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Autore: Subutai Khan    15/11/2022    0 recensioni
Più di un decennio di isolamento e disprezzo sono difficili da combattere, non è vero Pearl?
Genere: Angst, Hurt/Comfort, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Iris, Nuovo Personaggio, Pearl Fey, Phoenix Wright
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Pearl Fey, Maestra di Kurain'
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8 agosto 2030.

“Iriiiiiiiiis! C’è una visita per te!”

La voce un po’ sgraziata di sorella Bikini mi arriva all’orecchio proprio mentre sto dando le passate finali con la scopa al pavimento della pagoda. Questo posto ha la magica capacità di impolverarsi alla velocità della luce, poco importa quanto io o lei possiamo darci da fare nel cercare di tenerlo pulito.

E così ho una visita, eh? Chissà chi sarà mai.

Sorrido mentre penso quest’ultima frase, perché in realtà mi fa piacere vederla.

Do gli ultimi tocchi e mi avvio verso l’ingresso.

C’è chi mi aspettavo di trovare.

Pearl Fey, la Maestra di Kurain.

Mia sorella.

Ma questo è il nostro piccolo segreto. Dietro sua esplicita richiesta, sorella Bikini non sa nulla del rapporto di parentela che ci lega. Perciò, invece di salutarla in maniera affettuosa, devo attenermi al protocollo. Mi inchino mentre affermo: “È un onore per me incontrarla, Maestra.”

“Sorella Iris.”

“Ora immagino che vogliate restare sole, come sempre.” dice Bikini. E io, che la conosco da quando avevo quattro anni, capisco che dietro all’apparente formalità c’è una punta di… forse invidia, forse risentimento per il fatto di sentirsi esclusa. Scusa, non è mia intenzione ferirti ma così ha voluto.

Quando se ne va…

Una risata? Da parte sua? Non è successo spesso negli ultimi tre mesi: “Tutto bene, Pearl? Perché ridi?”

“Oh no, niente. Non so perché ma trovo ilare sentirti mentre mi dai del lei. Sono così abituata al tu, oramai…”

Vederla ridacchiare così è una gioia. Ne ha passate tante, povera ragazza.

“Vogliamo andare in camera mia, al riparo dagli indiscreti e voraci occhi della madre superiora?” propongo, ben sapendo che accetterà. E difatti, senza neanche manifestare a parole il suo assenso, si avvia.

Giungiamo dopo un breve tragitto e, come d’abitudine durante questi incontri privati, ci sediamo l’una accanto all’altra sul letto.

“Bene. Al solito, sono qui per ascoltarti qualunque cosa tu voglia dirmi.” mi offro. Questo è il nostro rituale: lei parla e io ascolto. Ho capito subito, sin dal giorno in cui mi ha rivelato che siamo sorelle, che la sua prima necessità è una spalla su cui appoggiarsi. Che fosse per piangere, sfogarsi o fare quel che vuole.

“Non c’è molto di nuovo, in realtà. Al villaggio è la solita vitaccia, con le vecchie carampane che tentano in tutti i modi di convincermi ad adempiere ai miei compiti di Maestra e io che le ignoro, come se non esistessero.”

“Capisco.” Mi ha spiegato in lungo e in largo che l’arte dell’evocazione è per lei estinta come se fosse un mammuth. Più che comprensibile, considerati gli accadimenti del 7 febbraio 2019. Già, ormai so la data a memoria. Ma non sarò di certo io a rimproverarla per aver ripetuto fino allo sfinimento quella storia.

Ho sempre pensato che Dahlia abbia avuto un’infanzia difficile e lo penso ancora, però quella sera da sola ha veramente rischiato di distruggere l’intera vita di Pearl.

Devo ringraziarti, madre. Quella singola, innocua frase che hai detto quel giorno è ciò che le ha permesso di scoprire la verità su di noi, di venire a conoscermi e che mi ha messa nella condizione migliore per aiutarla. Perché la miseria se ha bisogno di aiuto. Ne ha bisogno come il pane, come l’aria per respirare.

Io faccio del mio meglio. Ci metto impegno, costanza, desiderio di esserle utile. Ma…

“Mi sento imprigionata in una gabbia neanche fatta d’oro…” si lamenta, interrompendo il flusso dei miei pensieri.

“La gabbia non è fatta d’oro? E di cosa è fatta, allora?”

“Di budella. Le budella di Maya.”

Non trattengo un’espressione inorridita. Anche se capisco, dal suo tono e dal suo sguardo, che non è un’esagerazione. È a dir poco schiacciata dal senso di colpa per quanto è successo a nostra cugina, pur sapendo che la mano assassina non è davvero stata la sua.

Io… io sono soverchiata. Come posso tirarla fuori da questo pantano? Capiamoci, gli ultimi tre mesi le hanno giovato e ogni tanto la vedo sorridere, ha dei momenti di divertimento genuino… insomma, dei passi in avanti li ha anche fatti. Ma ci vuole di più, molto di più, per risolvere il problema alla radice.

E io temo di non esserne in grado. In simili situazioni la buona volontà non basta.

“Pearl.”

“Cosa c’è?”

“Sto per farti una proposta… azzardata. Capirò se ti dovessi arrabbiare, anche se spero che non succeda. Però devi promettermi che almeno ci penserai.”

Sospira. Sembra indecisa dopo aver sentito l’ultima cosa che ho detto. Forse ha intuito dove sto andando a parare e, se così fosse, la prospettiva non la sconfinfera poi così tanto.

Chi vivrà vedrà, Iris. Hai già lasciato che una sorella si autodistruggesse, non permetterai che anche l’altra lo faccia senza neppure aver provato a impedirlo.

“Credo che dovresti… dovresti iniziare un percorso di psicoterapia.”

Ero pronta a ricevere un torrente di insulti per questa mia audace presa di posizione. Invece, pur non reagendo in maniera entusiasta, non è neanche del tutto contraria. Sì, mi vien da dire che sospettava qualcosa del genere e si era preparata.

Guarda perplessa nella mia direzione: “Tu… credi che mi serva sul serio?”

“Onestamente? Sì, al cento per cento. Anche se voglio che sia chiaro un punto per me importantissimo: non ti sto abbandonando. La mia porta sarà sempre aperta per te e potrai venire a trovarmi ogni volta che ti salterà in testa, anche nel bel mezzo della notte. Ma non puoi continuare così, con solo la mia modesta e inadeguata stampella a sostenerti. Necessiti di un aiuto professionale, di qualcuno che sa davvero cosa fare e come farlo. Perché io, pur con tutto l’affetto che posso metterci, non ne sono capace. Sono una monaca, non una psicologa.”

Cala il silenzio. Ci fissiamo dritte negli occhi, anche se nessuna delle due muove un singolo muscolo. Non riesco a capire cosa le frulli in mente e non so se la cosa debba spaventarmi.

Circa un paio di minuti. Stasi totale.

“Sai cosa, Iris?” salta poi su all’improvviso.

“Cosa?”

“Non ne posso più di sentirmi così di merda. Non passa giorno senza che qualcuno o qualcosa mi ricordi Maya. Sono consapevole del ruolo che ho rivestito nel suo omicidio e non intendo scaricarne la responsabilità, ma sono altrettanto consapevole del fatto che avevo nove anni e sono stata manovrata come un burattino da quella… brava donna di nostra madre. Inoltre schifare tutto e tutti ti guasta il fegato, l’umore e soprattutto la pelle. Non voglio avere le rughe a vent’anni.”

L’evidente piega leggera con cui ha pronunciato l’ultima frase mi fa tirare un sospiro di sollievo interiore. Forse c’è speranza: “Quindi hai intenzione di…”

“Penso di sì. Magari non subito, devo essere sicura di poterlo affrontare con lo spirito giusto, ma la tua idea non è malvagia.”

“Meno male. Mi togli un peso dal cuore, temevo di aver fatto il passo più lungo della gamba.”

“No, no. Anzi, se non ho reagito sfasciandoti il letto in testa e urlando quanto tu fossi stupida, ingenua e cretina… è merito tuo. Questi nostri tête-à-tête sono serviti a sciogliere una piccola parte dell’armatura d’astio che mi sono scolpita addosso.”

Le prendo una mano: “Quanto hai appena detto lo considero un miracolo. E mi riempie di soddisfazione.”

“Fai bene a esserne soddisfatta. Il giorno in cui ti ho conosciuta è forse stato il migliore dell’ultimo decennio. No, senza forse, lo è stato di sicuro. Per la prima volta da quella notte qualcuno si è dimostrato gentile e comprensivo nei miei confronti. Hai fatto tanto per me Iris, e comunque vada questa pazza avventura della psicoterapia… io ti sono grata.”

Non… non ci riesco. Non riesco a non commuovermi, spalancare le braccia e travolgerla facendoci finire entrambe distese sul letto, in una posizione che in qualche hentai sarebbe il preludio a una scena hot. Incesto lesbico, roba che scotta.

“Iris?!” chiede, un po’ scandalizzata e un po’ stupita da quanto ho fatto d’impulso.

“Scusami Pearl, scusami tanto.” mi affretto a giustificarmi riguadagnando la posizione eretta “Ma non ho saputo resistere, troppa contentezza. Se non l’avessi esternata mi sarebbe scoppiato il cuore.”

“Mamma mia, che sorella melodrammatica che mi ritrovo. Sicura che la tua vera vocazione sia la vita monastica? No, perché come attrice faresti la tua figura.”

Le risate che invadono la stanza sono musica per le mie orecchie. E anche per le sue, spero.

 

*

 

21 settembre 2030.

Ti ci è voluto più di un mese per convincerti, eh? Applausi per Pearl, giusto per citare il titolo di una famosa canzone.

Va beh, poco importa. L’importante è che mi sia decisa a farlo.

Pertanto me ne sto di fronte all’ingresso dello studio dello psicologo. Dalla targhetta risulta che si chiami Shinichi Ono.

Suono il campanello.

In pochi secondi mi si presenta davanti un uomo di una decina d’anni più di me, chiare origini asiatiche, capelli scuri tagliati corti e un sorriso piuttosto largo: “Salve. Lei dev’essere Pearl Fey.”

“Sì, sono io. Mi scusi se sono arrivata un po’ in anticipo, ma…”

“Non si preoccupi, per fortuna ho chiuso prima del tempo la precedente seduta. Sono tutto suo.” E così dicendo si scosta per lasciarmi entrare.

Mi accomodo mentre lui chiude la porta.

Il suo studio sembra normale, persin carino. Tranne che per un dettaglio: in un angolo, vicino a quella che immagino sia la poltrona riservata al paziente, fa bella mostra di sé uno scheletro. Uno di quelli che normalmente si trovano negli studi medici o nelle aule dell’università di medicina. Mi avvicino per osservarlo meglio.

“Uff.” lo sento sbuffare dietro di me “Forse dovrei davvero sbarazzarmi di Betty, ogni singolo cliente che la vede ha questa reazione.”

“Betty? Quella cosa ha un nome?”

“Si rivolga alla buonanima di mio padre, me l’ha lasciata lui. Era un chiropratico.”

“Oh. Capisco.” È idiota uguale, ma almeno così ha un po’ più di senso.

E ora che ci penso…

“Scusi se sembra che voglia farmi i fatti suoi, ma quindi ho capito male o suo padre è passato a miglior vita?” chiedo mentre mi siedo. Lui fa altrettanto: “Beh, sì. Perché le interessa saperlo?”

“Vede, prima di cominciare a spiegarle il motivo per cui sono venuta qui da lei ci sono delle premesse che deve avere ben chiare.”

"Sarebbero?"

Giù con lo spiegone sulla famiglia Fey, Kurain e tutto ciò a loro connesso.

La reazione incredula era prevedibile, persin preventivata da una parte. Per questo ho pensato di attaccarmi al padre, per poterglielo dimostrare incontrovertibilmente.

Sì, temo sia necessaria un’evocazione per convincerlo. Sono la prima ad avere delle remore, per motivi talmente evidenti che non starò neanche a spiegarli, ma se serve per spianarmi la strada mi tocca.

“Signorina Fey, spero si renda conto che la sua storia è assai fantasiosa e poco credibile…”

“Me ne rendo conto fin troppo bene. Piuttosto, per caso ha con sé una foto di suo padre?”

“...cosa vuol fare?”

“Risponda, per favore.”

Borbotta qualcosa su giorni fortunati e sfortunati, poi tira fuori il suo portafogli e ne estrae una foto piuttosto vissuta. Ci sono ritratti due bambini, un maschio e una femmina, che giocano felici con un uomo con gli occhiali.

“Visto che ci tiene così tanto a impicciarsi dei miei fatti personali, quelli siamo io e mia sorella Rei. La persona adulta è ovviamente mio padre. È morto meno di tre mesi dopo.”

“Nome?”

“Eh?”

“Il nome di suo padre. Mi servono il nome e l’aspetto fisico. Una cosa me l’ha fornita, l’altra non ancora.”

“Tofu. Tofu Ono.”

“Ottimo. Un’ultimissima cosa. Avrei bisogno di un foglio e di una penna.”

Li recupera veloce, sempre piuttosto contrariato. Lo capisco.

Quando li ho tra le mani, mi fermo un attimo per pensare a cosa scrivere. Poi lascio che le dita si muovano.

 

Caro signor Ono,
mi chiamo Pearl Fey e in questo momento lei sta occupando il mio corpo. La prego di non agitarsi e di non far agitare suo figlio Shinichi, questa strana situazione è momentanea.
Nel leggere questo scritto si starà chiedendo un mucchio di cose: perché non sa dove si trova, cosa le è successo dall’ultima volta in cui ha avuto coscienza di sé, perché suo figlio è cresciuto così tanto. Di nuovo, cerchi di non farsi prendere dal panico e si goda al meglio delle sue possibilità la riunione familiare.

 

Gli spiego cosa sta per succedere. Naturalmente mi becco un’occhiata a dir poco dubbiosa. Come se non ci fossi abituata.

Ok, vediamo se mi ricordo ancora come si fa.

Mpf. Sono tornata.

Quanto tempo è passato? La prima cosa che faccio è girarmi verso l’orologio a muro, constatando che…

Porca di quella vacca troia putrida.

Quattro ore. Fra un po’ si cena.

A quanto pare avevano un sacco di novità da raccontarsi. Comprensibile.

Oh, giusto. Il mio psicologo, che spero di non aver ucciso per lo shock.

No, respira ancora. Ha la faccia di uno che in questo momento vorrebbe trovarsi su Alpha Centauri, ma per respirare respira.

E sta… occazzo, sta…

Sta piangendo.

“Dottor Ono, cos’è successo? Cosa vi siete detti?”

Non riesce a rispondermi. È completamente sfasato, in un mondo tutto suo.

Uhm. Forse non è stata una grande idea.

Mi alzo e mi avvicino a lui, preoccupata dalla sua reazione. Scatta in piedi e mi ritrovo le sue mani attorno ai gomiti. Mi fissa dritto negli occhi: “Io… io la devo ringraziare.”

“D-Davvero?” Non me lo aspettavo proprio.

“Mi ha permesso di salutare e ringraziare mio padre. Non ci ero mai riuscito, la sua malattia ce l’ha portato via in maniera repentina. E poi abbiamo parlato tanto. Gli ho raccontato di come sono riuscito a laurearmi dopo mille peripezie, anche se ci è rimasto male che non abbia seguito le sue orme. Della mia famiglia. Di Rei. Di mamma, che poveretta non sta tanto bene ultimamente. Ed è stato contentissimo di vedere che tengo Betty nel mio studio. Col cavolo che la tolgo.”

Gli sorrido. Non mi dispiace avergli dato questa possibilità, sebbene le mie intenzioni iniziali fossero molto più pragmatiche. E a proposito delle mie intenzioni iniziali: “Quindi ora mi crede.”

“Se esistesse una religione di Kurain, adesso sarei il suo più fervente adepto.”

“Molto bene, ciò mi rende…”

Non finisco la frase perché ho un leggero mancamento. Non sembrerebbe niente di grave, riesco persino a sedermi da sola. Mi sento solo spossata. Si vede che non sono più allenata, ma mi sembra il minimo dopo più di dieci anni di astensione.

Vista l’ora ormai tarda e il mio attuale stato fisico, decidiamo di comune accordo di rimandare la prima seduta a domani.

Mi accompagna alla porta. Non appena la varco, però, mi fermo a riflettere.

Oggi sono venuta meno a una solenne promessa che mi ero fatta, in preda alla furia del disprezzo che provavo verso me stessa.

Oggi ho evocato uno spirito.

Una parte di me è tutto sommato in pace con la cosa e non ci vede nessun particolare problema. In fondo ho un grande talento e, come il mio terapista mi ha appena dimostrato, si può usare per fare del bene.

Un’altra parte di me, più subdola e maligna, mi ripete che quanto ho fatto è riprovevole e che mi dovrei vergognare. È stato un disprezzabile, ignobile tentativo di lasciarmi alle spalle il crimine con cui mi sono sporcata le mani di sangue, fisicamente e moralmente. Più fisicamente in effetti. Ho sbagliato ed è un errore che mi peserà addosso per sempre.

Dannazione. Partiamo col piede migliore, eh?

Forza Pearl, è troppo presto per abbattersi. Iris aveva ragione, necessito di aiuto professionale.

Sono un rottame e non voglio più sentirmi così. Non voglio più alzarmi la mattina chiedendomi per quante volte, nel corso della giornata, desidererò essere morta.

Basta così. Questo stato di cose deve cambiare.

 

*

 

15 aprile 2031.

Uff. Oggi, per qualche motivo, non ho proprio voglia di vedere Shinichi. Negli ultimi mesi di solito era un appuntamento a cui guardavo con ansia, desiderosa di avere un’oretta tutta per me in cui vomitare parole a raffica senza timore di venire interrotta. E non che Iris l’abbia mai fatto, non con cattiveria quantomeno, ma con lui c’è un'atmosfera diversa. Non migliore e non peggiore, solo diversa.

Invece oggi… boh, ho una strana sensazione. Sarà perché ho le mie cose.

Va beh, poco male.

Suono il campanello e, rapido come sempre, viene ad aprirmi: “Salve Pearl. Sei un po’ in anticipo.”

“Sì, in effetti sì. Mi tocca aspettare, giusto?”

“Ammetto di non aver ancora finito.”

“Scansafatiche.” Con quest’ultima frecciata, e con lui che ritorna da dov’è venuto, mi accomodo in sala d’aspetto. Passano poco più di cinque minuti e la sua testa emerge dalla porta, invitandomi a raggiungerlo.

Lo faccio e… mh, aspetta. C’è qualcosa che stona.

Musica in sottofondo. Non c’era mai stata prima.

Lui sembra accorgersi del mio straniamento: “Ascolta attentamente il testo.”

 

You can spend your time alone redigesting past regrets, oh

or you can come to terms and realize you're the only one who can't forgive yourself, oh

makes much more sense to live in the present tense

 

Oh. Oh.

Ho capito cosa sta cercando di dirmi con questo. Non che ci volesse una scienza eh, ma sono discretamente fiera di me stessa per non essere caduta di faccia: “Il messaggio subliminale che vuoi trasmettermi è che vivo troppo ancorata al passato, dottor Ono? È ciò che dovevo dedurre?”

“Direi di sì. Inoltre, da quello che mi hai detto finora, posso affermare con motivata certezza che la riga sul perdonare se stessi ti calza come un guanto. Negli ultimi undici anni sei stata la tua peggior nemica e l’unica che ti ha portato rancore per quanto successo a Maya. Né Iris, né tantomeno Phoenix Wright ti hanno mai colpevolizzata di nulla perché loro, al contrario tuo, riuscivano a vedere come non sei stata altro che una pedina inerme nel piano di tua madre. Ma sono tutte cose che sapevi già, non è così?”

Scuoto appena la testa, un poco imbarazzata: “Beh, una mezza idea me l’ero fatta… ma sentirselo dire con tutta questa foga non fa male, lo ammetto.”

“Sai Pearl, per me tu potresti essere una potenziale gallina dalle uova d’oro. Potrei tenerti qui in terapia con me per anni e anni, ingrassando un sacco il mio conto in banca. Ma sarebbe un modo di comportarsi scorretto, oltre che professionalmente riprovevole. Forse lo è anche il mio attuale in realtà, perché sono sicuro che una buona fetta di colleghi non approverebbe questa mia entrata nel problema come fa un toro durante una corrida e predicherebbe calma, tempo e tutte quelle balle lì. Non ti servono ora come ora. Quel che ti serve è qualcuno che ti scuota dall'immobilismo mentale ed emotivo che ti sei autoimposta. In questo momento tu sei come una nave, ancorata in porto da un'enorme catena che le impedisce di prendere il largo. Come spezzi quella catena, con una lunga e articolata manifestazione d’arte oratoria? O con una tenaglia gigante?”

“Ma… ma perché proprio ora?”

“Perché non ora? E comunque non dimenticarti mai che io ho un debito di gratitudine nei tuoi confronti. Tu sei la persona che mi ha permesso di chiudere in maniera più che soddisfacente il capitolo di mio padre. Insomma, è morto da venticinque anni e io non riuscivo a farmene una ragione. Non prima che tu me lo consentissi. Anzi, per dimostrarti che non sto dicendo frottole…” Così dicendo estrae il portafogli, prende in mano la famosa foto e la fa a pezzi di fronte ai miei stupefatti occhi.

“No! Perché? Era un ricordo prezioso di tuo papà…”

“Vero. Ma quella foto mi faceva sempre guardare indietro invece che avanti. Non sai quante sere ho passato a piangerci sopra, non riuscendo a distaccarmi da ciò che rappresentava. Da quando mi hai permesso di parlarci non è più successo. Ora non sto dicendo che mio padre sia stato magicamente rimosso dalla mia mente, così come non ti sto chiedendo di farlo con Maya. Sono dolori che ci porteremo dentro per sempre e niente potrà mai cancellarli del tutto. Però vedila così, se ti può aiutare a metabolizzare meglio: loro vorrebbero vederci mentre ci struggiamo nel rimorso, nel ricordo dei giorni felici che non torneranno più, nei se solo avessi? No, non lo vogliono. Al contrario tuo io non mi sono mai dato la colpa della morte di mio padre, va bene, ma il discorso vale per entrambi allo stesso modo.”

Non riesco a dir nulla, presa in contropiede da quanto mi ha appena detto. Voglio dire, so che ha ragione e che dovrei fare quanto mi sta suggerendo… ma è tanto, tanto, tanto difficile…

“Per questo, cara mia, farò una cosa assolutamente non professionale e ti imporrò delle cose che pretendo tu faccia. Altrimenti, sappilo sin da ora, non ti accetterò più come mia cliente.”

“Eh?” pigolo.

“Tu ora uscirai di qui e andrai a parlare con Phoenix Wright. E se ti riesce, ma mi rendo conto di starti chiedendo molto e quindi questa parte è opzionale, cercherai di ricucire il rapporto con lui. Devi almeno metterci la buona volontà, non pretendo un successo. Mi basta che tu ritorni a vederlo come la figura che mi hai descritto nelle nostre lunghe chiacchierate e non come il maledetto bastardo che ha osato difendere in tribunale una bambina di nove anni da un’accusa di omicidio. Domani tornerai qui da me e mi racconterai com’è andata. Sono stato sufficientemente chiaro?”

Wow. Chi avrebbe mai anche solo pensato che quest’uomo potesse essere così marziale? Io no di certo, mi ero abituata a vederlo come un giapponese un po’ tonto e con un sacco di voglia di ascoltarmi mentre straparlavo. Tutto questo polso mi spiazza.

“E se non dovessi…”

“Te l’ho detto. Non fare la fatica di presentarti nei prossimi giorni, non ti farei entrare. Vedo che sei perplessa e lo capisco. Voglio che ti sia chiaro che tutto questo, che ripeto non è il modo corretto di comportarsi da un punto di vista deontologico, mi sgorga dal profondo. Io ora non sono il tuo terapista, sono un amico che vuole a tutti i costi vederti mentre esci dalle sabbie mobili che ti hanno imprigionata negli ultimi undici anni. E di carattere purtroppo sono impulsivo.” Sogghigna nel dire l’ultima frase, segno evidente che la intende sul serio.

“Perché, Shinichi? Perché ti sei preso così a cuore il mio caso?” non posso fare a meno di chiedere. Ci tiene, ci tiene da matti e non ne capisco il motivo.

“Debito di gratitudine. Fosse l’ultima cosa che faccio, e non mi importa se mi dovesse costare il posto nell’albo, io ti aiuterò a sistemare la tua vita e farò in modo che tu possa guardarti allo specchio senza vedere una persona spregevole. Non sei quella persona, Pearl Fey. Sei solo una ragazza con la tremenda sfortuna di essere figlia di quell’orrendo elemento di Morgan.”

“Sei poco carino ad apostrofare mia madre in questo modo.” gli dico provocatoria, in quanto è consapevole che i miei sentimenti nei suoi confronti sono tutt’altro che positivi.

“Tu l’hai definita in modi molto peggiori, lo sai sì? Fottuta leccatrice di merda, succhiatrice di cazzi da competizione…”

“Ok, ok, so come l’ho chiamata. Ma dimmi, anche con lei dovrei ricucire?” Sto prendendo gusto a cercare di passare come una figlia amorevole, perché è talmente ridicolo che fa il giro e diventa divertente.

“L’unica cosa che nel suo caso dovresti cucire è la sua bocca. Con del filo spinato. Possibilmente intinto nell’acido solforico.”

Scoppiamo a ridere. È bello sapere che, almeno in un caso specifico, quel che provo ha un fondamento.

Poi, con ancora gli ultimi spasmi della crisi di ridarola che lo affliggono, mi guarda e dice in tono più serio: “Pearl, per una persona come te un support network è fondamentale. Lo è a prescindere, ma per te nello specifico… cacchio se ne necessiti. Sei ancora del tutto invischiata in un trauma terribile che si trascina da sin troppo tempo e, come tu stessa mi hai detto più di una volta, da sola non ne puoi uscire. Lascia che me medesimo, Iris e sì, anche Wright… lascia che noi ti si aiuti a farlo. Abbiamo a cuore il tuo benessere. Fidati di noi. Permettici di sostenerti. Non isolarti. Non lasciare che il tuo immotivato livore per te stessa ti rovini. Non te lo meriti.”

Ho un leggero sussulto emotivo a sentirlo parlare così. Solo Iris è stata così empatica e volenterosa nei miei confronti dall’inizio di questa bruttissima storia.

E forse, ora che ci ragiono in maniera più lucida…

“Wright, dunque?”

“Wright. Fila, la seduta è finita.”

“Sei un tiranno, Shinichi Ono.”

“No. Sono solo un amico in pena.”

 

*

 

Che cosa sto vedendo?

La targhetta sul campanello della porta recita Wright Anything Agency.

Io ero rimasta a Wright & Co. Law Offices.

Mi devo essere persa un mare di cose in questi undici anni.

Deglutisco. Ci vuole più coraggio di quanto sospettassi. D’altronde è la prima volta da quando è morta Maya che mi rivolgo a qualcuno brandendo un rametto d’ulivo e non una scimitarra. Specialmente qualcuno che includevo nel grande calderone ribollente dell’odio e che una parte di me desidera tuttora appendere a testa in giù a un gancio dopo averlo torturato con qualcosa di incandescente.

No, no. Hai sentito Shinichi e sai che ha ragione. Quel momento di chiarezza nel suo studio non può andare sprecato.

Fallo e basta.

DRIIIN. DRIIIN.

Mi viene ad aprire… un momento, chi cazzo è ‘sta ragazzina? Più giovane di me, ma nonostante questo un po’ più alta, è vestita con un costume azzurro… da mago?

Quindi era l’influenza delle Fey a tenere questo posto in piedi, eh?

“Salve. Desidera qualcosa?” mi chiede con voce squittente e un sorriso largo quanto l’apertura delle mie braccia. Urgh, che irritazione.

Sssssh. Non insultarla. Non sei qui per questo.

“Sì. Avrei bisogno di vedere Phoenix Wright. È urgente.”

“Certo. Chi devo annunciare?”

“P-Pearl Fey.”

“Attenda qui un attimo, per favore.” Se ne va lasciando l’uscio socchiuso.

Sono i trenta secondi più ansiogeni della mia vita. Ho paura.

E poi eccolo.

Si vede lontano un chilometro che anche per lui non è una situazione facile. È palesemente scioccato nel vedermi. Sicuro come l’oro non se lo aspettava, soprattutto alla luce del nostro ultimo incontro nei pressi del centro di detenzione l’anno scorso.

“Pearl… che sorpresa… non… non sapevo che saresti… passata a trovarmi…”

“N-Nick… ciao…”

Il solo fatto che non l'abbia chiamato per cognome, bensì con l’affettuoso nomignolo che usavo da bambina… beh, diciamo che quella minuscola increspatura delle sue labbra è un buon segno.

“Vuoi… vuoi accomodarti?”

“Sì, g-grazie…”

Una volta dentro mi rendo limpidamente conto che la frase sull’influenza delle Fey era non vera, di più: questo bordello mi fa accapponare la pelle. C’è ciarpame dappertutto, principalmente roba collegata alla misteriosa ragazzina che mi ha aperto la porta perché sembrano tutti ammennicoli da prestigiatore. Addirittura un piatto di spaghetti, ovviamente finti, con una forchetta sospesa per aria.

“Wright?” Uh, riconosco questa voce. È di…

“Edgeworth, ti spiacerebbe lasciarle il tuo posto?” E sì, come avevo supposto c’è proprio l’esimio procuratore seduto su una delle poltrone.

“Tutto bene? Non hai una bella faccia.” gli chiede, preoccupato. Sin troppo preoccupato.

“Non… non lo so. Se devo essere sincero…” ma non riesce a finire. Immagino che si stia chiedendo il perché di questa mia improvvisata e non sa darsi una risposta. Al posto suo mi troverei nella stessa impasse.

Ma guarda, sul tavolino di fronte a dove ci sediamo ci sono due tazze e una teiera. Stavate prendendo il the come due damine, ragazzi? Ho interrotto qualcosa? Nel caso scusate, non volevo.

“Pssst. Signor Edgeworth, lei sa perché c’è tutta questa elettricità nell’aria?”

“Non ne sono sicuro, Trucy, ma so per certo che Pearl e Wright hanno una storia… spinosa alle spalle.”

Come bisbigliatori siete pessimi, lo sapete? Mi rivolgo a entrambi, mi faccio forza e dico: “Restate pure, non sentitevi di troppo. Quel che voglio dirgli non è un segreto. Piuttosto Nick, perché non mi presenti alla persona che non conosco?”

“Oh sì, certo. Pearl Fey, lei è Trucy Wright.”

Wright? Aspetta, aspetta. Perché ha il tuo cognome?

La suddetta Trucy allunga la mano verso di me in un atto di presentazione formale: “È un piacere conoscerti, Pearl.”

Gliela stringo: “Altrettanto. E scusa per la domanda indiscreta, ma perché…”

“Perché ho il suo stesso cognome? Semplice. È mio padre.”

Che… che… che… che cosa?

“Adottivo!” si affretta a precisare il diretto interessato “Padre adottivo! Lunga storia.”

Oooooooooooooh. Interessante, molto interessante. Poi chiederò lumi più specifici in merito.

Un sospiro. I convenevoli sono belli e curiosi, ma è tempo di lasciarseli alle spalle e affrontare l’elefante nella stanza: “Bene Nick, vorrai sapere perché sono qui.”

“In… in effetti. Il tuo pugno ogni tanto mi fa ancora male.”

“Tu e il signor Edgeworth avrete probabilmente intuito che ha a che fare con quanto successo il 7 febbraio 2019. Trucy, devi sapere che quella sera… quella sera… è stata la peggiore della mia vita. Io… io… ho… ho…”

Kami, non esce. La frase ho ucciso mia cugina non esce.

“Pearl, non c’è bisogno di…”

“Sì invece, devo farcela. È importante per me riuscire a dirlo ad alta voce. Io… ho…” Di nuovo mi interrompo, sopraffatta da qualcosa di viscoso e putrido.

Succede una cosa inaspettata: “Pearl sta cercando di dirti che purtroppo quella sera si è conclusa in tragedia perché le macchinazioni di sua madre hanno portato alla morte di sua cugina Maya, a cui era affezionatissima. A giudicare dalla sua faccia e dalle parole che stava usando, scommetto che voleva dire di essere stata lei ma no, è una bugia. Una mezza bugia. Comunque non la storia completa. Wright, non le hai mai spiegato la faccenda di Kurain, vero?”

Signor Edgeworth…

“No. Non ne ho mai sentito la necessità, visto anche che Pearl era uscita dalla mia vita… fino a oggi.”

“Per riassumere,” riprende l’uomo dal foulard appariscente “c’erano in ballo degli spiriti e la capacità di evocarli per farli ritornare nel mondo dei vivi. Lei possiede questa facoltà e ha inconsapevolmente richiamato lo spirito di sua sorella Dahlia, la quale era in combutta con Morgan, la madre di entrambe. Sua è stata la mano omicida, non di Pearl. Capisco la tua faccia disorientata. Neanch’io volevo crederci, pensavo fossero tutte fandonie, ma quando Misty Fey ha evocato Dahlia nel bel mezzo del processo per farla confessare è stato impossibile negare la verità dei fatti.”

Il silenzio che segue serve per farle interiorizzare queste squassanti rivelazioni. La prassi quando si introduce un neofita alla Tecnica. Chiaramente è un po’ perplessa, non sono news facili da digerire, ma sul suo viso non appare la classica faccia da che cosa cazzo vi siete fumati per inventarvi una stronzata del genere, l’ammorbidente per il bucato? Chissà, magari il fatto che si diletta in trucchetti da palcoscenico le ha aperto la mente quel tanto che basta per non cestinare quanto ha appena sentito.

Torno a dedicarmi a Wright, il vero motivo per cui sono qui. Chiudo gli occhi e cerco di assumere un ritmo di respirazione più controllato, quanto sto per dire non è facile da buttar fuori: “Nick, sono sicura che tu ti stia chiedendo perché mi sono fatta viva ora. E perché non ti ho tirato un’altra castagna sul grugno. Un caro amico mi sta aiutando a vedere che il mio atteggiamento generale verso me stessa, verso di te, verso un sacco di gente… non è il migliore, ecco. Non posso dire di non provare ancora qualcosa di negativo nei tuoi confronti, mentirei spudoratamente. Diciamo però che ora mi è più chiaro il perché di quel che hai fatto prima del processo, quando ti sei preso la briga di decidere al posto mio. E soprattutto ora riesco a capire, o almeno sto cominciando a capire, cosa ti ha spinto ad agire in quel modo. Riconosco che c’era una concreta possibilità per me di essere condannata, il che sarebbe stata l’ingiustizia suprema. Quindi…” E ancora mi blocco, incapace di proseguire.

Avanti Pearl, diglielo. Si merita di sentirlo.

“Non avere fretta di concludere, Pearly. Cerca di calmarti, tranquilla che io non scappo.” mi dice sorridendo. Brutto infame, usare il soprannome che era esclusiva di Maya…

“Quindi…”

Madonna santa, quant’è complicato. Quant’è duro.

Non devo mica recitare qualche poema lunghissimo ed elaboratissimo a memoria. Non può essere tanto ostico.

E invece lo è. Faccio un altro paio di tentativi, che puntualmente cadono nel vuoto.

Mi sto innervosendo. Agitando. Arrabbiando.

No, così non va. Prendo a respirare con la bocca, tentando di impormi la pace zen.

Poi, di botto, opto per spegnere completamente il cervello e lasciare che la bocca si muova da sé: “Quindivolevodirtigrazieperquantohaifatto.”

Vivere nel tempo presente. Porca troia, quanto aveva ragione la canzone che mi ha fatto sentire Shinichi prima. D’accordo, mi sono un po’ mangiata le parole ma non si può pretendere troppo.

“Ho capito male o mi hai ringraziato?” chiede, piuttosto spaesato.

“Proprio *anf*… proprio *anf* così…” mi riesce di rispondergli, anche se sto ansimando come se avessi appena corso dieci maratone consecutive. E intendo correndo, non marciando.

Sai cosa? Staccare la spina è andata da dio la prima volta. Vediamo cosa succede a concedere il bis.

Il risultato? Mi avvento su di lui e lo abbraccio.

Passo i successivi tot minuti a singhiozzare, balbettando frasi sconnesse su come mi dispiace di averlo ostracizzato per tutto questo tempo e su come non è stato giusto e su come abbia reagito in maniera a dir poco esagerata e su come non avrei dovuto e su come se vuole può restituirmi la papagna che gli ho rifilato in preda a un sentimento anomalo e su come…

Prende ad accarezzarmi i capelli. Con inopinata dolcezza, devo proprio ammetterlo: “Ssssssssh, Pearl. Non serve. Sono davvero contento di vedere come finalmente tu abbia capito che io volevo solo proteggerti in quel momento. Proteggerti dalle conseguenze di quanto tua madre aveva architettato e che rischiava di farti finire in prigione per un reato che non avevi commesso. Sarebbe stata l’ingiustizia suprema, proprio come hai detto poco fa. Non potevo permetterlo. Avevamo già perso Maya e non avrei sopportato di perdere anche te. Ti ci è voluto giusto qualche annetto per arrivarci, ma non importa. Va bene così. Però ora avrei una domanda.”

“Dimmi… *sniff*... dimmi pure…”

“Credo di poter dire che allo stato attuale definirti innocente non significherà per me dover farmi degli impacchi di ghiaccio da mettere sulla botta. Sbaglio?”

Alzo la testa dalla sua camicia, che mi sa gli ho bagnato in più punti, e lo osservo fisso prima di rispondergli.

Sbaglia? Sono psicologicamente pronta a farmi definire in quella maniera?

Non c’è nessun impulso di saltargli addosso per sbranarlo. La risposta è evidente.

“No, non *sniff* sbagli.”

Questa semplice risposta cancella di colpo una parte del peso che mi sono trascinata sulla schiena sin dal momento in cui sono tornata in me e ho visto il coltello insanguinato nelle mie mani. Non tutto, ahimè. Ma una parte sì.

Mi scosto da lui, finendo inginocchiata per terra. Troppo in preda all’emozione per anche solo pensare di rendermi presentabile.

Le altre due persone che hanno assistito a questa scena madre non dicono nulla. Edgeworth si limita ad avvicinarsi a Nick, poggiandogli una mano sulla spalla e regalandogli un magnifico sorriso a cui lui risponde con il medesimo trasporto. Qui gatta ci cova. Trucy invece è ammutolita, apparentemente incapace di spiccicare mezza sillaba. Presumo non si fosse preparata per lo spettacolo. Alla fine riesce a dire: “Io… io… porca miseria.”

“Non ti aspettavi nulla del genere, eh? Capisco la tua reazione.”

“No papino, proprio non me lo aspettavo. Ma è stato… bello.”

Bello? Cosa c’è stato di bello in una bambina che ammette i propri stupidi errori e poi scoppia a piangere perché travolta da un’ondata di rimorso? Glielo chiedo ad alta voce. Lo sguardo furbo che mi restituisce mi irrita giusto un pelo: “Beh Pearl, sei libera di darmi della stupida ma io trovo bello averti vista mentre ti liberavi dalle catene del passato, o perlomeno vedere che hai mosso il primo passo in quella direzione. Le tue scuse sono state talmente sincere, talmente sentite che mi hanno un po’ commossa… anche se lo stupore è stato più forte. Sii fiera di te stessa, oggi hai fatto una gran cosa.”

Per la seconda volta qualcuno mi parla delle catene che mi bloccano i polsi e le ginocchia. Non è un caso.

Fra me e me sento una scarica di… occristo, è amor proprio. Un sentimento che mi era così alieno e repellente da lasciarmi basita nel vederlo far capolino da chissà dove dopo un’eternità. Bentornato, ciccio.

Domani te la faccio vedere io, cretino di uno Shinichi.

   
 
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