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Autore: andromedashepard    09/11/2022    0 recensioni
"Quella notte, nel suo spoglio appartamento di Nos Astra, rivolse una preghiera silenziosa a Kalahira, supplicando che la sua malattia lo spegnesse nel più breve tempo possibile. Fino ad allora avrebbe vissuto per rendere la galassia un posto migliore, nell’illusione di poter fare ammenda."
Uno spaccato del tragico passato di Thane e di ciò che lo ha spinto ad abbandonare la sua famiglia.
Genere: Dark, Drammatico, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Thane Krios
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Era un tardo pomeriggio della primavera del 2171 quando sulla regione di Immdawal si abbatté una delle tempeste più violente degli ultimi mesi. Le onde dell’Omni Comprensivo assalivano con furia gli indistruttibili rivestimenti degli ecosistemi che emergevano dall'acqua, come fossero enormi scogli dalla forma innaturalmente arrotondata. L'acqua picchiettava forte su ogni vetro che si affacciava sul mare, coprendo totalmente la vista dell’orizzonte ai passanti. Il rumore, uno scrosciare feroce e ripetitivo, era attutito solo da un efficace sistema di simulazione ambientale che isolava tutte le abitazioni dall'esterno.
Chiunque fosse stato su Kahje, si era sempre meravigliato davanti ad un simile esempio di architettura, il prodotto perfetto nato dall’unione delle menti più brillanti di due specie diametralmente diverse. All'interno degli ecosistemi era facile restare ingannati di trovarsi in una vera e propria città a cielo aperto, ed era quasi più naturale credere di stare osservando una registrazione artificiale davanti ai grandi oblò che si aprivano come squarci sull'Oceano a distanza di qualche metro l’uno dall’altro. A dispetto della proverbiale ostilità del pianeta per tutte le creature non prettamente acquatiche, il turismo su Kahje si era moltiplicato da quando, oltre un secolo prima, i loro abitanti si erano offerti di ospitare i Drell, ormai prossimi all’estinzione. Quello che ai più sembrava un atto di carità, si sarebbe rivelato invece un'abile manovra diplomatica, tanto da aver portato la civiltà Hanar ad espandere il proprio dominio su altre colonie, potendo contare sull'aiuto e sulla gratitudine dei loro beneficiari che arrivavano laddove loro erano impossibilitati per via della loro biologia.
Se il rumore della tempesta non fosse stato altro che un pacato brusio, nessuno avrebbe percepito i due colpi d’arma da fuoco che si susseguirono a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro, in una delle zone più tranquille e isolate del distretto di Kirsi. Il vociferare sommesso della gente che poco prima stava passeggiando indisturbata si interruppe improvvisamente per ricominciare subito dopo con maggiore veemenza. Un gruppo di gente si riversò davanti ad un’ abitazione di medie dimensioni, uguale in tutto alle altre che popolavano il distretto, tentando di capire cosa fosse successo attraverso l’unica finestra che si affacciava sulla strada. Qualcuno giurò di aver visto due individui incappucciati fuggire dal retro, ma nessuno si preoccupò di indagare ulteriormente, paralizzato dallo stupore. Il pianto di un bambino si fece lentamente strada attraverso i muri spessi dell’abitazione, iniziando come un lamento sommesso che sfociò poi in ripetuti singhiozzi, intervallati solo dalla parola madre, pronunciata con un tale carico di disperazione da frantumare il cuore a chiunque l’avesse udito.


E mentre su Immdawal la pioggia incessante si mescolava alle lacrime di chi, quel giorno, aveva perso qualcuno di insostituibile, ad anni luce di distanza un assassino riponeva una Predator nella sua fondina, dopo aver portato a termine l’ennesimo lavoro. Una preghiera silenziosa scivolò sulle sue labbra, mentre si apprestava a lasciare l’appartamento con la stessa tranquillità con la quale era giunto appena sette minuti prima. Quando arrivò nella camera d’albergo che lo avrebbe ospitato quella notte, si concesse qualche istante per osservare l’orizzonte al di là dell’enorme vetrata che correva lungo tutto il perimetro della stanza. I grattacieli s’innalzavano imponenti, riflettendo le luci dei cartelloni pubblicitari che facevano da sfondo ad un continuo andirivieni di astroauto e mezzi pesanti. Decise di oscurare i vetri, infastidito dai riverberi luminosi che creavano sui muri ombre tremolanti.
Si gettò stancamente sul letto ed esalò un lungo sospiro, aspettando come ogni volta di sentire quel leggero fastidio a livello della gola che gli avrebbe preannunciato uno degli episodi che lui odiava. Stavolta, però, non sentì nulla. Agganciò il factotum al polso e lo attivò con un rapido gesto della mano, dopo aver digitato il suo codice personale. Si accertò di essere collegato ad una linea protetta e poi aprì la schermata di posta, facendo per digitare un messaggio. Le avrebbe scritto che sarebbe arrivato l’indomani a cena, salvo imprevisti. Sapeva che lei non avrebbe risposto: aveva smesso di farlo da mesi, ma ciò non lo scoraggiò neanche stavolta. Era giusto in procinto di inoltrare il messaggio, quando lo schermo del factotum iniziò a lampeggiare indicando una chiamata in arrivo. Conosceva quel numero, benché non l’avesse salvato in rubrica. Poteva esserci solo una ragione per quella telefonata. Con un groppo alla gola, si costrinse a rispondere.


Era distesa su un lettino d’ospedale bianco, immacolato. Il medico di fronte a lui gli offrì un’occhiata carica di compassione, prima di avvicinarsi e abbassare il lembo del lenzuolo che la copriva interamente. Avrebbe ricordato quel momento per sempre e non c’era un modo migliore per affrontarlo. Fece un passo, poi un altro, finchè lei non fu tanto vicina da poterla toccare. Le avevano chiuso gli occhi, quei bellissimi occhi color ambra, occhi che mai più avrebbe rivisto. Un lembo di stoffa blu scuro le avvolgeva il capo, impedendogli di vedere il foro di proiettile che l’aveva colpita sulla fronte. Non riuscì a piangere, neppure quando cercò la mano di lei con la sua e si accorse di quanto fosse fredda. Irikah non era mai stata fredda. Neanche sotto la pioggia, neanche durante l’inverno più rigido. Lei era così, il calore che irradiava la sua anima riscaldava tutti anche da fuori, come se la sua sola presenza avesse il potere di richiamare il sole fra le nubi.
“Può confermarmi che si tratta di sua moglie, sere?” Il medico lo strappò a forza da uno dei suoi ricordi, costringendolo ad annuire debolmente. Quanto avrebbe voluto rispondere di no, quanto avrebbe voluto che lei fosse un’altra donna.
“Le lascio cinque minuti da solo con lei”.
“Non è necessario”. Le parole, asettiche, precedettero i pensieri. L’attimo dopo era già fuori dalla stanza.


La pioggia batteva incessante sull’oceano di Kahje mentre una melodia malinconica e ovattata si sollevava al di sotto delle onde. Sotto lo specchio d’acqua, appena visibili, c’erano una decina di Hanar intenti nella composizione del motivo funebre, i loro manti colorati pulsavano a ritmo lento sotto le gocce d’acqua. A qualche metro di distanza, un bambino cercava con una mano quella del padre. La trovò qualche istante dopo, finalmente, e la strinse con vigore.
“Voglio la mamma” mormorò. Thane non lo sentì. Lo sguardo rivolto all’orizzonte, incapace di concentrarsi sul momento che stava vivendo. Davanti agli occhi aveva solo il sorriso di Irikah, vivo e luminoso come non mai. Sentì chiaramente la sua risata cristallina, la sua voce dolce e familiare. Poi rinvenì, sentendosi strattonare con insistenza da una mano. Chiuse gli occhi, li riaprì, tornando alla realtà. Si voltò verso Kolyat, trovandolo attaccato alla sua giacca con entrambe le mani, stavolta. “Papà, papà ascoltami!” lo pregò il piccolo, sull’orlo delle lacrime.
“Dimmi Kolyat” rispose Thane, sollevandolo da terra per prenderlo in braccio.
“Quando tornerà mamma?” esclamò il piccolo Drell.
“Mamma non c’è più.”
Kolyat si imbronciò e aggrottò gli archi sopraccigliari, iniziando a battere i piccoli pugni sul petto del padre con maggiore insistenza. “Voglio la mamma!” insistette nuovamente, alzando ulteriormente la voce e attirandosi lo sguardo di coloro che erano lì per presenziare al rito. Thane non ebbe il coraggio di rimproverarlo. Lo strinse maggiormente a sé, cercando di calmarlo. La verità è che non sapeva cosa rispondere, immerso profondamente nello stesso, inspiegabile dolore.
Poco dopo suo cognato lo affiancò, poggiandogli una mano su una spalla.“Sta arrivando” disse, e Thane capì che di lì a poco avrebbe rivisto il corpo di sua moglie per l’ultima volta.


Thane non riuscì a tornare a casa. Quella non era più casa, ora che Irikah non c'era più. Aveva accolto con piacere l’invito degli zii di Kolyat a prendersi cura di suo figlio per i giorni a venire, lasciandogli così il tempo di affrontare il lutto. Era cosa molto comune per un Drell prendersi il tempo necessario per elaborare una perdita, soprattutto se così importante. Nelle famiglie più tradizionali e numerose era usanza comune riunirsi per un periodo che variava da un paio di giorni ad una settimana per ricordare il defunto e sostenersi a vicenda. Thane aveva rifiutato ogni invito da parte di parenti di Irikah, che in ogni caso già da anni l’avevano bollato come strano, poco incline al rispetto delle tradizioni e con un occhio di riguardo troppo pronunciato nei confronti della Primazia. Quella sera ad accoglierlo fu una squallida stanza di motel il cui unico collegamento con l'esterno consisteva in un oblò che dava direttamente sull'Oceano. Si distese sul letto, inspirando con disgusto l'odore sintetico delle lenzuola ed attivò il suo factotum. Passò le ore successive cercando di rintracciare alcuni dei suoi contatti più fidati. Alla fine, riuscì ad ottenere un nome. Tirò finalmente un sospiro di sollievo, mettendosi a sedere mentre chiudeva bruscamente l'interfaccia olografica. Un pensiero si fece strada nella sua mente, un pensiero che lo portò a lasciare quella camera, in cerca di qualcosa in grado di alleviare il dolore che lo stava divorando dall'interno. Sapeva che niente avrebbe potuto ridargli indietro gli occhi color tramonto dei quali si era innamorato tanti anni prima, ma non si sarebbe fermato finché non avrebbe trovato i responsabili di quel gesto e fatto giustizia nell’unico modo che conosceva. Animato da una rabbia cieca e una sete di vendetta senza pari, giurò a se stesso che non avrebbe riposato finché non li avrebbe uccisi tutti, ad uno ad uno e ad ogni costo.


Erano passati quattro anni dall’ultima volta che Thane Krios aveva visto suo figlio. Durante questo lasso di tempo così lungo, il bambino aveva cambiato scuola tre volte a causa degli atteggiamenti aggressivi che continuava a dimostrare in classe e, come diretta conseguenza, la sua media era passata da eccellente a insufficiente. Gli zii avevano provato qualunque cosa: lezioni private a pagamento, gruppi di studio con i suoi coetanei, medici dello sviluppo e della psiche, percorsi di riabilitazione mnemonica. Purtroppo i loro sforzi non erano valsi a nulla. Kolyat era ancora un bambino gravemente traumatizzato che passava le notti con gli occhi sbarrati a fissare il soffitto e rivivere incessantemente la scena dell’omicidio di sua madre. Lo stress che assorbiva ogni notte, veniva sfogato poi nell’ambiente scolastico, dove a volte bastava persino uno sguardo per farlo esplodere contro compagni e insegnanti. I pomeriggi, invece, li passava sonnecchiando o guardando olovideo al factotum, avendo completamente azzerato il dialogo con gli zii e con i cugini, limitandosi a mugugnare le risposte solo quando non riusciva proprio ad evitare le loro domande. Thane si presentò a casa del cognato la sera del 19 Giugno 2175, il giorno del decimo compleanno di Kolyat. Per affrontare il viaggio aveva dovuto fare carte false. Dopo gli eventi che lo avevano riguardato nei quattro anni precedenti, la taglia che pendeva sulla sua testa pesava un macigno. Eppure stavolta decise di rischiare perché erano già troppe le telefonate e i messaggi carichi di preoccupazione che aveva ignorato. Quando fece il suo ingresso nella cucina della modesta casa di Eirinkha e Beric, con l’impermeabile ancora bagnato di pioggia e gli stivali inzuppati, si attirò lo sguardo carico di disapprovazione dell’intera famiglia, meno suo figlio.
Accettò l’invito di sua cognata a disfarsi degli stivali e del soprabito, poi domandò dove potesse trovare Kolyat, saltando i convenevoli a piè pari.
“In camera sua, come sempre” fu la risposta secca che ricevette da suo nipote, il figlio maggiore di Beric.
Thane si incamminò verso quella direzione. Conosceva bene la casa, da giovani lui e Irikah avevano passato tanti bei momenti insieme al fratello di lei e alla sua compagna. Avevano visto nascere i loro due bambini, avevano fatto loro da testimoni alla sacra unione, erano stati una famiglia affiatata in tutto e per tutto finché Thane non aveva iniziato a perdere pezzi di sé e, inevitabilemente, allontanarsi da tutti.


“Kolyat” pronunciò Thane, scorgendo la figura di suo figlio sotto le coperte del letto sospeso dove dormiva. Il piccolo Drell si ridestò, per poi nascondersi ancora più in profondità sotto al piumone. “Kolyat, sono papà.”
La voce di suo figlio arrivò alle sue orecchie come una sferzata di vento gelido. “Vattene.”
“Ti prego, non cacciarmi. Mi dispiace. Voglio spiegare.”
“Ho detto vattene.”
Thane non aveva intenzione di arrendersi. Si avvicinò al letto e fece per alzare un lembo del piumone, per costringere suo figlio a guardarlo in faccia mentre gli chiedeva perdono. Non si sarebbe mai aspettato che quel gesto scatenasse in lui una furia talmente estrema da dover ricorrere ad una iniezione di sedativo per calmarlo, qualcosa che il suo mestiere gli aveva insegnato a tenere sempre con sé. Si passò una mano sulla bocca, constatando di avere un labbro spaccato. Cercò un fazzoletto per tamponare la ferita mentre ansimava. Lo scontro era stato tanto inaspettato quanto violento. Thane si era limitato a subire i colpi, finché non si era reso conto che Kolyat stava facendosi male a sua volta per la foga con la quale continuava a colpirlo alla cieca. Adesso giaceva supino sul suo letto, il petto si gonfiava e si sgonfiava con lentezza ritrovata. Thane si passò una mano sul capo, sbalordito da quella reazione. Eppure, durante questi quattro anni, lui aveva sempre cercato di non fargli mancare nulla. La somma di denaro che inviava agli zii mensilmente era sufficiente per mantenere un’intera ulteriore famiglia senza doversi fare neppure i conti in tasca. Era sicuro che Kolyat avesse accesso a tutto ciò che potesse desiderare, alle scuole più prestigiose, ai giocattoli più costosi, ai vestiti più in voga. Eppure quello che aveva trovato era un bambino che di bambino non aveva più niente.


Quando Thane tornò in cucina per cercare del ghiaccio, incontrò lo sguardo scettico di Eirinkha. “Le abbiamo provate tutte” disse lei a bassavoce, nell’atto di passargli una busta di ghiaccio artificiale appena estratto dal freezer. “Due settimane fa ha mandato un ragazzino in ospedale. I genitori non hanno sporto denuncia solo grazie al tuo lauto bonifico.”
Thane scosse il capo, premendo delicatamente il ghiaccio sul suo labbro inferiore. “Quel percorso psicologico che stava affrontando…?”
“Si rifiuta di parlare con la dottoressa. Dopo la dodicesima seduta in completo silenzio, persino lei ci ha consigliato di rivolgerci a qualcun altro.”
“Sono passati quattro anni… Pensavo che per un bambino fosse… Non lo so…”
“Fosse cosa?” Eirinkha appoggiò sul lavandino lo straccio che aveva in mano, sentendo la pazienza venirle meno. “Kolyat non ha perso solo sua madre, ha perso anche suo padre! E cosa ancora peggiore, se per mia cognata riesce a farsene una ragione, perché – ti ricordo – era presente quando l’hanno assassinata, della tua assenza percepisce solo un rifiuto incomprensibile!” Gli occhi violacei di Eirinkha si erano colmati di lacrime, lacrime dettate da una rabbia cieca che faceva riflesso a quella di suo nipote.
Thane restò in silenzio per un lasso di tempo che sembrò un’eternità. Poi si decise a parlare con voce rotta. “Cosa posso fare?”
“Sparisci. Tornatene di nuovo da dove sei tornato. Vai via se non riesci a stare vicino a tuo figlio per più di quattro giorni contati,” la giovane Drell si asciugò una lacrima con una mano, le labbra che tremavano con nervosismo. “Non pensare che non sappia che la morte di Irikah è stata solo per colpa tua. Erano mesi che si confidava con me, mesi che preannunciava una tragedia. Certo, non pensava che a lasciarci le penne sarebbe stata lei. Passava ogni notte aspettando una telefonata della polizia che la avvertisse che suo marito era morto. So io quante volte ho dovuto calmarla mentre era in preda al panico, sicura di averti perso quando tu non le rispondevi per un giorno intero.”
Thane si limitò a fissare il pavimento, pietrificato dalla durezza di quelle parole.
“Non credere di aver abbandonato tuo figlio quattro anni fa, Krios. Hai abbandonato la tua famiglia molto prima, solo che Irikah era troppo buona per metterti con le spalle al muro, troppo ingenua per darti un ultimatum. Kolyat un padre non ce l’ha mai avuto, quindi perché presentarti qui, oggi? Per ricordargli ancora una volta quanto la tua presenza sia effimera nella sua vita?”


Eirinkha aveva ragione. Suo figlio aveva ragione. Thane pagò la corsa del taxi e si avviò a passo svelto verso la banchina 16 dello spazio porto di Cnidaria City, dove avrebbe preso un volo diretto per Illium, tappa intermedia prima di dirigersi ad Omega, ormai divenuta la sua seconda casa. Era più facile restare solo un volto senza nome su quell’asteroide senz’anima, quando si avevano i crediti necessari per scomparire senza lasciare traccia. Quello spostamento, adesso, era dovuto al fatto di essere rimasto completamente al verde, dopo aver depositato tutti i suoi averi sul conto personale di Kolyat e dei suoi zii. Aveva commesso l’errore più grande della sua vita e non c’era niente che potesse fare per porre rimedio a questa catastrofe. L’unica cosa che gli restava da fare era continuare a svolgere il suo lavoro, accumulando crediti su crediti per assicurare a suo figlio e alla famiglia di Irikah un futuro, almeno economicamente, sereno. La diagnosi della Kepral pendeva sul suo capo come una sentenza, e si rese conto adesso, per la prima volta, come quella malattia l’avesse ucciso molto prima di togliergli l’ultima boccata d’aria. Sette anni prima, nero su bianco, ricevette la conferma che anche lui portava il fardello della sua specie. Dovettero passare otto mesi prima che trovasse il coraggio di comunicarlo a Irikah. Il bellissimo viso di sua moglie, dorato e luminoso, si era spento a quella notizia per non riaccendersi mai più. E non perché si fosse lasciata andare al sentimento di paura e rabbia che si prova nello scoprire che il proprio amato è affetto da una malattia incurabile, ma perché Thane smise di essere suo marito proprio dopo quella confessione. Allontanarsi dalla sua famiglia fu per lui un meccanismo di difesa inconscio ed inevitabile. Non vederli mai e sentirli di rado, a lungo andare avrebbe fatto in modo che la rottura fosse graduale ma completa, così che la sua morte li avrebbe toccati solo da lontano, una volta sopraggiunta. Ma amava Irikah, e amava Kolyat, e la distanza non diventava mai tale da permettere al sentimento di scomparire totalmente. E più si riprometteva di stare loro lontano, più veniva richiamato dalla voglia di vederli ancora. Irikah, dal canto suo, non riusciva a lasciarlo, nonostante il loro rapporto si basasse ormai sul mantenimento che lui le inviava e quelle due volte al mese che si degnava di dormirle a fianco. Ma erano proprio quegli sporadici incontri che la tenevano ancorata a lui. Era vedere negli occhi di suo figlio la gioia nell’abbracciare il padre, quando lui tornava dopo due settimane di assenza. Era l’averlo accanto a se, nel loro letto, riscoprirne l’odore familiare, perdersi nei suoi occhi… Per un attimo, anche lei riusciva a pretendere che sarebbe durato. Finchè non sentiva il factotum di lui vibrare e sapeva che l’avrebbe perso di nuovo.


Lo spazio fuori dall’oblò che stava alla sua sinistra era nero e privo di stelle, sporcato solo dal bagliore blu dell’elemento zero che confluiva ai lati della nave. Era la prima volta che viaggiava in terza classe, da quando aveva memoria. Il chiacchiericcio dei passeggeri lo teneva lontano dai ricordi, infastidendolo al tempo stesso. Si concentrò su quello che provava, cercando di mantere la distanza tutto il resto. C’era solo il vuoto. Un vuoto che si era portato dietro anche tutto il suo dolore, come se al posto del cuore, nel suo petto, ci fosse ora solo un enorme buco nero, capace di assorbire qualunque cosa e risputarne fuori soltanto il ricordo sbiadito. Ripensò a quando era partito per dare la caccia agli assassini di Irikah, a quello che aveva rischiato per scovarli e a quello che aveva provato nell’ucciderli ad uno ad uno. Era la prima volta che temporeggiava nell’esecuzione di un omicidio. Aveva imparato ad essere efficiente, preciso, pulito. Con loro era stato impietoso, brutale e crudele. Dovette arrivare a farsi pregare di farli fuori da ognuno di loro, prima di infliggere la ferita mortale. Per alcuni fu solo questione di minuti, per altri, meno deboli, la tortura durò delle ore. Infine, per il capo banda, nonché il mandante dell’assassinio, l’uccisione arrivò dopo cinque giorni di agonia. In quei giorni, oltre ad infliggere ferite e rotture ossee appositamente non mortali, Thane si fece ripetere di continuo il racconto dell’esecuzione finché alla fine non ebbe un quadro preciso e definitivo di quello che era successo. Non poteva sopportare che suo figlio potesse essere l’unico a portare con sé quel ricordo, perciò ne creò uno anche lui, da poter rivivere ogni qual volta sentisse di meritarlo. Adesso sapeva delle urla strazianti di Irikah, sapeva delle preghiere di Kolyat, sapeva di ciò che lei aveva promesso in cambio di essere lasciata in vita, sapeva che era andata incontro alla morte consapevole del motivo perché avessero scelto proprio lei, sapeva quali erano le ultime parole ad aver lasciato le sue labbra. “Non uccidetelo, vi prego.” Parole che erano rivolte a lui, poiché temeva che Kolyat sarebbe rimasto completamente orfano e 
voleva risparmiargli almeno questo dolore. E invece era esattamente quello che sarebbe successo e non se lo sarebbe mai più perdonato.

 

Con gli occhi lucidi, fissi sull’infinito al di là dell’oblò, Thane si ripromise di non sentire più, non vivere più, non pensare più. Perchè non meritava di essere ancora in vita, non dopo tutto il dolore che aveva causato. Quella notte, nel suo spoglio appartamento di Nos Astra, rivolse una preghiera silenziosa a Kalahira, supplicando che la sua malattia lo spegnesse nel più breve tempo possibile. Fino ad allora avrebbe vissuto per rendere la galassia un posto migliore, nell’illusione di poter fare ammenda.



 

   
 
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