Film > Luca
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    28/11/2022    0 recensioni
[Pre-Canon]
---
Valentina Milani è una ragazza come tante, una su un milione. Una inguaribile pigrona, golosa di pasta e gelato, solare e chiacchierona, anche se un po’ frivola, appassionata di meccanica e di motociclette, e affezionata ai suoi due migliori amici d’infanzia. Nata e vissuta nel piccolo paese di Portorosso, circondata dalle solite strade, le solite facce, il solito mare, le solite tradizioni, le solite leggende sui Mostri Marini, ha sempre sperato in una qualche novità in grado di stravolgere la sua vita e di strapparla a una quotidianità che ormai le calza sempre più stretta.
L’arrivo in paese di un giovane straniero potrebbe esaudire questo suo desiderio e cambiare per sempre non solo il corso della sua vita, ma anche l’intera visione del mondo che l’ha sempre circondata.
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
- Questa storia fa parte della serie 'Le Cronache di Portorosso'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Per la serie: la pre-canon che nessuno ha chiesto ma che io avevo bisogno di scrivere. Come di consueto, spero che questa storia possa tenere una piacevole compagnia a tutti coloro che decideranno di avventurarsi nella lettura. :)

Vi inserisco qui anche il link per la medesima storia (la pubblicazione procederà in parallelo) che ho postato su AO3. Lo faccio per chi magari volesse prima dare un occhio ai tag e ai vari trigger warning, a scanso di equivoci. 

 

 

Avviso Numero Uno!

Questa storia fa parte della serie Le Cronache di Portorosso, e si sviluppa sulla stessa linea temporale della mia long L’Ideale del Paguro, anche se raccoglie gli avvenimenti ancor precedenti al film originale. Io sono una delle sostenitrici dell’headcanon che la madre di Alberto fosse umana. (u.u)

A parer mio può anche essere letta separatamente, essendo un prequel, eccezion fatta per questo primissimo capitolo che riprende una scena ambientata in uno dei capitoli dell’Ideale. Potete trovarlo a questo link, nel caso voleste approfondire la lettura (o per un semplice ripasso) e nel caso voleste un’introduzione più dettagliata di Eros, un mio OC a cui affiderò un ruolo importante durante il corso di questa storia.

 

Come noterete presto, poi, ogni capitolo (o ogni arco narrativo) ha il titolo di una traccia del Gianni Schicchi, l’opera di Puccini. Non credo esista una lista ufficiale con i nomi delle tracce, dato che ogni adattamento e ogni versione le suddivide in maniera diversa, quindi mi sono un po’ arrangiata utilizzando i titoli che mi erano più comodi. Spero non me ne vogliate per questa piccola libertà artistica (xD).

Il Gianni Schicchi sarà comunque un elemento cardine, a livello di trama, un po’ come i Malavoglia lo sono stati per L’Ideale del Paguro.

 

 

Avviso Numero Due!

Come appunto avevo già specificato nell’Ideale, per la mamma di Giulia ho scelto il nome “Sara”. Lo metto per inciso dato che lei risulterà un personaggio ricorrente e fondamentale.

 

 

Avviso Numero Tre!

In questa storia ci saranno delle occasioni in cui verrà pronunciata la parolaccia xenofoba che comincia con la T… perché noi del Nord Italia siamo tutti Leghisti Brutti e Cattivi.

Al solito, non giustifico l’uso della parola con la T al di fuori di un contesto puramente fictional – bla bla bla –, non giustifico alcun genere di discriminazione né nei confronti degli italiani né degli stranieri – bla bla bla –, ormai l’ambaradan lo conosciamo più che bene, o no?

Prima di addentrarci nella lettura, stringiamoci tutti intonando un inno alla tolleranza e all’inclusione.


 

 

 

La cosa più pericolosa

 

 

 

 

 

Accordatura – In Dei Nomini

 

 

La cicatrice quella sera aveva ricominciato a pulsare, a scottare lungo la pelle del viso bruciato dall’abbronzatura e scorticato dalle rughe di vecchiaia, a scavare un solco di dolore dalla mandibola, lì dove nasceva, fino al lobo dell’orecchio destro.

Eros si portò una mano alla guancia, percorse la cicatrice, ne massaggiò il tratto bianco e liscio, e grugnì di frustrazione, punto da una scossetta di dolore penetrata fino alla radice dei denti.

Non era un buon segno.

Da quanto tempo non bruciava in quel modo? Mesi? Anni? Decenni? Eccezion fatta per le sere più silenziose e solitarie, per le nottate insonni trascorse a rigirarsi fra le lenzuola impregnate di sudore gelato, per ogni maledettissimo giorno di pioggia, quando Portorosso veniva stretta in un grigio abbraccio di nubi e ricordi che riempivano la sua mente di ombre e crudeli bisbigli.

Ma questo dolore era diverso dal solito. Questa era la voce della cicatrice che reclamava la sua attenzione, che riprendeva a sanguinare, che schiariva la nebbia di ricordi, estrapolandoli dal suo cuore ed esponendoli a una luce del tutto nuova. Una luce portata in paese da qualcuno che non avrebbe nemmeno dovuto esistere.

Sugli altri tavoli del Gabbiano d’Argento piovigginarono chiacchiere e risatine spensierate, come se nulla di eccezionale fosse successo quella sera all’osteria.

«… a ‘sto giro però toccava a te offrire.»

«Sì, ma la scorsa domenica io ho messo le sogliole in tavola, quindi quelle valgono come pagamento.»

Gli rispose una risata aspra e gracchiante, più simile a un tossito. «Sei proprio un vecchio tirchio di…»

Eros scrollò il capo, si massaggiò le tempie per allontanare il fischio che gli ronzava nel cranio, e fece scivolare lo sguardo davanti a sé, sul lato del tavolo occupato fino a poco prima da Massimo e dal mostriciattolo.

Un odore acido e liquoroso si innalzava dalla superficie di legno spolverato di briciole di pane abbrustolito e maculato da chiazze di vino rappreso. La caraffa smaltata di bianco e decorata dai fiori di tempera era ancora lì, vuota e sporca come i bicchieri che i due ospiti avevano lasciato prima di depositare una tintinnante manciata di lire nel piattino e di andarsene a casa.

Una goccia di vino piovve dal becco della caraffa. Aggiunse un’altra macchia color prugna alla superficie del tavolo irradiato dalla luce rossastra che attraversava i paralumi delle lampade a forma di conchiglia.

La seggiola dove il mostriciattolo era rimasto seduto durante la serata era ancora leggermente girata di lato, dopo che Massimo l’aveva spostata per caricarsi il ragazzo sulla spalla e portarselo a casa, già ronfante e mezzo addormentato. Ma la presenza del ragazzo era ancora impressa lì, come l’ombra di un fantasma, come se avesse lasciato la sua impronta, una macchia appiccicosa come quelle che sporcavano il tavolo sotto i bicchieri di vino.

Eros pescò una delle olive taggiasche avanzate nella ciotola. La accostò alle labbra che un po’ gli tremavano. Corrugò le sopracciglia, ci ripensò, e la tornò a tuffare in cima alle altre.

Inclinò la caraffa dal cui becco piovve un’ultima goccia di vino rosso e ne sbirciò il fondo. Vuoto. Sventolò la mano e chiamò Angelo per farsene portare un’altra. Ne avrebbe avuto bisogno. Dannazione, se ne avrebbe avuto bisogno.

Riempito il bicchiere, Eros gettò il capo all’indietro e buttò giù un sorso ingordo che aveva il sapore aspro e sgradevole dell’aceto.

Il calore del vino gli salì alla testa. Il ronzio dei pensieri si acquietò e il dolore alle tempie si affievolì, mentre la luce che abitava le pareti dell’osteria si fece più opaca, squagliando l’accozzaglia di ombre e di immagini che gli lampeggiavano davanti a ogni battito di palpebre. Anche le voci dei pescatori si districarono, tornando distinte l’una dall’altra.

«… aah, questa bevuta me la porto sul groppone fino a domani, dannazione. Spero non mi venga un mal di testa come quello di sabato scorso.»

«Colpa tua.» Volò uno scapaccione. «Lo sai di non avere più l’età, vecchio bacucco che non sei altro.»

«Ehi, belinon!» Una manata sul tavolo e il dondolio delle bottiglie vuote. «A chi hai dato del vecchio bacucco?»

Si sparse un coro di risate impastate dall’alcol. Qualcuno tossì, si beccò un paio di manate sulla schiena. Si alternò lo sfogliare delle carte da gioco, lo scroscio del getto d’acqua che riempiva il lavandino dietro il bancone, il trillo di bicchieri di vino che venivano raccolti da Angelo e sostituiti con quelli più piccoli ricolmi di grappa e di amaro digestivo.

Aleggiava una bella atmosfera, lì al Gabbiano d’Argento. Allegra e frizzante, nonostante fosse ormai orario di chiusura.

Avevano appena spento il televisore appeso sopra il bancone. Qualche gruppo di pescatori era ancora radunato ai tavoli per godersi un ultimo goccio di grappa e per giocare l’ultima mano di carte. I più audaci non sarebbero andati a letto. Avrebbero aspettato l’alba per imbarcarsi e dare inizio alla pesca mattutina. Ma chi mai sarebbe stato in grado di prendere sonno dopo una serata tanto fuori dall’ordinario? Avevano bevuto, avevano riso, si erano scambiati le ultime barzellette, avevano giocato a carte fino allo sfinimento, e i borbottii non erano ancora cessati, brillanti e roventi come zampilli di brace. E come avrebbero potuto spegnersi, le chiacchiere e i pettegolezzi, dopo una nottata così surreale?

«Alla seconda mano lo hai un po’ aiutato, ammettilo.» Matteo picchiettò il suo mazzo di carte sul tavolo, pareggiandolo, e lo sventolò verso Simone, rivolgendogli un ghigno divertito. «Ti ho visto, lo hai lasciato pescare quel Fante che tu avevi già adocchiato da due turni.»

Simone allontanò lo sguardo. «È stato il vino.» Sorseggiò dal suo bicchiere. «Ci ho visto doppio e non mi sono accorto che c’era un Fante nel piatto.» Fece schioccare la lingua sul palato. Il vino avanzato oscillò fra le pareti del bicchiere. «Per chi mi hai preso? Sono un professionista, io. Mica faccio favoritismi.»

«Certo, certo» commentò Matteo, nascondendo il sorriso dietro il mazzo di carte fatto sventolare sotto il naso. «Il vino. Come no…»

«Ma per lui quella era la sua prima bevuta, ci credete?»

«Mi sento come se lo avessimo battezzato.» Giovanni innalzò il bicchiere al soffitto. «In nomine vini…» Lo fece trillare contro quello di Simone, ed entrambi scoppiarono in una grassa risata di compiacimento.

«Dobbiamo pensare noi da ora in poi a indurirgli le ossa e a scolpirgli la schiena. Massimo lo tratta come se fosse un pulcino, mica va bene per un ragazzo della sua età.»

«Ma quanto pensate che abbia, adesso?» Simone scoccò a Giovanni un’occhiata interrogativa. «Tredici, quattordici anni?»

«Oh, be’, fammi pensare.» Matteo sollevò gli occhi dal mazzo di carte per rimuginarci su. «Se ora sono passati quasi quindici anni dall’estate che…» Gli arrivò un cazzotto sulla spalla. «Ahu» protestò. «Che c’è? Che ho fatto? Che ho detto di male?»

«Non dovremmo parlarne» digrignò Michele. «Non qui.»

«Ooh, quante idiozie.» Matteo aggiustò la seggiola e si spolverò la manica del maglione. «Mica è un segreto. E ormai lo hanno capito tutti che lui è…»

«Zitto, idiota.» Questa volta fu la pedata di Giovanni a rimbalzargli addosso e a metterlo a tacere. Attraverso un rapido scatto delle sopracciglia, i suoi occhi arrossati dal vino balenarono in direzione di Eros. «Non davanti a Eros.» Anche lui lo mormorò a denti stretti.

«Oh…» Un paio di loro si girarono. Certi arricciarono le spalle, altri finsero di concentrarsi sulle carte da gioco, altri ancora si versarono un altro bicchierino di grappa, raschiarono i piatti per sgranocchiare gli avanzi della cena, e per quell’istante le chiacchiere si acquietarono.

Eros fu del tutto indifferente alle loro parole, così tornò a sprofondare nella sua bolla di solitudine. Aveva bisogno di silenzio, di raccogliersi nei suoi pensieri, di rimuginare su quello che era successo quella sera e su tutti quegli avvenimenti che stavano sconvolgendo Portorosso da più di un anno a quella parte.

Guardò verso l’altro lato del tavolo a cui era seduto. Gli vennero i brividi. Sedersi a tavola davanti a quel mostriciattolo… chi mai avrebbe immaginato che un giorno ci sarebbe riuscito? Che sarebbe stato capace di sopportare la sua presenza e di condividere la stessa tavola, le stesse posate, lo stesso vino? Ed era stato Massimo a portarlo lì da lui. Massimo a cui Eros non rivolgeva né la parola né lo sguardo da più di un anno, da quando aveva saputo che si era preso il mostro in casa, allevandolo come figlio suo, alla pari di Giulia. Si stava prendendo cura di lui donandogli un riparo, del cibo, dei vestiti, affetto e protezione… tutto quello di cui un ragazzo aveva bisogno per vivere sereno e per sentirsi parte di quella che ormai era diventata la sua casa.

Eros aveva odiato Massimo. Si era sentito tradito. Fra tutti coloro che avrebbero potuto rendersi protagonisti di una simile rivoluzione davanti agli abitanti di Portorosso, davanti all’orda dei pescatori a cui era stata concessa l’occasione di consumare quella vendetta che reclamavano da quindici anni or sono… proprio Massimo. Lui che era stato ingannato, che aveva sofferto, che aveva giurato sulle sue lacrime e sul sangue di Eros che avrebbe sterminato tutti i mostri marini che avrebbero osato allungare anche solo una zampa sulle strade del loro paesino. E invece eccolo lì: prendersi il mostriciattolo sotto l’ala del pastrano, difenderlo dalle occhiatacce e dalle malelingue dei pescatori, caricarselo in braccio e portarselo a casa dopo che il ragazzo era crollato di sonno sul tavolo dell’osteria, con le carte da gioco sparpagliate sotto la guancia, un filo di vino a colargli dalle labbra, e la bocca piegata in un sorriso ebbro e insonnolito. Innocuo e adorabile come avrebbe potuto esserlo un ragazzino qualsiasi.

Perché il Cielo mi sta tirando questo scherzo?

Eros si massaggiò la fronte rugosa e indolenzita. Ormai nemmeno i tonfi del vino che picchiavano sulle tempie riuscivano a cancellare l’eco di quei pensieri.

Se penso che mi sono anche preso la responsabilità di stargli dietro, ora che ci sarà da lavorare sull’Ape prima di vendergliela…

Tutte scuse, naturalmente. Un piano ben studiato da Massimo, da Tommaso, e dagli altri pescatori – i più clementi e tolleranti – per far avvicinare Eros al mostro.

E alla fine ci sono cascato.

Forse anche lui si stava rammollendo. Forse non avrebbe dovuto prendere quella decisione dopo aver bevuto tutto quel vino. Forse stava davvero diventando vecchio.

«… potremmo anche chiedere a Massimo se ce lo lascia ogni tanto per quando usciamo in mare.» Matteo se la rise di gusto. «È un gondonetto di quelli giusti. Pensa a quanto pesce si potrebbe tirare su se ci fosse lui a stare dietro ai banchi o a scandagliare il fondale.»

«Ma ci possiamo fidare sul serio? Insomma…» Michele prosciugò la sua grappa, arricciò una smorfia contrariata e tamburellò le dita sul tavolo. «D’accordo che non ha ancora azzannato nessuno, ma rimane pur sempre un…»

«Un ragazzo, è questo che è.» Tommaso, dal tavolo affianco, indurì lo sguardo per rimproverarlo. «È pericoloso tanto quanto può esserlo un ragazzo della sua età, ecco tutto.»

«Sì, e quando sarà cresciuto?» insistette Michele. «Magari l’istinto omicida gli sale quando sono grandi. Magari raggiungono la pubertà e con quella viene anche la sete di sangue.» Si picchiettò due dita sulla tempia. «Per me voi siete matti a fidarvi di lui e permettere che se ne vada a zonzo in mezzo ai vostri figli, alle vostre mogli…»

«E di cos’hai paura?» Tommaso si alzò da tavola, si calcò il basco sulla testa e raccolse la giacca dallo schienale della seggiola. «Che ti trascini in acqua e che ti sbrani le budella? Sta’ tranquillo. Chi mai la vorrebbe rosicchiare una carne secca e rancida come la tua, vecchio bacucco che non sei altro?»

Gli altri seminarono una pioggia di risate che ravvivò l’ambiente della sala da pranzo.

Fra le risa, la voce di Matteo emerse dalle altre. «Ehi, Eros!» esclamò. «Tu che ne dici, che ci mangerà tutti?» Assottigliò uno sguardo più fine e complice. Le guance rosse di vino e gli occhi brilli. «Lui sembra proprio che alla fine non se lo sia mangiato. Forse per i mostri marini non valgono le regole dei genitori che divorano i propri figl – ahu!» Si strofinò il braccio e sbraitò addosso a Michele. «La pianti di seminare sgomitate?»

«E tu la vuoi piantare di seminare una stupidaggine dietro l’altra? Tutti quanti voi…» Gli occhi truci di Michele passarono da un pescatore all’altro. «Abbiate un minimo di tatto, Santo Dio.»

E in effetti tutti, uno dopo l’altro, chinarono il capo prostrandosi come davanti all’altare della chiesa, sentendosi d’improvviso colpevoli per quelle risate e per quegli schiamazzi.

Eros non ci fece caso, aveva altro a cui pensare. Continuò a rivivere quella serata, a soppesare le immagini che si susseguirono come lo sfogliare di un mazzo di fotografie. Il volto del ragazzo, i suoi gesti così crudelmente familiari, quel suo modo scomposto di stare seduto e di parlare a raffica, di sparare idiozie, di sorridere in quella maniera così sfacciata. Sorrisi fieri e sbruffoni che Eros aveva conosciuto in un’altra vita, ormai. Sorrisi che non avrebbe mai potuto dimenticare.

Angelo giunse al suo tavolo per portare via la caraffa vuota assieme ai due bicchieri e al tagliere su cui era avanzata qualche briciola di pane abbrustolito e qualche crosta di formaggio. «Dura, stasera, eh, Eros?»

Eros sbuffò e bevve un altro po’. Quella fu la sua risposta.

Angelo resse il vassoio con una mano sola, si asciugò il palmo sul grembiule e rivolse a Eros uno sguardo più morbido e apprensivo. «Sicuro di sentirti bene? Guarda che non devi sforzarti di…» Fece spallucce. «Di reprimere tutto quello che ti sta passando per la testa. Sappiamo benissimo quanto possa essere stata dura per te, sai, il fatto di averlo qui, di avergli parlato. Forse, ecco…» Lanciò un’occhiata dietro di sé, verso gli altri tavoli. Soffiò un sospiro avvilito, si grattò la nuca e abbassò la voce. «Forse abbiamo fatto male a coinvolgere Massimo. Forse avremmo dovuto lasciare che la cosa si sviluppasse da sola, anche senza tutta la storia dell’Ape e delle faccende da sbrigare in officina, e…»

«Sto bene.» Non era vero, ma quelle ultime energie che gli erano avanzate Eros voleva impiegarle per mantenere intatta la sua integrità. «Smettetela di trattarmi come se fossi di vetro.» Rigirò il vino avanzato laccando di rosso le pareti del bicchiere. «Ho accettato di prenderlo a lavorare con me, mi sembra. Ecco.» Buttò giù un sorso aspro e pesante. «Non è successo nulla che non volessi che succedesse. È stata una mia decisione. Mia e di nessun altro.»

Angelo arruffò i baffi, ci rimuginò sopra e poi i suoi occhi si ravvivarono, come per aiutare Eros a risollevarsi. «Forse le nostre serate saranno un po’ più movimentate del solito, da adesso in poi.» Sorrise e indicò il bancone. «E potrei anche tornare a tirar fuori il vecchio giradischi, dato che il televisore fa sempre le bizze e non si riesce a…»

Eros lo linciò con un’occhiataccia.

Angelo si rimpicciolì nella penombra. Nonostante il capo basso, riuscì a tenere alto quel sorrisetto nervoso. «N-no» balbettò. «Certo che no. Sarebbe ancora una pessima idea.» Si girò per sventolare un rapido saluto a Tommaso che si stava dirigendo alla porta dopo essersi abbottonato alla giacca. A voce ancor più bassa, tornò a rivolgersi a Eros. «Ascolta, non dare troppa retta a quello che dicono.» Posò il vassoio sul tavolo. «Insomma, non sappiamo nemmeno…» Si sedette al posto occupato poco prima da Massimo. La sua voce sfumò in un bisbiglio. «Non sappiamo nemmeno se Alberto possa sul serio avere qualcosa a che vedere con…» Deglutì. Le sue guance sbiancarono e le sue labbra tremolarono sotto i baffi. «Con lui.»

«Balle.» Eros rispose in fretta, senza pensarci nemmeno mezzo secondo. «Certo che ha qualcosa a che vedere con lui. Ha tutto a che vedere con lui.» I ricordi gli martellarono la testa e la cicatrice bruciò come una scossa elettrica, come il giorno in cui aveva sanguinato per la prima volta. Bruciò come un sorso di liquore buttato giù d’un fiato, come tutto il vino che gli ribolliva nello stomaco.

Eros sapeva di non sbagliarsi. Non poteva sbagliarsi. Lo aveva capito dall’istante in cui aveva visto il ragazzo valicare la soglia del Gabbiano d’Argento, proprio come aveva visto il mostro entrare in quella stessa osteria quindici anni prima. Era il ripetersi di un ciclo, di una spirale maledetta. Incrociando quella faccia, il cuore gli si era fermato e lo stomaco si era annodato in un groppo di nausea. Aveva rivisto quel muso che tanto aveva sperato di dimenticare e che, nonostante gli anni trascorsi, ancora continuava a perseguitare i suoi incubi.

Il muso di quella creatura grondante che, ringhiando sotto la pioggia e rizzando le squame sotto gli abiti, aveva brandito gli artigli, graffiato un fulmineo lampo blu sotto la pioggia, e colpito Eros in pieno viso. Disarmato dell’arpione, Eros era caduto di schiena. Un rauco gemito al sapore di polvere e ferro. Un’esplosione di scintille sotto le palpebre strizzate. Le mani aggrappate alla guancia già gonfia, dolorante, e imbrattata di sangue bollente.

Il mostro aveva sventolato la coda, era avanzato sotto la pioggia seminando impronte di sangue sul suolo di pietra, aveva calpestato l’arpione spezzandone l’asta, e aveva allargato la sua ombra su di Eros. Un velo di condensa era vibrato fra le sue zanne bianchissime e socchiuse. Gli occhi accesi come tizzoni nonostante l’oscurità calata sul suo muso. Gli occhi iniettati di sangue di un demonio emerso dall’Abisso.

Maledetta bestiaccia.

Eros si massaggiò la guancia, percorse il profilo dolorante della cicatrice attraverso cui si materializzò un ghigno amaro. «Come se potessi dimenticarmi il muso del disgraziato che mi ha fatto questa.»

Angelo sapeva che aveva ragione, ma azzardò comunque un altro tentativo, come se si fosse trattato di vincere una partita a carte. «Eros, ascolta. Lo sai come sono queste…» Impastò le parole, in cerca di quella giusta. «Queste creature. Si somigliano un po’ tutte, ed è facile confondersi, credere che una sia uguale all’altra.»

«Ma io sono certo di averlo riconosciuto.»

«Magari la tua non è una vera certezza.»

«E allora cosa sarebbe?»

«Una speranza.»

Eros stritolò il bicchiere fra le dita tremanti. Le unghie giallastre stridettero sul vetro. Una speranza. «E che cos’è che starei sperando?» sbottò. «Di ritrovarmelo davanti? Magari per porgergli l’altra guancia? Mi auguro tu stia scherzando.»

«La speranza di una seconda opportunità.» Angelo si rialzò e diede una pulita al tavolo con lo strofinaccio. «Non per quello che è successo con lui, ma per com’è andata a finire con lei.»

Eros rabbrividì lungo la curva della schiena ingobbita. Si morsicò le labbra aride, sporche di vino, e ingoiò a vuoto per incassare l’improvvisa fitta di dolore che era sprofondata fra le costole. Ringraziò di essere troppo debole, stanco e ubriaco, altrimenti non ci avrebbe pensato due volte a scaraventare un pugno sui denti di Angelo, facendogli rimangiare quello che aveva appena detto.

«Hai già sofferto abbastanza, Eros.» Angelo ripiegò lo strofinaccio e rivolse a Eros uno sguardo premuroso. Paterno. «Ascolta il mio consiglio da amico e lascia perdere questa storia. Sta’ con il ragazzo, se ti va. Prendilo a lavorare con te e rimanigli vicino. Ma non sperare di trovare in lui qualcosa che non ti può più essere restituito.» Scosse il capo. «Non sperare di vedere in lui qualcosa che non gli appartiene.»

«Ma io non sto sperando di vedere in lui qualcosa che gli appartiene.» Un lungo sospiro svuotò il cuore di Eros di tutta la tensione che gli si era aggrovigliata nel petto. «Io so che gli appartiene e basta

Dopo un battito di palpebre, il viso del ragazzo si materializzò sotto una luce più tenue, tiepida e carezzevole come il rossore di un’alba estiva.

Affiorarono le prime lacrime, gli occhi scottarono, ma Eros fu abbastanza testardo da stringere i denti e da ricacciare indietro il pianto. Attraverso quella calda vampata di emozione, però, lo raggiunsero sussurri in grado di sciogliere il nero grumo di ghiaccio e di rancore che da anni alloggiava nella sua anima.

Nonostante avesse trascorso tutta la serata a schivarli, Eros rivide gli occhi di Alberto, il loro verde. E da quel verde sbocciò un altro paio di occhi identici.

Occhi che gli sorridevano da una culla foderata di bianco, quando Eros si chinava a baciare le manine di quella creatura in fasce così pura e innocente. Occhi che splendevano al sole dopo una giornata d’estate trascorsa a divorare gelati, a sguazzare fra le onde del porto, e a correre a piedi nudi fra le vie del paese. Occhi che bruciavano di frustrazione dopo un’arrabbiatura, un litigio con la mamma, e da cui Eros si premurava di asciugare ogni singola lacrima. Occhi che si incantavano di meraviglia davanti al rombo di un motore e allo sfrecciare di una motocicletta. Occhi che scintillavano di contentezza quando Eros si caricava sulle spalle quel corpicino tondo e morbido per aiutarla a tendere le braccia verso il cielo, a pescare le foglie dagli alberi, e a contare ogni singola stella della notte. Occhi che sfarfallavano facendo girare la testa a tutti i ragazzi del paese. Occhi che ti scioglievano il cuore, avvolgendolo nel più dolce e amorevoli degli abbracci.

«Io lo so» ribadì Eros. «Perché un padre non dimentica gli occhi di sua figlia.» Chinò il capo fin quasi a toccare il tavolo con la fronte. Gli tremò il mento, il cuore batté un palpito sordo. «Mai.»

E fu allora che capì perché non fosse stato in grado di sostenere lo sguardo del ragazzo, perché non fosse riuscito nemmeno a toccarlo, a stringergli la mano quando lui gliel’aveva porta, e perché fosse raggelato quando il mostriciattolo aveva sputato sul palmo, rendendolo blu e squamoso, e gli aveva allungato la stretta per siglare il loro patto.

Eppure aveva accettato di rivederlo. Si era assunto la responsabilità di prenderlo a lavorare assieme a lui, e adesso lo avrebbe visto sbucare in officina ogni giorno. Lo avrebbe visto gironzolare fra i suoi arnesi, e incantarsi davanti alle auto da aggiustare e alle moto da rottamare, curioso e ficcanaso come lo era lei; avrebbe dovuto tenerlo lontano dalla saldatrice e dal compressore, perché si sarebbe rivelato maldestro e pasticcione come lei; lo avrebbe sentito blaterare e riempire le quattro pareti di inutili chiacchiere, logorroico ed esasperante proprio come lei. Non seppe ancora se considerarla una maledizione o una benedizione.

Non si era mai trattato di fare un favore a Massimo, di cedergli l’Ape nonostante il proposito di rottamarla. Forse era vero che Eros avrebbe usato il ragazzo solo per rimediare agli errori del passato, per illudersi che fosse possibile tornare indietro e redimersi l’anima. Ma Eros era vecchio, era stanco, era un uomo tormentato. Quanta malvagità poteva nascondersi dietro la sua intenzione di donare anche solo un piccolo sollievo a quelli che sapeva sarebbero stati gli ultimi anni della sua esistenza? E, anche se si fosse trattata solo di un’illusione, anche se la sua unica intenzione fosse stata quella di vedere nel ragazzo il riflesso di qualcun altro, non gli importava. Se avvicinarsi al ragazzo lo avrebbe aiutato a ritrovare la pace, allora non si sarebbe tirato indietro. Ne aveva abbastanza di soffrire.

Anche Angelo seppe di non potere nulla contro le parole di Eros, contro quella sua ultima affermazione. “Perché un padre non dimentica gli occhi di sua figlia.” Lo sapeva anche lui come lo sapeva Massimo, come lo sapevano ormai tutti gli abitanti del paese.

Annuì e si allontanò dal tavolo, lasciando Eros alla sua solitudine e al suo dolore. Un dolore che in qualche modo apparteneva ancora a tutta Portorosso.

Rimasto solo, Eros ingollò un altro avido sorso di vino. Si strofinò la bocca spazzolata dai baffi incolti, si massaggiò la cicatrice, tutto il suo bruciore, e accolse il fiume di ricordi, senza resistergli. Si abbandonò alla loro luce sperando che fossero dolci, che si dimostrassero clementi con il cuore di un povero vecchio. Con la speranza che lo aiutassero a perdonarsi e a ritrovare la pace perduta.

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Luca / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_