quel pomeriggio. Per parlarle.
- No, non lo ricordo – mentì la ragazza, in quanto non avrebbe potuto dirgli la verità, non ancora, o Blake avrebbe odiato Hinedia, e forse gliel’avrebbe anche fatta pagare.
Il fatto che il suo nascente rapporto col ragazzo fosse iniziato già con diverse bugie non di poco conto la turbò, facendole venire una strana nausea.
- Peccato. Se quella persona è ancora in circolazione potresti essere in pericolo.
- Non preoccuparti per questo – gli rispose.
La memoria della fanciulla, rifiutandosi di ripensare a ciò, vagò su altri orizzonti, e una strana domanda le piombò alla mente, assolutamente non riguardante il discorso appena fatto.
- Il ragazzo che Beitris aveva chiamato, per farlo giacere con voi, con te… quello del bosco, da cui sei scappato. Ricordi come si chiamava?
Blake alzò un sopracciglio, confuso. – Come ti è venuta in mente una cosa simile, ora?
- Non lo so. È una curiosità.
- No, non lo ricordo.
- Sai che fine ha fatto?
Blake pose le braccia conserte, abbassando lo sguardo.
Da ciò, Judith capì che il ragazzo non dovesse aver fatto una bella fine.
- Un giorno, forse un anno fa, sono andato ad assistere ad un rogo, come sempre.
Su quel palco c’era lui legato. Lo riconobbi dal viso. Fu uno di quelli che urlò di più.
Morto al rogo. Come tanti altri  pensò amaramente la fanciulla. Per questo dovevano agire in fretta e portare il marchingegno alla luce del sole, mostrarlo e proporlo in sostituzione di quel metodo di tortura barbaro e inumano.
Era il suo progetto, da sempre.
Era finalmente il momento di portarlo a termine.
- “Un diamante in un mare di vetro” – la fanciulla venne riscossa dai suoi pensieri dalle parole dell’amato, il quale aveva citato nuovamente tale battuta della Superbia. – Sai che aspetto ha, Judith? Un diamante in un mare di vetro? A cosa pensavi mentre lo scrivevi?
Ella si riavvicinò a lui, baciandolo tra le labbra, con passione e trepidazione. – No, ma ho immaginato che aspetto potesse avere. So che aspetto ha un diamante, però. Mentre il mare… un mare di vetro è l’unico mare che potrò mai sognare di vedere.
 
 
Hinedia si specchiò dinnanzi allo specchio della sua camera.
Indossava il vestito da sposa di sua madre.
Le calzava un po’ largo, ma non le importava.
Non si era mai vista così bella.
Non si era mai vista bella. Prima di quel momento.
Il tessuto era di un color latte condensato, non di un bianco accecante.
Era puro cotone. Il cotone era un tessuto rarissimo a Bliaint, andava importato.
E lei lo stava indossando, maneggiandolo come se fosse il più prezioso dei tesori.
Sorrise, per la prima volta dopo tempo.
Mancavano ancora delle settimane al matrimonio, e l’idea di indossare quel vestito era l’unica cosa buona che riusciva a pensare, in merito a quelle nozze indesiderate.
- Ti sta d’incanto – quella voce la fece sussultare.
Credeva di essere da sola in camera. Era talmente concentrata sul proprio riflesso, da non essersi accorta che fosse entrato qualcun altro.
Judith se ne stava appoggiata all’uscio, con il suo pancione enorme, e la sua solita grazia, eleganza e bellezza innata, che portavano chiunque a desiderare di guardarla per ore, giorni.
- Tua madre mi ha fatta entrare – le spiegò.
La sua voce era calma e placida.
Tuttavia, vi era qualcosa di diverso in lei. Sembrava molto più consapevole, Hinedia se ne accorse.
Aveva udito voci riguardo al fatto che lei e Blake si fossero ritrovati e riuniti, da qualche giorno.
Hinedia le sorrise, a distanza. – Grazie. Era di mia madre.
- Ti sta bene davvero, Hinedia – ripeté la fanciulla, avvicinandosele.
- Speravo che tu potessi prestarmi un paio dei tuoi bellissimi e pregiati guanti, il giorno delle nozze. Sai… per coprire queste – disse in un sorriso malinconico, mostrando alla rossa i suoi polsi sfregiati dallo sfogo che possedeva sin dalla nascita.
- Fa’ vedere – disse Judith prendendo i polsi dell’amica e portandoli nella propria direzione, per osservarglieli.
Hinedia fece un po’ di involontaria resistenza a quel gesto: si vergognava di quello sfogo.
- Lo sfogo sui polsi simboleggia la lotta tra i due signori per avere il predominio sulla tua anima. Non è qualcosa di cui vergognarsi.
- Lo so, ma…
- Allora non vergognartene. Indossali con fierezza, Hinedia – la incoraggiò prontamente, stringendole le mani nelle sue, mentre la guardava negli occhi.
Hinedia percepiva sempre più che vi fosse qualcosa di diverso in lei.
- Ricordo tutto, Hinedia.
Lo sguardo della serva del Creatore si corrucciò. – Cosa…? Non capisco.
- I miei ricordi perduti… li ho riavuti tutti – le spiegò Judith. – Ricordo anche quella notte. La notte in cui hai cercato di uccidermi, in cui mi hai provocato l’amnesia. Quella… cosa, quella persona che ti dominava quella notte… l’hai chiamata “Layla”, come ti avevo suggerito, giusto? – non vi era alcun tono d’accusa nella sua voce, e Hinedia non poteva crederci.
No. No, doveva trattarsi di un sogno.
Anche perché non era possibile che Judith fosse così tranquilla a riguardo, mentre lei tremava dalla testa ai piedi, e aveva solo voglia di piantarsi un paletto sul cuore, morendo dissanguata davanti a lei.
Ma Judith continuava a stringerle le mani con calore, le stesse mani che l’avevano spinta e quasi uccisa.
- Come… com’è possibile…? – esalò la serva del Creatore, con voce eterea e gli occhi lucidi, mentre fissava la rossa.
- Non ce l’ho con te, Hinedia. So che non eri tu. Dimmi chi era. Dimmi chi è quest’entità. Parlamene, amica mia, in modo che io possa aiutarti. È la stessa che ha ucciso Rolland, giusto?
Hinedia tappò la bocca di Judith in un istinto involontario, iniziando a piangere a dirotto.
- Non… non parlare di lei, ti prego… sono settimane che riesco a tenerla a bada, sono settimane che non riappare, grazie a Quaglia. Non nominarla… - sussurrò impaurita, tremando come una foglia.
Judith le carezzò le mani maternamente, rassicurandola. – Sono felice che non sia più riapparsa.
- Io non ti avrei mai fatto del male!
- Lo so, ne sono certa.
- Così come non avrei mai fatto del male a Blake, o a qualcuno dei suoi cari…
- So anche questo.
- Non voglio costringerti a portare per me un segreto e un peccato così grande…
Non meriti un tale peso, Judith. So che sei mia amica, ma è un peso che dovrei portare solo io…
Non voglio gravare su di te… - singhiozzò, continuando a piangere, non sapeva se più per la gioia o per la disperazione.
- Così macchierai il vestito – sibilò Judith, accennando un sorriso rassicurante, sorreggendola. – Se pensi sia un peso troppo grande da portare, ti sbagli. Ma se ciò ti fa sentire male… allora voglio rivelarti anche io un mio segreto, troppo grande da portare. Così saremo pari. Che ne dici? – domandò la rossa, e i suoi occhi lucidi rivelavano che il segreto che le stava per confessare fosse qualcosa di immenso.
Hinedia smise di piangere e la ascoltò, stringendole le mani a sua volta, pronta ad accogliere qualsiasi cosa le avrebbe detto.
- Questi gemelli che porto in grembo… sono figli del peccato peggiore di Bliaint.
Se i monaci lo scoprissero, mi brucerebbero al rogo prima di farli nascere.
I miei figli… sono i figli dell’uomo che stai per sposare, un servo del Creatore. Sono i figli di Van Naren - confessò, con voce tremante, ma determinata.
Hinedia raggelò.
Ora si spiegava tutto.
Ora conosceva anche il suo segreto.
Ora, entrambe conoscevano i reciproci segreti.
Erano legate, eternamente, inseparabili.
Hinedia le strinse le mani con forza, cercando di trasmetterle tutto l’affetto che nutriva per lei.
Era la sua unica amica, la sua più grande amica, la persona più cara che aveva.
Poi, una realizzazione improvvisa le invase la mente, facendola paralizzare e cambiare completamente espressione.
Judith se ne accorse. – Che c’è?
- Mi avevi detto di aver scoperto che Naren avesse violentato qualcuno, una certa notte di festeggiamenti…
Mi avevi detto di aver scoperto, grazie alla tua memoria frammentata e all’aiuto di Imogene… di averlo visto stuprare una donna, quella notte. Eri tu… non è vero?
Quell’uomo ha violentato te… e forse anche qualcun altro.
Questo vuol dire che… Naren ti ha ingravidata, senza il tuo consenso. Ti ha stuprata! - esclamò con orrore, adirata all’inverosimile con l’uomo che avrebbe sposato nel giro di poche settimane.
Quel verme con cui avrebbe passato la sua intera vita… aveva violentato la sua più cara amica. Si era macchiato di uno dei peccati più miserabili e turpi.
Sentiva che Layla si stava risvegliando in sé… la sentiva scalpitare, affamata di vendetta nei confronti di quel putrido violentatore, desiderosa di proteggere e difendere l’onore della sua amica.
Iniziò a tremare violentemente, mentre un tremendo mal di testa la colpiva, mentre cercava di combattere la parte nera della sua anima, che scalpitava per tornare in superficie.
Se fosse tornata… sapeva cosa fare:
Adsum martikhoras
Adsum martikhoras
Adsum martikhoras
Le bastava dire quelle due parole e sarebbe morta. Dinnanzi a Judith.
Era pronta a farlo.
- Che sta succedendo qui?? – quella voce sconvolta, la voce odiata da entrambe, fece il suo ingresso nella camera.
- Naren… cosa ci fai qui?? – esalò Judith, sconcertata di rivederlo.
- Sono venuto a trovare la mia promessa sposa… Judith? Tu cosa fai qui?? – domandò lui, allibito a sua volta. Poi catapultò lo sguardo sulla figura tremante e ansimante di Hinedia, la quale era stata sdraiata sul letto da Judith.
Non era il momento di pensare a loro due.
Ora, l’importante era far star meglio Hinedia.
- Non so cosa le stia accadendo – mentì Judith. Poteva ben immaginare cosa le stesse accadendo: era la stessa reazione che aveva avuto alla fine dello spettacolo teatrale, poco dopo aver spinto giù dal palco Edith e Gwen: probabilmente, Layla si stava risvegliando. Ma questo, quella serpe di Naren non doveva saperlo. – Dobbiamo andare a chiamare qualcuno, un medico o sua madre! – esclamò la rossa. - Ci penso io, vado subito a chiamare qualcuno. Tu resta con lei finché non torno – aggiunse catapultandosi verso la porta della stanza.
Ma non appena superò il corpo del suo vecchio amante, questo la afferrò per un braccio, in un istinto quasi animalesco. Naren la inchiodò con la schiena al muro e si prese il suo tempo per bearsi nuovamente dell’immagine di lei, tanto bramata, che gli aveva suscitato una mancanza morbosa.
Ora che la rivedeva… non riusciva a capire come avesse potuto fare a meno di lei per tutto quel tempo.
Il suo profumo, la sua pelle, i suoi occhi, i suoi capelli, le sue labbra…
Tutto di lei, era intossicante.
- Lasciami andare, Naren – gli intimò Judith, tentando di liberarsi dalla sua presa, inutilmente. Naren la rinforzò, incollandole i polsi alla parete.
- Lasciala andare! Non toccarla! – esclamò Hinedia dal letto, rabbiosa e al contempo impossibilitata persino ad alzarsi, dominata dalle convulsioni. Un primitivo istinto di protezione la spingeva a voler difendere l’amica, tanto da accecarla quasi.
Judith la guardò a distanza, preoccupata. – Così peggiorerai la situazione... lasciami andare, Naren.
- Lasciala!!
- Che cos’ha? – domandò il servo del Creatore, riferendosi alla sua sposa, ma continuando a guardare Judith.
- Ti ho già detto che non lo so. Se mi lasciassi andare, andrei a cercare aiuto.
- Tu l’hai violentata, ignobile maiale!! – quell’urlo di Hinedia fece impietrire Naren.
Egli ascoltava tutti i vaneggiamenti e le grida della sua promessa alle sue spalle, continuando a guardare e a tenere ferma Judith.
- Come fa a saperlo…? – esalò il ragazzo, balbettando. – Glielo hai detto tu, Judith…?
- Lasciami andare, Naren.
- Lo sai che se qualcun altro venisse a saperlo… se i monaci venissero a saperlo… saremmo tutti morti?? Lo sai??
- Lasciami andare!
- Toglile le mani di dosso!!
- Non abbiamo avuto modo di riparlare di ciò che è accaduto quella notte… - riprese il ragazzo, rafforzando la presa sui polsi dell’oggetto dei suoi desideri, la voce incrinata ora. – Quella notte ho commesso i peggiori peccati che un uomo possa commettere. E, la cosa tremenda… è che ricordo tutto. Eppure… per quanto ci provi, non riesco a pentirmene.
- Di cosa stai parlando, Naren? Spiegati! Cos’è accaduto??
- Entrambi, io e te, ci siamo macchiati di un orrendo peccato quella notte, che non riguarda solo il seme che ho piantato in te.
E non solo noi due… anche il tuo ragazzo. Anche Blake è colpevole quanto noi.
- Che cosa intendi?? Cosa c’entra Blake?!
- Ma sposando una donna pura come Hinedia… i miei peccati verranno perdonati dal Creatore.
- Non permetterò che tu faccia del male anche a lei, Naren! – esclamò la rossa divincolandosi finalmente dalla sua presa ferrea.
Di conseguenza, Naren raggiunse il giaciglio della sua promessa, inginocchiandosi di fianco a lei.
- Mia sposa…
- Vattene via, maledetto!! Non voglio più vederti!! Mi ripugni!! – esclamò Hinedia in risposta.
- Hinedia, io voglio sposarti.
Malgrado ciò che ho fatto… malgrado io ami ancora Judith, e probabilmente continuerò ad amarla… io amo anche te. Non possiamo annullare tutto ora. Non possiamo annullare un matrimonio solo per un peccato che ho commesso in passato. Oramai lo sanno tutti, che dobbiamo sposarci, la mia famiglia, la tua, i monaci, tutti. Non possiamo tirarci indietro… ti prego…
- Hinedia, non ascoltarlo! Non devi condannarti in questo modo, tu meriti molto di meglio!! - intervenne Judith, a distanza.
Poi, come per miracolo, le convulsioni cessarono, i dolori e i tremori svanirono dal corpo della serva del Creatore.
Aveva sconfitto Layla. Non per sempre. Tuttavia, l’aveva sconfitta quella volta. Aveva relegato la sua anima nera in qualche meandro remoto della sua mente, chissà dove, per una volta.
Ciò le bastava.
Non avrebbe pronunciato quelle due parole, avrebbe potuto continuare a vivere ancora per un po’. Avrebbe potuto trascorrere altro tempo in compagnia delle persone che amava. E anche di quelle che non amava, disgraziatamente.
Naren le stringeva la mano. La guardava implorante, patetico.
Ora che riusciva a riflettere razionalmente, Hinedia riconosceva la logica del ragionamento dell’uomo che odiava: oramai avevano fissato la data del matrimonio, avevano stabilito i loro voti dinnanzi ai due signori. Tutti sapevano, le loro famiglie, il villaggio, i monaci. Annullare tutto, a distanza di poche settimane dalle nozze, avrebbe significato attirarsi l’odio dei monaci, e forse anche dei due signori. Avrebbe significato scatenare un’apocalisse.
Questa era la sua punizione. La penitenza, per aver fatto del male a Judith, a Gwen, e, soprattutto, per aver ucciso il padre di Blake.
E lei l’avrebbe accettata a testa alta.
Inoltre, sposando lei Naren, avrebbe potuto proteggere molte altre ragazze da lui. In particolar modo Judith, la quale era oggetto delle ossessioni di quell’essere spregevole.
Fu proprio a Judith che andò il suo sguardo, a distanza.
La rossa la fissava dalla parete, con l’espressione per metà allarmata, per metà rincuorata.
Il viso scuro di Hinedia era rigato di lacrime secche, stravolto, bagnato di sudore, eppure colmo di una forza senza pari. - Ti sposerò, Naren – decretò, continuando tuttavia a guardare Judith, la quale era esterrefatta da tale dichiarazione.
Intanto Naren, contento e grato, iniziò a baciarle le mani.
Una furia spaventosa si impadronì di Judith.
Hinedia la notò.
La trovò spaventosa, più spaventosa di Layla, semplicemente per un motivo: quella furia era razionale, lucida.
Non c’era nessuna anima nera che si stava impadronendo illecitamente della volontà di Judith, no.
Era semplicemente Judith.
La furia repressa di una ragazza che aveva perso molto, che aveva sofferto indicibilmente, ma che era riuscita a mantenere sempre un’apparenza contenuta, composta, imperscrutabile.
L’anima bianca e l’anima nera insieme, in perfetto equilibrio, come lo erano in ogni essere umano.
Gli occhi neri come il carbone della serva del Diavolo erano tutti concentrati sulla figura di Naren, l’oggetto detestato da entrambe.
- Tu…
Non puoi costringere una donna a sottomettersi a te a tuo piacimento.
Noi siamo libere di scegliere… noi siamo libere.
E tu… tu sei solo un verme schifoso, che suscita repulsione, disgusto.
Non puoi condannarla a legarsi a te. Non puoi!!! – urlò Judith afferrando una sedia con tutta la forza che aveva, mossa solo dalla furia cieca che la animava, e colpendo Naren in testa, con una violenza aberrante.
Naren cadde a terra, svenuto, con la testa sanguinante.
Hinedia era sconvolta.
In lei non c’è Layla.
In lei non c’è Layla…
Allora, da dove proviene tutta questa ferocia, amica mia…?
Poteva comprendere quanto intensamente lo odiasse. Per averla violentata. Per averle rovinato la vita.
Eppure, una furia del genere non l’aveva mai vista in nessun altro.
Non era neanche sicura che qualcun altro, oltre lei, avesse mai assistito a quel lato di Judith.
Quest’ultima alzò di nuovo la sedia verso l’alto e colpì ancora il corpo inerme di Naren, urlando.
L’idea di lasciarla fare sfiorò appena la mente di Hinedia: se Naren fosse morto, sarebbero state libere. Entrambe. Non avrebbe più dovuto sposarlo.
Eppure, l’affetto che nutriva per Judith andava oltre tutto ciò.
- Judith, ferma – la bloccò, prima che la furia rossa potesse sferrare a Naren il terzo e probabilmente fatale colpo. – Judith! – si alzò in piedi e le prese il braccio, fermandola, attirando la sua attenzione su di sé. – Ferma, ti prego – la supplicò, fissandola in quegli occhi impossibili, iniettati di ira incontrollabile.
Quella ragazza era un uragano in eruzione, una scheggia impazzita.
- Non voglio che tu ne paghi le conseguenze… - le disse sinceramente. – Se lo uccidessi, ti maccheresti le mani di sangue.
- Le mie mani sono già macchiate, Hinedia.
- Ma non di un assassinio. Io so come ci si sente. E non vorrei mai che tu ti sentissi allo stesso modo.
- Invece sì, lo sono. Ho le mani macchiate dell’assassinio di decine e decine di innocenti, che ho contribuito a far bruciare al rogo, sotto le assurde accuse dei monaci – rispose la fanciulla, abbassando la sedia, riacquistando un briciolo di razionalità.
Aveva alzato quella sedia con una tale forza, che una gamba di legno le era rimasta tra le mani. Se ne accorse solo quando si ritrovò un mozzicone di legno, appuntito e spezzato, stretto tra le dita.
- Judith, non voglio che tu venga imprigionata, né uccisa. Non voglio che ti rovini la vita. È l’ultima cosa che vorrei. Piuttosto, preferirei macchiarmi io di un tale crimine. Ma… a cosa servirebbe, a questo punto? Venire giustiziata per la morte di Naren… No, non ne vale la pena. E se deve rimanere in vita, preferisco che sia legato a me, piuttosto che ad altre. È la mia punizione. La mia punizione per portare Layla dentro di me – concluse, sperando di averla convinta a non rovinarsi la vita.
Judith non disse nulla. Continuò a guardarla fissa, fin quando non rispose:
- Se è questo quello che vuoi… lo accetto.
Persino la sua voce non era ancora tornata normale.
Era roca, bassa, stridente.
Judith stessa non sapeva cosa stesse provando, nell’esattezza.
All’improvviso, l’odio che nutriva per Naren si riversò tutto verso il prodotto del suo seme maledetto: le sue iridi saettarono verso il proprio pancione, desiderando solamente strapparselo via.
Uccidere quelle creature nascenti, sangue del suo sangue, ma anche sangue del sangue di quella creatura maligna che giaceva svenuta a terra.
Doveva uccidere qualcuno. O Naren, o i gemelli.
Non voleva più averli dentro di sé.
Non li voleva.
Sono suoi. Sono di lui. Li odio.
Sono suoi. Sono di lui. Li odio.
Sono suoi. Sono di lui. Li odio.
Accecata dall’odio, diresse lo spuntone di legno appuntito che stringeva ancora in mano verso il proprio pancione, come se nulla fosse.
Puntò quel tozzo di legno verso la protuberanza tonda e piena di tre corpicini, come fosse un’arma.
“Litigherai ancora con loro e con te stessa, ti verranno altri cento ripensamenti.
Ti sentirai orribile e proverai il desiderio di ucciderli mentre sono ancora dentro.”
Hinedia non riuscì a credere ai suoi occhi.
L’aveva osservata fare quel gesto, in silenzio, nell’attesa di capire se stesse davvero per fare quello che temeva stesse per fare.
Chiunque le avrebbe dato della pazza.
Ma non lei. Non Hinedia. Hinedia non era nessuno per dare a qualcuno del pazzo.
Quando comprese che Judith lo avrebbe fatto davvero, nuovamente le afferrò il braccio, bloccandola.
Nel momento in cui si rese conto di ciò che stava per compiere, Judith lasciò cadere il tozzo di legno a terra.
Le due si guardarono, senza dire nulla, rivolgendosi semplicemente un caloroso sguardo complice, d’intesa, di solidarietà.
- Ci penso io a lui – le garantì Hinedia, riferendosi al corpo svenuto di Naren disteso a terra.
Dopo essersi assicurate di stare bene a vicenda, Judith si congedò dalla dimora dell’amica, avviandosi verso le cattedrali, carezzando il proprio pancione.
 
 
Blake scese le scale che lo avrebbero portato verso le segrete.
Sembravano secoli che non entrava in quel luogo putrido, maleodorante, ed effettivamente lo erano.
Fortunatamente, non ci era mai entrato da prigioniero.
Tenne alta la fiaccola, per farsi strada nel corridoio, superando le varie celle, la maggior parte vuote,
cercando una figura in particolare.
Già quel luogo era buio di per sé, in più era anche notte, perciò la fiaccola era d'obbligo.
L'idea che qualcuno fosse tenuto a vivere in condizioni tanto aberranti gli fece gelare il sangue.
Lui aveva trascorso solo una notte in una segreta, ed era stata la notte dopo la tortura, a Carbrey, la
notte prima della sua esecuzione.
Fortunatamente, a quella particolare ora della notte nessuno sorvegliava l’entrata delle segrete, perciò sarebbero potuti entrare anche dei semplici popolani, indisturbati.
Evidentemente, la prigioniera aveva sentito i suoi passi già a distanza, in quanto non fece neanche in tempo a trovare la cella, che udì una voce distante e ben riconoscibile, ma molto più arrochita rispetto a come la ricordava:
- Chi va là? Siete voi, padre Petrit?? Ora venite a tormentarmi con le vostre prediche maledette anche di notte?? Lasciatemi sola!
Blake perseguì per la sua strada, raggiungendo finalmente la cella in cui veniva tenuta prigioniera Beitris.
Alzò la fiaccola, in modo che potesse ben illuminare l’interno della cella: una pozza di liquidi corporei ristagnanti copriva quasi l’intera pavimentazione, le mura erano marce, umide, prive di finestre, e in mezzo a quel sudiciume giaceva, seduta a terra, la sua vecchia amante.
Beitris era quasi uno scheletro. Era sempre stata molto magra di costituzione, e in quel luogo poteva solo immaginare quanto fosse denutrita.
I suoi vestiti (se così si potevano chiamare) erano strappati, logori, indossati evidentemente da mesi, senza mai essere tolti o lavati.
Diverse piaghe da decubito coprivano la sua pelle, un tempo diafana.
I suoi bellissimi capelli neri erano diventati un cespuglio informe, un nido per uccelli ingarbugliato e sporco.
Gli dava le spalle, impegnata a far stridere le unghie lunghe sui mattoni.
- Vi ho detto di andarvene! – esclamò furiosa la giovane donna, voltandosi di scatto, restando a dir poco impietrita, sbiancata, alla vista di colui che si trovava al di là della cella.
- Ciao, Beitris – esordì Blake, sorridendole amareggiato e malinconico.
Non credendo ai propri occhi, la ragazza trovò la forza di alzarsi in piedi, a fatica, e si diresse verso le sbarre, avvicinandosi a lui.
Ora che la vedeva più da vicino, Blake riconobbe i suoi occhi inconfondibili: i due smeraldi che portava al posto delle iridi erano gli unici ad essere rimasti sempre gli stessi, in lei.
Quei due smeraldi si riempirono di lacrime mentre lo osservavano, bevendosi ogni dettaglio di lui.
- Non sei mai venuto a trovarmi… - fu la prima cosa che sussurrò la ragazza, aggrappandosi alle sbarre con le dita lunghe e scheletriche. – Ti ho aspettato… ho sperato che venissi…
- Mi dispiace.
- Non importa. Sei qui ora. Ti sto guardando. Dopo tutto questo tempo… - sibilò, allungando una mano oltre le sbarre, ma fermandosi prima di sfiorarlo. – Ma è una tortura non poterti toccare…
Blake le accennò un altro sorriso, questa volta furbo, mostrandole un mazzo di chiavi che teneva tra le mani.
- Come diavolo hai fatto a prenderle…? – le domandò lei meravigliata.
- Judith me le ha fatte avere, raccomandandosi di riportarle prima dell’alba, altrimenti i monaci se ne accorgeranno – le spiegò, infilando la chiave nella toppa. Girò quattro volte, aprì la porta della cella, entrò dentro e se la richiuse alle spalle. Il ragazzo appoggiò la schiena alle sbarre, guardandola. - Potrei farti scappare via di qui, se lo volessi. Ci ho pensato. Più di una volta, mentre venivo qui.
- Se lo facessi, tradiresti la fiducia della tua donna.
- Ma tu saresti libera.
- Anche Ephram si è offerto di liberarmi, un giorno – gli disse lei, continuando a guardarlo.
Era come se non fosse ancora convinta che lui fosse lì davanti a lei.
Le sembrava solamente un sogno, un’allucinazione in cui lei parlava da sola, come molte altre. In quel luogo o parlavi da sola o non parlavi affatto.
- Dove potrei mai andare, ridotta così…? Decrepita, una morta vivente, rinnegata da tutti, anche dal suo Signore. No, oramai mi sono rassegnata – gli disse, avvicinandosi a lui. Allungò una mano e gliela posò sulla guancia. – Dimmi che sei davvero qui, Blake.
- Sono davvero qui: puoi toccarmi, non vedi? – le rispose lui, rassicurante.
- Già. Sei qui.
Dimmi… cosa è accaduto là fuori, qualche giorno fa? Ho sentito tua madre urlare al popolo, ma non sono riuscita a capire bene cosa dicesse.
Poi sono iniziati degli scavi… non so cosa stia accadendo, nessuno mi dice nulla, ma sembra una cosa grossa.
Blake posò la fiaccola dentro una delle rientranze create appositamente. - È complicato da spiegare. Complicato e molto lungo – le rispose, camminando lungo la cella. – Tutto ciò che devi sapere, è che i monaci del passato, a partire da Allister Chaim, erano tutti dei luridi e perversi maniaci, molto peggio di padre Ilian. Hanno imprigionato e torturato i bambini per secoli, strappandoli alle loro famiglie con l’inganno. Li abbiamo chiamati “Bambini sciagurati”. I rumori che hai udito sono gli scavi per disseppellire tutte le cripte in cui erano tenuti prigionieri i bambini, per farne dei luoghi di culto e di preghiera – riassunse il tutto.
Beitris rimase muta per un po’.
Poi parlò, la sua voce era rotta, dalla rabbia e dal pianto: - Ricordi le tre sorelle di mia nonna? Quelle di cui ti avevo parlato?
- Quelle nate morte?
- Sì. Se quello che dici è vero… - continuò lei, gli occhi colmi di lacrime amare. – … non sono nate morte. Vuol dire che anche loro facevano parte dei Bambini sciagurati…! – esclamò, sfogandosi in un liberatorio pianto, che conteneva tutta la rabbia, la tristezza e la frustrazione che una donna potesse portare in sé.
Senza pensarci due volte, Blake la abbracciò, stringendola a sé, e per la ragazza fu come sprofondare dentro un aldilà così bello, rassicurante e intossicante, da assuefarsene completamente. Lo strinse a sé a sua volta, affondando le dita nelle sue scapole e il volto nel suo petto, desiderando solamente restare tra le sue braccia per l’intera nottata.
Dire che le era mancato, sarebbe stato a dir poco riduttivo.
Avevano trascorso talmente tante notti insieme, tre anni prima, abbracciati l’una all’altro, attorcigliati e aggrovigliati tra loro, con i corpi caldi e nudi a contatto, fusi in un tutt’uno, i nasi affondati nei capelli, le bocche e le lingue che si cercavano costantemente, mai sazie, le mani che vagavano senza sosta, ovunque riuscissero ad arrivare, per non perdersi nulla, per non farsi mancare nulla. Era quasi una dipendenza.
Era suo, in una maniera talmente totalizzante, da averla quasi spaventata. E anche lui doveva essersi spaventato dal tipo di rapporto che avevano instaurato. Per tale motivo, a poco a poco, si era allontanato da lei, sfuggendole dalle dita.
Era tutto troppo bello per essere vero, e non andava bene, perché a Bliaint, tutto ciò che era bello durava sempre troppo poco.
Ma sentire il suo odore e la consistenza della sua carne sotto le dita ora, l’aveva riportava a quei momenti idilliaci.
Pianse, pianse ancora, per le sorelle di sua nonna, per tutti quei bambini, per Maroine e Maringlen dispersi chissà dove, per tutto il male che avevano fatto i monaci.
- Mi dispiace … - ripeté il ragazzo stringendola ancora, la voce rotta e instabile a sua volta, ma incapace di piangere, come lo era sempre.
- Morirò anche io… per mano di quei mostri… quanto ancora ci dovranno togliere?? Quanto?! Quando finirà questo regime di oppressione?? Con quella ribellione volevo solo cambiare le cose… volevo solo liberarci… e invece ho fallito. Ho fallito in tutto quanto!
Blake continuò a consolarla e a cullarla.
E tutta quella premura, tutto quel dolore maltrattenuto, tutte quelle emozioni affollate insieme, le fecero venire voglia di confessare tutto quello che poteva confessare, di tirarsi fuori ogni cosa:
- La notte delle celebrazioni, a quel matrimonio, mesi fa… - sussurrò, riprendendosi dal pianto e allontanando il volto dal suo petto, per guardarlo negli occhi. – Quando vi è stato lo scambio di corpi, la ricordi…?
Blake sciolse l’abbraccio e fece mente locale. – Non ricordo nulla di quella notte. Nessuno ricorda nulla – le rispose confuso.
- Io qualcosa lo ricordo…
- Davvero?
- Noi due ci siamo svegliati nudi, uno sopra l’altra, coperti di sangue, ricordi?
- Questo lo ricordo, sì – confermò lui. – Perché me lo stai dicendo, ora?
- Perché è successo qualcosa quella notte, Blake… qualcosa che vorrei poter ricordare distintamente… non è stata un’orgia come tutte le altre, no…
- Che cosa intendi, Beitris?
- Tutto ciò che so… è che mi sono scambiata di corpo con padre Craig quella notte – gli confessò, valutando la sua reazione.
Blake era a dir poco sbigottito da tale informazione. – Non può essere… sei sicura?
- Dico davvero… lui era nel mio corpo. Io nel suo. E non è tutto. Abbiamo giaciuto insieme, l’uno con l’altra, io e il prete. Ed è come se avessimo giaciuto con noi stessi, davanti ad uno specchio, capisci? Qualcosa di strano, torbido… ma non è questo che mi turba. Sia io che padre Craig abbiamo già metabolizzato quello che è avvenuto tra noi.  
- Lui lo sa, quindi…?
- Sì. È venuto da me, molto volte, per scoprire cosa gli fosse accaduto.
- Ecco perché i giorni dopo la celebrazione era così ossessionato da quella storia. Non ne avevo idea… - Blake era ancora stupito, spaesato, da tale confessione. Infondo, padre Craig era molto attaccato al suo credo, alla sua religione, al suo voto di castità. Non doveva esser stato facile per lui, venire a sapere di aver fatto una cosa simile mentre non era in sé, pensò il ragazzo.
- Questa non è la cosa che mi preoccupa, Blake… - insistette la ragazza, agitata, guardandolo.
- Cosa ti preoccupa, allora?
- Ciò che mi preoccupa è cosa abbiate fatto tu e Judith, quella notte.
- Io e Judith…? Ti sbagli, Beitris, quella notte Judith si è ritrovata in una zona del tutto diversa rispetto a dove eravamo noi. Inoltre, io e lei a malapena ci conoscevamo.
- Io so solo che ho ricordi sfocati, troppo confusi, ma che ho un bruttissimo presentimento a riguardo.
- Naren l’ha violentata quella notte, ingravidandola. Io non c’entro niente con questo.
- Siete coinvolti tutti e tre in ciò che vi è accaduto… siete colpevoli e vittime allo stesso modo, tu e Judith. Blake, io so solo che, fin quando non scoprirete ciò che avete fatto quella notte, non vi sarà mai l’armonia tra di voi.
- Virve, mi stai spaventando.
- Non è mia intenzione, ma voglio solo metterti in guardia – gli sussurrò, prendendogli il viso tra le mani e guardandolo dritto negli occhi. – Siamo tutti marci, Blake. Tutti. Dal primo all’ultimo.
Blake restò a guardarla e lasciò che lei facesse tutto ciò che volesse.
D’altronde, era l’ultima notte che avrebbero trascorso insieme.
- Sai… - disse lei. – Tutti quelli che vengono a trovarmi, qui, mi portano sempre qualcosa, per tenermi buona.
Solitamente si tratta di cibo, dato che è ciò che mi manca di più qui dentro.
Ma tu no. Tu sei venuto a mani vuote.
Tu non hai bisogno di tenermi buona, Blake. Non ne hai mai avuto bisogno – gli sussurrò, circondandogli i fianchi con le mani e stringendolo di nuovo a sé. – Non sono stupida, Even. Non sei venuto a trovarmi per mesi… se sei venuto oggi, ci dev’essere un motivo importante, non è vero? Sto per morire…? Dimmi la verità.
Blake si sorprese della tranquillità con cui lo disse.
Si lasciò stringere, accarezzandole la schiena mentre guardava un punto fisso nel vuoto. - Sì. Stai per morire.
- Sei venuto a darmi l’ultimo saluto.
Gentile da parte tua.
- Beitris… io e Judith abbiamo creato un marchingegno con la polvere nera. Un’arma mortale, che vorremmo venisse usata nelle esecuzioni, al posto del rogo.
Dovrebbe essere una morte veloce e indolore.
- “Dovrebbe”? – domandò lei, distaccandosi e guardandolo negli occhi.
- Tu sarai la prima con cui lo useremo.
Non posso garantirti andrà tutto bene, ma lo spero. Con tutto il mio cuore.
- Dunque, è vero… sei qui perché morirò a breve… - realizzò concretamente lei. – Ho trascorso talmente tanto tempo qua dentro, da autoconvincermi che non mi avrebbero mai uccisa… con quei riti di purificazione, pensavo avessero cambiato idea.
Dovrei essere felice di morire, invece di condurre una vita simile.
Tuttavia… ora che mi stai sbattendo la realtà dei fatti davanti agli occhi… ho tanta paura. Ho tanta paura, Blake.
- Non averne – la rassicurò lui, accennandole ancora un sorriso, un sorriso che veicolava tutta la compassione del mondo e che la spinse a piangere ancora.
Le lacrime riiniziarono a rigarle le guance scavate, mentre lo guardava. – Morirò… e non so neanche se il Diavolo mi accoglierà tra le sue braccia…
- Lo farà.
- Ci credi davvero…?
- Beitris, andrà tutto bene. Non morirai al rogo, non morirai tra atroci sofferenze.
- Una magra consolazione.
Mi ricorderai, Blake?
- Certo che ti ricorderò.
Sarai sempre con me.
- Promettimi che sarai presente anche tu all’esecuzione…
Ti prego, Blake, promettimelo. Ne ho bisogno… - lo supplicò tra le lacrime, stringendogli i polsi.
- Te lo premetto.
- Ho bisogno di averti lì…
- Te lo giuro, sarò lì – le garantì, baciandole la fronte e ascoltando il suo pianto.
- Non andare via. Non lasciarmi sola ora…
- Devo andare… sarò lì, hai la mia parola.
- Quando avverrà?
- Tra qualche giorno.
E dopo essersi detti addio, il ragazzo uscì dalla cella, riprendendo la strada di casa con un macigno nel cuore.
 
 
 
 
 
 
   
 
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