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Autore: sacrogral    18/11/2022    11 recensioni
... in cui non accade niente, si chiacchiera a vuoto e si contestualizza il passato e l’inizio di tutto, quindi chi è interessato solo alla trama e non agli aneddoti e ai personaggi lo può anche saltare a piè pari. Io spero però che venga letto lo stesso, perché mi son divertito a scriverlo. E anche un po’ impegnato.
Non metto avvisi.
Qualche immagine forte, ma nemmeno granché.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo primo

 

In cui non accade niente, si chiacchiera a vuoto e si contestualizza il passato e l’inizio di tutto, quindi chi è interessato solo alla trama e non agli aneddoti e ai personaggi lo può anche saltare a piè pari. Io spero però che venga letto lo  stesso, perché mi son divertito a scriverlo. E anche un po’ impegnato.
 
Nel ricordo, non era né una serata speciale né un momento particolare. Nella Disperazione fetida si accalcava la folla dei reietti di Parigi, a tramare, a complottare, a inveire contro il malgoverno. Proprio come sempre. Di tanto in tanto volavano parole grosse, apparivano e scomparivano lame di coltello, ma le regole non scritte erano chiare: alla Disperazione si accoglie tutti, ma se a qualcuno viene detto di andar fuori, quello va fuori; alla Disperazione si fa quel che si deve, ma non si ammazza nessuno: per quello, si va fuori; alla Disperazione non si rompono i bicchieri, perché ogni bicchiere è la lapide di un uomo; e poi, il ragazzino ritardato, quello con gli occhi chiarissimi, Foret il bastardo, quello non si tocca. Quest’ultima informazione in particolare veniva passata sottovoce fra usurai, sgozzatori e sicari con una sfumatura di rispetto, e impreziosita e resa convincente da racconti di gente rimasta senza denti e di braccia spezzate.

Storie buone come altre.

Joss, due metri di bruttezza e 120 chili di peso, serviva da deterrente a chiunque avesse intenzioni men che lecite, ma il concetto di “lecito” era molto blando e vago.

Gobemouche, il poeta delle cause perse e degli oggetti dimenticati, (anche) quella sera senza un soldo in tasca, aspettava di farsi offrire un bicchiere o due declamando versi non suoi:

Comme un chevreuil, quand le printemps destruit
L’oyseux crystal de la morne gelée,
Pour mieux brouster l’herbette emmielée
Hors de son boys avec l’Aube s’enfuit,
Et seul, et seur, loing de chiens et de bruit, (1)
 
e funzionava, quando il poeta da quattro soldi voleva funzionava, e un uomo con una benda all’occhio sembrò quasi commuoversi, gli lasciò un bicchiere pagato, mentre Joss faceva una smorfia, lui certe cose non le capiva.

Monsieur Sanson, il boia di Parigi, se ne stava in disparte, all’apparenza senza guardare niente, ma forse vedeva tutto. Talvolta imprecava a vuoto, da solo, ma quel che nessuno poteva sapere era che in realtà solo, Sanson, avrebbe pagato per esserlo – la Morte, nerovestita e con gli occhi sfocati, Sanson ce l’aveva accanto, spesso sorridente e soddisfatta del cibo che lui, suo malgrado, le dava tutti i giorni. Si rimirava nell’affresco, quella cagna nera, e talvolta gli metteva la mano sulla spalla e Sanson aveva uno scatto, forse d’ira forse di qualcos’altro, perché a nessuno può piacere aver la morte addosso, e anche se Sanson c’era abituato non sopportava lo stesso d’esser toccato. E lui non toccava mai nessuno, con le sue mani impure, che vedeva sempre macchiate di sangue e anche a lavarle non andava mai via.

Quando lo vedevano, gli avventori della Disperazione non facevano un commento, ma facevano le corna, i più pii il segno della croce. Nessuno lo importunava e nessuno gli rivolgeva la parola. C’era sempre uno spazio vuoto attorno a lui, uno spazio di sicurezza. Talvolta gli si avvicinava fra Etienne, il prete che d’abitudine accompagnava i condannati, quando volevano. Ma spesso non volevano, mentre col boia quelli  parlavano tutti, chissà perché poi. Ma talvolta il prete lo volevano, e fra Etienne chiedeva consiglio a monsieur Sanson, e la vita troncata e la vita eterna in qualche modo si allacciavano, e al condannato male non faceva. Certo, nemmeno bene.

Fra Etienne, magro tanto che gli si vedeva il teschio sotto la pelle, ma fibroso, nodoso, coi muscoli da far invidia a un giovanotto, alla Disperazione c’era di casa, e i clienti abituali quasi non ci facevano più caso, a quella sottana sempre intento a bere, a pregare o a sacramentare, chissà – perché chissà cosa diceva, alla fine, quando sgranava la sua corona di grossi chicchi di legno; i clienti meno abituali, chi alla Disperazione capitava per combinazione o per destino, mettevano in fretta un freno alla curiosità e alle facezie, da un lato perché fra Etienne aveva già un paio di volte dimostrato che, a parole o a cazzotti che fosse, sapeva tenere bene le parti di Dio, dall’altro lato perché l’oste sembrava comunicare con lui a segnali, occhiate e cenni, e questo poteva voler dire solo una cosa: quel che avete fatto a lui l’avete fatto a me, col dovuto rispetto.

Così il frate – un francescano bello duro, di quelli col saio e i sandali ai piedi, ma chiamato il prete, la sottana, il corvo o il corvo nero con assoluta indifferenza e intercambiabilità – fra Etienne, se ne stava alla Disperazione una sera sì e una pure, beveva roba forte che Joss segnava sul suo conto, conto che a fine mese l’oste strappava con filosofia, e che teneva solo per esser sicuro che il prete non esagerasse.

Ma c’era poco da imputargli, a quel frate legnoso: quando c’era bisogno di lui lo si trovava sempre, a lavorare nel suo orto, l’Eden, senza risparmio, e del prodotto dell’Eden si sfamava lui e chi ne aveva bisogno, fossero parrocchiani, zingari o vagabondi perché – mondo boia! – doveva essere la morte, l’unica a non far distinzioni?  E le offerte della domenica le ridistribuiva fra i poveracci allo stesso modo, e nemmeno pensava a chiamare gli operai per riparare il tetto della chiesa che stava ritto coi puntelli, ogni tanto lo si vedeva, piccolo da lontano, a dar martellate e piantare assi di fortuna, e per tutto il resto si affidava a Nostro Signore.

In mezzo agli avventori, qualche storpio della Corte dei Miracoli che, per miracolo appunto, a sera ritrovava la luce degli occhi o la forza delle gambe; un paio di ragazze che Louise la zoppa istruiva al mestiere, e dava loro tutte le informazioni utili allo scopo, comprese le preferenze dei clienti, e le dritte su cosa fare per non farsi rovinare troppo presto il capitale su cui erano sedute.

E poi, due sconosciuti, uno con la faccia nascosta da un cappello di feltro e coperto da un ampio mantello nero – che, chiaro come il sole, non voleva dare nell’occhio, e appunto per questo tutti lo notarono – in compagnia di un uomo a volto scoperto e che talora si guardava intorno, che tutti dimenticavano nel momento in cui distoglievano lo sguardo.
 
Stavano lì da un bel pezzo, ormai. Bevevano, pagavano, parlavano poco. Ogni tanto quello di cui si vedeva la faccia si lasciava andare a un’espressione dura, scuoteva la testa accennando madame Louise, e il suo compagno dava segni d’impazienza.
Quello con la faccia in luce ordinò ancora vino, forse sperando di placare l’amico, che faceva tamburellare le dita come se aspettasse qualcuno o qualcosa. Foret si affrettò ad accontentarli, serio serio. Al “Grunf” di Joss aveva preso Jacques Douvrille, matricida e René Cootard, ladro, due bicchieri belli grossi. A Joss, quei due non piacevano. Non che andasse matto per la gente in generale. Ma, da animale che passava la vita a valutare ladri e delinquenti, sentiva odor di guai, e sperava che quei due se ne andassero in fretta.

Foret trotterellò col suo sorriso vacuo e la mente vuota. Jacques Douvrille e René Cootard sarebbero stati ben saldi sul vassoio, senza dubbio, se non avesse fatto una mossa brusca per evitare di urtare un signore grosso, ma anche se non fosse stato perduto nel suo mondo.

Fu così che Foret, cedendo alle leggi della fisica, non riuscendo a mantenere fermezza nel braccio, e pure sentendo già le lacrime premergli sotto l’occhio – cadrò cadrò e guarderanno tutti me e penseranno che sono idiota, diranno tutti che sono incapace di portare un bicchiere indi perciocché sono incapace di fare ogni qualsivoglia cosa e Joss si arrabbierà moltissimo per cui non mi vorrà più vicino – Foret, appunto, lasciò fare alla forza di gravità il suo lavoro, e Douvrille e Cootard con il loro contenuto si rovesciarono, senza volontà alcuna come lo era stata la loro testa una volta tagliata, precisi sui pantaloni dell’uomo la cui faccia – poco rassicurante – era scoperta e chiara e quello, già nervoso di nervosismo forse altrui, si alzò di scatto, mandando Foret a gambe all’aria dalla parte opposta rispetto a quella della caduta e, imprecando come un portuale normanno contro il ragazzo, terminò con: “Oste, che te ne fai di questo scemo?”, a gran voce, dopo immagini anche più colorite.

L’aria si fece silenziosa e pesante.

Il poeta, quello che declamava di uccellini e erbette, si zittì di colpo e fece la faccia scura, quasi trasformato in un’altra persona, l’aria di un tagliagole. E da una botte scese un uomo – Simon Martin, il padre di Hortense, la ragazza che vendeva fiori per strada nel quartiere, lei che Joss, tutte le mattine, vedeva passare, e da lei comprava sempre un mazzo di violette, che poi regalava a madame Louise, perché non sta bene che un uomo fatto si tenga in mano o vicino un mazzo di violette – e Simon Martin, che piccolo non era, anche se Joss lo passava di venti centimetri buoni, aveva in faccia un certo sorriso, quello di uno che sta per divertirsi a fare qualcosa che però gli piacerebbe non dover fare.

Foret ancora a terra, e confuso, si scusava con Joss – Midispiacemidispiacemidispacenon volevofare maleaDouvrilleeCootardeneppuresporcarequestoelegantesignoreJossmidispiace – mentre l’oste lo tranquillizzava col gesto del: “Calma calma, non è successo nulla” e intanto i complottatori avevano smesso di complottare, i briganti avevano cessato di brigare, i tramatori avevano interrotto il tramare; Gobemouche e Simon Martin avevano lanciato lo sguardo del: “Bastiamo noi”, l’oste aveva annuito,  l’avventore coi calzoni ormai bagnati ancora sacramentava e il suo amico non aveva fatto una mossa, né mostrato il volto.

Nacque, inevitabile, l’alterco.

Gobemouche per primo si offrì di accompagnare fuori il maleducato che non aveva accettato le scuse del ragazzo, offendendolo, piuttosto. Monsieur Martin sottolineò il concetto mostrando con discrezione il coltello sotto la manica della camicia. La vittima azzardò un: “Come osate!” che impressionò meno del dovuto, considerandone le condizioni.

Il poeta aveva già fatto un passo nella giusta direzione quando, attratto da una corrente di quello che herr doktor Mesmer in quei tempi avrebbe definito magnetismo, si voltò a guardare l’uomo seduto che aveva tolto il cappello e aveva il viso in luce; il marchese de Sade aveva vetrificato gli occhi, due pozzi neri, e Gobemouche fece due passi indietro senza motivo e senza potersi trattenere, e si sentì scavato dalla testa ai piedi e viceversa, come se quello sguardo fosse fatto di mani che andavano a toccargli gli organi interni, e glieli stringessero. E per un motivo senza dubbio simile fece un passo indietro pure Simon Martin.

Monsieurs, la questione la risolve chi l’ha creata” scandì il Marchese, senza sorridere e senza alzare la voce.

Chiamò con un gesto Foret, che si era rialzato tutto mortificato e che gli si avvicinò a testa bassa.

“Guardami, ragazzino” disse, e Foret alzò la testa “Lo sai cosa gli faccio io agli sventatelli come te? Prima li spoglio nudi, poi li prendo a frustate finché la carne non cade via a brandelli, e mentre gridano continuo,  finché il braccio non mi fa troppo male, e poi sulle ferite ci piscio forte, da farle bruciare ancora di più. Hai capito?” sillabò de Sade, scagliandogli lo sguardo di pietra in faccia, mentre nessuno faceva un fiato e sembrava di sentire solo il respiro inquieto del bimbo.

Foret alzò i suoi occhi quasi trasparenti all’altezza dei risucchianti pozzi neri di de Sade. E inaspettatamente sorrise.

“Ma no, signore, non le farete, queste cose brutte. Indi poiché voi siete una brava persona” affermò, calmissimo.

Il labbro inferiore e il mento del marchese tremarono in maniera impercettibile. Chiuse gli occhi un momento solo.

Poi, con la voce che non ammetteva repliche, si girò verso Joss e ordinò: “Oste, chiudi questa topaia. Stasera la tieni aperta per me!” e poi, piano, rivolto al suo servitore: “Siamo nel posto giusto”.

Prima che Joss le petit potesse confermarlo, Foret era già sgusciato via, come un topolino, per suonare la campana che indicava a tutti di smammare, sfiorando il saio di fra Etienne che era rimasto, orrificato, col bicchiere a mezz’aria, e sorridendo al boia, che si era alzato in piedi per l’occasione, la faccia inespressiva.

E proprio mentre la folla dei disperati usciva un po’ mugugnando a bassa voce, un po’ sollevata per l’epilogo che concedeva una ritirata dignitosa, il dottor Lassone entrò con qualche difficoltà, cercando di non urtare la gente che gli andava incontro e che si scostava al suo passaggio, nel rispetto dovuto, perché lui non aveva mai fatto mancare le sue cure a loro né alle loro famiglie  e non aveva orari e curava la povera gente gratis, mentre i nobili solo a caro prezzo; e lui, in vago imbarazzo, entrava mentre gli altri uscivano,  dicendo, a tutti e a nessuno: “Buonasera. Mi sono perso qualcosa?”

  1. Pierre de Ronsard, Les Amours, sonetto XLIX, 1552 – non mi si chieda di più.



“Signori, stasera siamo qui per fare la Storia. Violenteremo la Storia, e le faremo generare splendidi figli, figli inaspettati e nuovi” iniziò il marchese de Sade, retore, mentre nessuno lo ascoltava davvero.

Monsieur Sanson aveva data per scontata la sua presenza, memore di altre situazioni simili già vissute (2), così come fra Etienne, che aveva avvicinato il bicchiere di grappa alle labbra e l’aveva svuotato in un sorso, non sapeva se più sconvolto dalle reazioni alle parole di quell’uomo o dalle parole medesime.

Gobemouche, in piedi, quasi nella stessa posizione in cui lo abbiamo lasciato, lasciava trascorrere il brivido che lo aveva attraversato con una certa prepotenza e quasi abuso, e domandava a se stesso cosa lo avesse in qualche modo ghermito, e gli avesse riportato alla mente – pura memoria involontaria – il volto dell’amico Marcel, gonfio come son gonfi i volti degli annegati, e spettrale come son spettrali i sensi di colpa.

Foret, dal canto suo, non aveva fatto una piega, e sembrava casomai dispiaciuto di essere sempre fuori tempo, fuori equilibrio, e aver così sporcato i bei calzoni di quel signore che sembrava tenerci tanto.

“Io vi conosco” disse Joss, perentorio “Non dovete parlare così al ragazzo, signore. Non succedono belle cose se si parla così al ragazzo”, ma senza guardarlo, e cominciando a lavare dei bicchieri che raccoglieva man mano dal bancone.

Monsieur le tavernier, l’unico ferito qui è il mio orgoglio. E son certo che anche lui sopravvivrà” chiarì, mondano, il marchese, pronto a riprendere il suo discorso.

Non sembrava impensierito né dall’oste che non lo guardava e si dedicava alle faccende da oste, né da Foret che si muoveva veloce e cercava di aiutare, né da fra Etienne che sgranava il rosario di chicchi di legno e sembrava ansioso di parlare ma non diceva niente, né dal boia che lo guadava corrucciato e ogni tanto girava gli occhi, a fissare un punto vuoto, né dal dottore che era appena arrivato e aspettava con paziente curiosità, né da Gobemouche che riprendeva colore lento; e né e tantomeno dal suo amico coi calzoni maleodoranti e l’espressione truce.

“Insomma!” sbottò per primo l’uomo di Chiesa, che aveva immediatamente battezzato quel signore Si Fa Per Dire come un’anima persa al demonio e lui stesso demonio incarnato “Si può sapere chi siete, voi, che siete ancora sulle vostre gambe dopo – io non voglio ripetere nemmeno una sillaba di quello che voi – ma ho voglia di insegnarvi io la buona educazione dopo che voi – un degenerato bestemmiatore ricettacolo di vermi e perversioni che –  ”

“Il mio nome è Donatien-Alphonse Francois marchese de Sade” scandì, godendosi il sapore delle sillabe in bocca e il sicuro effetto che avrebbero scatenato “E questo caro amico è Martin Latour Quiros, normanno, nato sibilando anziché piangendo, ossessionato dal dolore perché incapace di provarne (3), e non sa quello che si perde:  in due parole, il mio valletto”.

La Morte nell’affresco sembrò ridere a crepapelle, e tutti quelli che la seguivano parvero animarsi, contorcendosi, nel buio della Disperazione.

Foret disse: “Molto lieto”, con un inchino.

E poi iniziarono a parlare tutti insieme: “Dovreste essere alla Bastiglia, so per certo che vi hanno incarcerato!” “Le più abominevoli cose che abbia mai letto…” “Ci mancava questa, a fine giornata!” “L’anticristo che batte i suoi luridi pieni caprini sulla terra! Domine solve animam meam” “Non è luogo per voi” “Cosa andate cercando?” “Gli occhi, quella cosa che fate con gli occhi…” “Le più immonde e abominevoli porcherie, le orge più oscene…” “Joss, cos’è un’orgia?”

Con un pugno sul bancone, de Sade chiese il silenzio, che arrivò puntuale.

“Brava gente, una cosa alla volta, e di grazia. La mia fama mi precede, a quello non v’è rimedio. Chiudiamola qui, al momento. Io sono alla Bastiglia – lo disse col tono di chi pronuncia un’ovvietà – ma c’è sempre un modo per passare dalle porte chiuse. Launy è un idiota incorruttibile, servo di quella cagna impazzita di mia suocera Madame la President e della sua ridicola lettre de cachet, ma le sue guardie no, son idiote e corruttibili, e una di loro dorme nella mia cella come un bambino, ogniqualvolta la notte venga punto da vaghezza di uscire. E stanotte sono uscito, Latour meco, proprio per cercare voi pezzenti, per farvi diventare gli eroi silenziosi di una nazione vessata da un sistema giudiziario corrotto fino al midollo e da un monarca imbelle e incapace di ascoltare il grido d’aiuto del suo popolo” concluse, soddisfatto “Adesso che è tutto chiaro, Latour, possiamo andare, mentre loro restano in attesa di ordini, senza far motto con alcuno di tutto ciò” e stava per andarsene sul serio.

Monsieur, voi farneticate, altro che eroi silenziosi ” lo fermò il poeta “E non ci avete detto niente. In quanto agli ordini, pregevole marchese, Gobemouche non ne dà e non ne riceve!”

Monsieur le marquis, benché bizzarra sia la situazione, non solo concordo con Michel, ma son tentato di sporger denuncia a Bernard-René de Lanuy che ho modo di conoscere di persona, visto che siete chi siete” si inserì un po’ a caso il dottor Lassone (4), che non aveva capito niente e che si era perso l’antefatto; poi, pulendosi gli occhiali col fazzoletto di seta “e senza dubbio concordo con voi da tempo che egli sia un buffone”.

“E a me” gridò fra Etienne “non è chiaro il perché siate qui, se non per dannare l’anima degli amici miei, le persone qui presenti, e per prendervi l’anima del ragazzo. E vi dico che dovrete passare sul mio cadavere, come vi dico che pezzente potete chiamarci vostro padre, boia d’un mondo!” e terminò “Carità, monsieur Sanson, è solo un modo di dire”.

“Io con la morte non scherzo” affermò il borreau, e non rivolto a fra Etienne, avvicinandosi.

Monsieur le marquis, se posso permettermi, siete stato un filo frettoloso. Forse dovreste accennare al taccuino e anche alla vostra idea” si permise, appunto, Latour, di consigliare.

“Ah, giusto” annuì de Sade, come se gli fosse appena tornato in mente “Son chiuso e prigioniero in tutto, tranne che nella mente, detenuto senza diritto né ragione, ma riesco lo stesso a fare la mia parte per la distruzione di un governo di sporcizia riprovevole. Intenzione cara a tutti, qui. Qualche tempo fa ho avuto modo di vivere una singolare avventura, che è stata scatenata da monsieur Joss le petit qui presente (5) e alla conclusione della quale ho avuto la curiosità e la bontà di prendere informazioni su di voi, che sapete di cosa parlo. Latour?”

Il valletto – che a un valletto non somigliava, in realtà, col corpo massiccio, tozzo e vagamente deforme senza che fosse presente qualche reale deformità, e ancora meno rassicurante sommato a quella notizia che il marchese aveva fornito, insensibile al dolore fisico – il valletto estrasse un taccuino nero, che fece ammutolire tutti.

“Voi, prete, per esempio, che avete tanto da dire” iniziò “Ci risulta che non siate nato prete – rise, come a una battuta riuscita – , e che abbiate avuto di che dire col visconte ancora feudatario delle vostre terre d’origine, nella campagna del Bordeaux. Pare che, giovinetto, vi siate misurato a pugni col rampollo vostro coetaneo, e lui ne sia uscito affetto da una zoppìa eterna e con la faccia diversa da prima, soprattutto naso e orecchie. Si dice che siate stato buttato fuori a calci dalle vostre terre d’origine e che tutto ciò sia avvenuto perché…  volevate difendere un bambino che stava rubando frutta?”

Fra Etienne fece il volto nero.

“Era una bambina” disse, in un soffio, e strinse la corona.

“Vi siete fatto frate giovane, prima dei trent’anni. Per sfuggire alle ritorsioni del visconte? O per scontare qualcosa, frate, per scontare tutta la vita qualcosa che non si può raccontre? E si dice che siate approdato a Parigi già vecchiotto, invece, e ovunque c’eravate voi sono migliorate le condizioni della plebaglia e peggiorate quelle dei signori, senza motivo. Pare anche che abbiate voi stesso trasformato il retro della canonica in un orto, senza il permesso del vescovo, che non ha mai avuto l’onore di un vostro dono o di una vostra visita. E sembra che, fosse stato per voi, il conte di Bruges sarebbe morto senza  l’estrema unzione, perché eravate al capezzale di una famiglia di poveracci col vaiolo, a curarli con le vostre mani. Si fanno parzialità, dunque, prete” si interruppe Latour, ma sorridendo.

“Io rendo conto solo a Dio, e a Lui rendo conto sempre!” tuonò fra Etienne.

“Cioè al nulla, rendete conto” si inserì, dolce, il marchese “Nessuno qui giudica, buon uomo, figuriamoci io. Dico solo che su ciascuno di voi ho già un’idea, e l’idea è che potete essere quelli giusti per far le veci  di mia  longa manus  in questo momento in cui non ho mano libera. Nemmeno occorre precisare che non c’è uomo senza macchia. E a Parigi si sta bene finché nessuno si accorge che esisti”.

“Lasciate in pace il prete” disse allora Sanson, avvicinandosi ancora “Non so i signori qui, ma io non sono ricattabile”. Lo disse a voce bassa ma chiara “Quindi me ne vado” concluse, senza degnare di uno sguardo nessuno, nemmeno Foret che si era nascosto dietro Joss, né lo stesso Joss che fissava il quadernetto in mano a Latour e sentiva forte la paura che adesso quell’uomo leggesse ad alta voce che lui aveva pensato –  ma raramente –  di poter un giorno concedersi di immaginarsi davanti all’altare di una chiesa, vestito col suo vestito buono, e che ci sarebbe stata una donna – non bella, non delicata, ma una donna, innamorata di lui – che avanzava al braccio del padre, e che sorrideva sotto un velo tutto bianco, pronta a dire di sì a lui; e a quel punto, quando quel Latour avesse letto davanti a tutti, tutti avrebbero riso di lui e della sua pretesa di poter sognare una moglie, avrebbe riso anche l’affresco con la morte, il marchese de Sade si sarebbe piegato in due davanti alla sua ridicolaggine da poveraccio inconsapevole, e Joss avrebbe dato una mano, in quel momento, per poter dire: “Non sono ricattabile”. Foret, spaventato, lo sentiva tremare.

“Io invece mi sa di esser giunto nella serata sbagliata” disse il dottore, con filosofia “Nessuno è senza macchia”, e non aggiunse altro.

Gobemouche calcolava a mente quante pagine potessero esserci su di lui, con una certa rassegnazione.

Il boia aveva quasi raggiunto la porta quando si fermò d’improvviso. Sembrò iniziare una conversazione con qualcuno che non c’era. Scosse la testa e alzò il braccio enorme, e chiuse la mano enorme a pugno.

“Ascolta quest’uomo, Sanson, ascoltalo. È fatale” gli sussurrò la Morte, senza insistere; Foret, che vedeva la Signora Nera con la bocca bella e rossa parlare all’orecchio del boia che scuoteva la testa, avrebbe detto che era educata, là dove Sanson grande e grosso quanto Joss sentiva raggelarsi la dorsale e le gambe diventare molli quando Lei gli parlava.

Latour disse piano: “Quell’uomo è pazzo. Decollare la gente l’ha reso pazzo” e Sade, interessato al dolore che percepiva nello sforzo insensato e nell’inutile resistenza di Sanson, si limitò a un: “Chissà”.

Infine il boia, che aveva l’aria di un uomo lacerato, che aveva sostenuto una battaglia superiore alle sue forze, senza una parola tornò indietro, si sedette su una botte, e si unì di nuovo al gruppo. Solo nella sua mente, de Sade disse: “Lo sapevo”.

“Signori, se vorrete porgermi orecchio, stasera facciamo la Storia!” declamò il marchese.

Poi, d’improvviso, chiamò Foret. Joss non voleva lasciarlo andare, pensava anzi di mandarlo via, che non sta bene che i ragazzini sentano certe cose – perché ormai era chiaro che tutti sarebbero rimasti, anche Michel Gobemouche che era silenzioso e pareva impossibile, Gobemouche silenzioso, il divin marchese sovvertiva l’ordine costituito – ; ma Foret gli sgusciò dalle mani come un serpentello, e si avvicinò a quell’uomo tutto nero e con la faccia severa; e con severità Donathien Alphonse de Sade lo guardò, gli scompigliò i capelli, e gli disse: “Quella storia lì, quella della brava persona, vediamo di non raccontarla tanto in giro, ragazzo con la Luce, perché mi rovini la reputazione” e Foret sorrise.

    <2>Cfr. E dei remi facemmo ali al folle volo I-XIII, mia, sezione LADY OSCAR. Chi non avesse voglia di confrontare, lo prenda come un dato di fatto e un espediente narrativo.

    <3>Informazione tratta dalla sinossi del volume Nicolaj Frobenius, Il valletto di de Sade, Ponte alle Grazie. Dico “sinossi” perché non ho ancora letto il romanzo. Ho già creato un personaggio di totale fantasia, in passato, descritto come insensibile al dolore fisico; ma se il valletto di Sade lo era, ed essendo così in tono col resto, mi riservo di usare l’informazione, preziosissima.

    <4>Brevissimo, da Wikipedia:  Joseph-Marie-François de Lassone, detto anche François de Lassone (o Lassonne ), nato a Carpentras ( Vaucluse ) il 3 luglio 1717 e morto il 10 dicembre 1788 a Parigi, è un medico francese. Primo medico del re Luigi XVI, fu anche medico delle regine Maria Leszczynska e Maria Antonietta . Nella totalmente personale e antistorica mia interpretazione, gli attribuisco un ruolo e una vita che non ha avuto, ne forzo l’età e pure la cronologia.

    <5>Riferimento all’affaire del Maudit, alla base della mia E dei remi facemmo ali al folle volo I-XII, sezione LADY OSCAR; chi non avesse voglia di confrontare, lo prenda come un dato di fatto e un espediente narrativo.

 

  
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