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Autore: haamlet    21/11/2022    1 recensioni
Satoru.
Sei, le lettere per descrivere un ragazzo fattosi giovane uomo troppo in fretta, e di conseguenza mai completamente.
Sei, le sillabe che univano il nome suo a quello del corvino.
Sei occhi.
Sei motivi, dal canto di quest’ultimo, per intersecare il proprio destino al suo come la fine trama d’un bell’arazzo, e non sciogliere più il nodo. O sette. O dieci. O cento.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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     You and I : open gauges spilling with feeling, filling every street. Were you a dream? You were my own personal comet. You were my own personal rain. Loving you made me understand why people lived. Loving you was living to me. You were all mine.  

 

            Cosmos     Blegh

 

 

Ci voleva del coraggio a riconoscere nel volto di un’altra persona la sagoma di un’ancora cui aggrapparsi nei periodi di mare mosso; quando il fondale appariva troppo distante ed instabile per costituire sicurezza alcuna a piedi troppo stanchi per mantenere a galla un fisico oramai condotto allo stremo.

 

Suguru non era mai stato propenso a simili vulnerabilità dello spirito; restio all’idea di crogiolarsi in esse senza criterio, come se parole d’amore ed intrecci d’emozioni altro non fossero, se non incrinate fondamenta di cristallo che minacciavano di cedere a ciascun suo passo. Ma vero era anche ch’egli trovasse conforto in pur morbide accortezze capaci di preservarlo da quel turbinio di sentimenti, in grado di sbocciare come primule a marzo per via d’un ben piazzato incrocio di sguardi, od uno sfiorarsi di dita — cauto nel concedersi alla poetica incognita dell’esporsi ad un fuoco diretto.

 

Prudente nell’abbandonarsi alla possibilità di farsi spoglio d’animo in un modo che lo faceva assomigliare quasi ad una figurina di vetro fra le mani dei rarissimi fortunati che tuttavia mancassero della clemenza necessaria ad aver rispetto della sua occasional diafanità.

 

E stupido gli sarebbe apparso anche solo pensare di considerare quella propria capacità come una pecca ; un qualcosa da temere o correggere.

 

Volgeva a suo favore, dopotutto, salvaguardando quello stesso cuore altrimenti troppo propenso all’essere ingoiato alla pari delle maledizioni da lui esorcizzate nel quotidiano.

 

Volgeva a suo favore, sì, quando gli capitava di supplicare il Cielo per ottenere un poco di tregua da quell’uragano che portava in petto, o almeno un balsamo che potesse lenire le crepe che aveva accumulato negli anni a suon di perdite e di serate passate a trattenere il bisogno di rigettare, e l’universo rispondeva restituendogli una soluzione tascabile sotto forma d’una chiassosa testolina di capelli bianchi dal carattere troppo eccentrico per essere digerito da molti, ma che tanto perfettamente si sposava con lo stomaco oramai reso forte dell’altro studente.

 

Satoru .

 

Sei, le lettere per descrivere un ragazzo fattosi giovane uomo troppo in fretta, e di conseguenza mai completamente.

 

Sei, le sillabe che univano il nome suo a quello del corvino.

 

Sei occhi.

 

Sei motivi, dal canto di quest’ultimo, per intersecare il proprio destino al suo come la fine trama d’un bell’arazzo, e non sciogliere più il nodo. O sette. O dieci. O cento.

 

Solo sei, le coppie di giorni che questi ci aveva messo per ribaltare completamente la percezione della realtà di Suguru per come questi l’aveva conosciuta, sfatando del tutto il mito che servissero almeno ventuno albe per sviluppare un’abitudine, e sessantasei per mantenerla in via definitiva. Assurda, la spontaneità con la quale i loro ‘buon pomeriggio ’ si erano trasformati in ‘buona serata, allora! ’, ed infine in, ‘hey, buongiorno, hai dormito bene? ’ — sinonimo del fatto che v’era un che di dettato dal fato, nella trasparenza che li aveva condotti l’uno all’altro come i poli opposti d’una calamita.

 

Se vi era una cosa che nei mesi passati all’Istituto Getō aveva compreso, a tal proposito, era che tanto a lui era stata concessa la possibilità di indagare nei meandri della ragione di Satoru, smontando ciascuna delle bizzarre idee che costellavano quella testolina frizzante - a molti ancora capace d'apparire come un enigma irrisolvibile, - quanto, di riflesso, per il più grande era stato aperto uno spiraglio per osservare a propria volta. E non v'era secondo che passasse nel quale la sorpresa legata alla semplicità racchiusa in tale lettura dei suoi stati d'animo non meravigliasse il minore dei due.

 

Gli capitava, di tanto in tanto, di domandarsi se si trattasse d'un meccanismo consapevole, oppure condotto dal puro istinto — gemma scintillante in un soggetto che già di per sé pareva brillare di luce propria, e baciata da un caso che a quel giro aveva preferito sorriderle. Ma solitamente non aveva bisogno di molto per balzare alla conclusione che nemmeno gli importava di reperire una risposta ad un simile quesito, presto scivolato in secondo piano.

 

Nulla avrebbe cambiato, dopotutto, il fatto che Satoru, dalla sua comparsa alla scuola, si fosse fatto presto spazio nella sua esistenza, incidendo il proprio nome nella pelle altrui. Scavando nei suoi capillari ed arrivando a scorrere nelle sue arterie sino a raggiungere ogni estremità del corpo dell’altro studente, attraverso il quale aveva imparato a guardare come se fosse fatto di carta velina, per trovare in lui nulla di più di Suguru Getō .

 

Non uno stregone di livello speciale, possessore di maledizioni.

 

Non il più forte,  al fianco suo.

 

Non il figlio di sua madre, o di suo padre.

 

Non la speranza del mondo del Jujutsu .

 

Senza le medesime aspettative stellari che i piani alti rigettavano addosso alla sua persona, quasi dimenticando la tenera età anagrafica dipinta nero su bianco sui documenti della sua iscrizione, e senza pretendere da parte sua doveri nei confronti di niente e di nessuno, se non di quel tempio di carne e desiderio le cui porte battevano contro le labbra di Satoru, il quale, in tempi di crisi, l'aveva spinto in ginocchio e reso un credente.

 

E non una singola traccia di remor restava nell'aria, quando v'erano le mani di seta del Sei Occhi a disegnare ghirigori d'oro e d'argento sui cantoni più remoti del fisico del corvino; di quel suo bisogno di non tentennar mai, di non lasciarsi fermare da ostacolo alcuno che la vita gli ponesse dinnanzi e di spingersi ogni giorno oltre il limite di quanto da egli conosciuto, per aiutare sempre più persone e puntare sempre più in alto, a qualcosa di sempre più utile, più efficace, più importante .

 

Semplicemente più .

 

Ed ogni volta era dunque sotto il peso di tali polpastrelli, intenti a seguire una traiettoria sbilenca come il volo d'una mosca, che Suguru, in un istante, si sentiva rientrare nei propri panni.

 

Quelli veri.

 

Onestamente parlando, non era mai stato abituato ad accogliere le attenzioni d'altri, o almeno di quel tipo. Quelle imbevute di premura, mirate a toccare le corde più sensibili dell'animo suo, così da farle vibrare all'interno del suo petto e mettere in moto il suo intero essere sin nei suoi livelli più profondi, altrimenti irraggiungibili.

 

Ma sedici anni, e poco più, e quasi avrebbe potuto compiere l’azzardo di sostener d’aver trovato il proprio equilibrio, al fianco di Gojo; lontano dagli estremi costituiti dal ricever troppe accortezze, oppure mai abbastanza. Salvo sia dal dolor del gelo che pungeva lo spirito, com’anche dal focoso fastidio che anzi spingeva tante bocche più sfortunate a rifilare a chi stesse loro attorno parole di scoraggiamento, volute ad un repentino allontanamento. Beato, anzi, dalla possibilità di crogiolarsi in quella sua lampante bramosia d’affondare i denti nella pelle candida del collo o dell’inguine di Satoru, sino a spazzare via ogni milligrammo di poesia presente nell’aria. Ogni supplica, ogni richiesta, ogni preghiera — tutto voluto al contempo a penetrar oltre la sua epidermide; ad elettrificare il suo midollo e risucchiar la canzone delle corde vocali altrui, sino a rendere quest’ultimo un groviglio disordinato di sguardi languidi e sospiri senza filtri e senza vergogna.

 

Suguru, scriteriatamente sottratto a quel suo star male adolescente; quel suo disagio d’esser qui , e non aver dove .

 

Suguru, allontanato dal suo placido rimaner fermo a fronte del più insistente dei venti, per via d’un paio d’occhi celesti che mai mancavano di rendergli il timbro altalenante e colmo di un’esitazione legata sin nella più ridicola misura alla sua incapacità di sostenere il peso di quelle stesse iridi.

 

Suguru, che sempre aveva trovato una fonte di sollievo nell’idea di lasciarsi alle spalle una porzione della propria vita per poter ricominciare da capo, in vesti nuove, ma che non riusciva ad avvolgere il proprio pensiero attorno alla possibilità di svegliarsi, un mattino, senza ciocche candide a solleticare l’incavo del collo suo.

 

Uno  Stanotte ti voglio mio , ‘  come un mantra ripetuto ad ogni sorgere di luna; liturgia d’ambrosia inzuppata in una spuma di carezze di miele e rosa canina.

 

Un  Mio, mio, mio , ‘  come un canto — linguaggio d’amore che diventava amore reso linguaggio. Sillabe pretenziose ed amabili promesse di disfare la saggezza dei proverbi con cui lo stregone più giovane era cresciuto e trasformarsi in un Mida capace di render oro ogni lembo dell’altrui persona che agli occhi suoi luccicava.

 

La risposta,  Mille volte mio . 

 

  Mille volte tuo . 

 

Dolce lo sventolar bandiera bianca alle porte del tocco altrui, sirena dalla voce morbida che con tanta naturalezza riusciva in ogni occasione ad eliminare quanto esistente al di fuori, non solo delle mura delle stanze dell’Istituto, ma persino del perimetro ridotto della superficie occupata dai loro corpi, e dai loro corpi soltanto.

 

Velo, dopo velo, dopo velo, corpi privati d'ogni tessuto e minimo infinito che li tenevano distanti dall'operato di palmi caldi. Nessuna opposizione riservata alla mappatura reciproca di quei fisici in pieno sviluppo, secondo quell'agrodolce gioco d'incastri e favori restituiti che oramai da un anno a quella parte li stava tenendo inchiodati l'uno all'altro; attratti dalla reciproca carne come pagliuzze di ferro in vicinanza d'un magnete. Il fragil senno di Getō, affogato nell’oceano composto dalle sillabe che costituivano l’altrui nome.

 

Satoru, Satoru, Satoru.

 

Satoru , la cui sola essenza pareva colmargli i polmoni come non l’aria, ma solo il fumo pareva essere in grado di fare, con i suoi ghirigori cinerei dal sapor di vizio e di proibito.

 

Satoru , assolutamente imparagonabile a qualsiasi altro amante che Suguru avrebbe mai potuto domandare al cielo, supplicando per ottenere quello straccio d'irraggiungibile completezza con la quale aveva finito per cingersi la gola sino a rischiar di soffocare.

 

Satoru , che un giorno sarebbe stato lasciato da parte, poiché mera sosta passeggera in una corsa che altrove vedeva il proprio termine — ma che, comunque, per il momento era sempre riuscito, con il tracciato delle proprie unghie lungo la schiena dell’altro stregone, a grattar via qualsivoglia macchia di senso d’inadeguatezza o di rimorso.

 

Ché, in presenza del Sei Occhi, per la prima volta il corvino non si sentiva portavoce, personificazione unica , né dell'una, né dell'altra cosa.

 

Non soltanto.

  
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