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Autore: IndianaJones25    02/12/2022    2 recensioni
«Ehi, Indy…» ho detto, tra il sorpreso e l’incredulo. Perché okay, mi sta bene tutto, ma trovarmi Indiana Jones seduto di fronte… eh, non so quante volte possa succedere, una roba del genere. A voi è mai capitato? Io ho qualche dubbio, in proposito...
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Henry Walton Jones Jr.
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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GRAZIE INDY

 

Lago di Garda, dicembre 2022

 

Il cursore lampeggia sulla pagina bianca. Nelle mie orecchie risuonano le note delle colonne sonore di John Williams. Ovvio, nemmeno a domandarselo: quelle dei film di Indiana Jones. Ultimamente, per scrivere, ascolto altri tipi di musica – la musica, di qualsiasi genere, mi ha sempre aiutato a concentrarmi – ma stavolta ho voluto concedermi questo tuffo nel passato. Mi hanno sempre tenuto compagnia in momenti come questo, quando mi accingevo a dare vita a una nuova avventura di Indiana Jones, e mi è sembrato giusto farle partire anche adesso. C’è sempre qualcuno che mi dice di abbassare lo stereo per non disturbare i vicini di casa. Manco lo tenessi a volumi improponibili, poi. Come diceva quello – e credo che quello la sapesse molto lunga – me ne frego. In questo caso specifico, me ne frego dei vicini di casa – e anche di chi c’è in casa, perché so bene che, in realtà, dicono così perché la musica dà fastidio a loro, prima che agli altri. Non ho mai sentito loro preoccuparsi di non disturbare me. Ma tant’è.

Se ve lo state domandando, no, non è stato Mussolini il primo a dire me ne frego. A dire il vero, non sono nemmeno certo che lo abbia mai detto, anche se in molti glielo attribuiscono. Un po’ come il naso lungo di Cleopatra, che però nessuno ha mai visto. E non è stato nemmeno Achille Lauro. È stato Gabriele d’Annunzio. Poeta armato, amante guerriero e via discorrendo. Era il motto dei Legionari di Fiume. In alternativa, usava dire me ne strafotto. Ma ora questo mica c’entra con quello che mi accingo a fare, giusto?

Corrugo la fronte, cercando di bloccare e di dare forma all’idea che mi si va dipanando nella mente. Devo riuscire a visualizzare per bene la nuova storia, o almeno il suo incipit. Poi, come di consueto, si andrà avanti, riga dopo riga, perché si sa che una cosa tira l’altra. Il resto, il solito flusso di pensieri che non mi abbandona mai – specialmente quando avrei bisogno di chiudere gli occhietti e di fare un po’ di nanna, perché non è che sono un mostro senza sonno, anche se le ore che mi vengono concesse per dormire sono sempre di meno – cerco di cacciarlo nel suo angolino. Ci sono quasi.

Ecco. Forse ho trovato.

Sì, dai; può andare.

Avvicino le mani alla tastiera. Mi concedo un altro breve istante di riflessione. Comincio a battere velocemente. Le mie dita sempre fredde prendono a danzare sulla tastiera, che diviene l’appendice della mia immaginazione. Ancora una volta, sono qui a scrivere, come tante altre volte prima d’oggi e come tante – spero, almeno – nel futuro misterioso che si profila oltre l’angolo.

 

* * *

 

INDIANA JONES E…

 

Cambogia, 1932

 

Il sole, filtrando con difficoltà attraverso il fitto fogliame e le canne di bambù, illuminava a tratti la sagoma dell’uomo che avanzava con passo sicuro in mezzo all’intrico di rami, schivando con molta agilità tronchi contorti e piccoli ruscelli che gorgogliavano in mezzo alla vegetazione.

Era alto, il fisico possente. Nella penombra, se ne indovinava appena il profilo del volto, squadrato e mascolino, di rara bellezza. Il giubbotto di pelle e il cappello di feltro a larghe tese gli donavano un’aria insieme misteriosa e affascinante, riparandolo dagli assalti continui delle zanzare, di cui comunque non sembrava curarsi. Il revolver nel cinturone raccontava più di mille parole quanto sapesse essere prudente. Di certo, non era tipo da concedere una seconda possibilità. Se Hans voleva riuscire a sbarazzarsi di lui, doveva agire in fretta, senza vacillare.

La sua mano sudata e ansiosa corse alla cintura, esitò, tremò per un istante. Cercò di controllarla. Afferrò il calcio della pistola, armò il grilletto… e l’uomo si volse di scatto, la frusta stretta nel pugno. Il colpo fu secco, un dolore acuto attraversò il polso di Hans, che lasciò cadere l’arma, mentre lo sguardo beffardo e ironico di Indiana Jones, appena intuibile nelle ombre, lo colpiva con più irruenza di una pugnalata…

 

* * *

 

Mi fermo, la mano sinistra ancora posata sulla tastiera. Con la destra mi tocco per un istante il mento.

Sto riflettendo.

Rileggo velocemente quello che ho appena scritto. Cerco di capire che cosa non vada, perché c’è proprio qualcosa che non mi convince. Qualcosa che mi pare sbagliato, come un qualcosa di già visto, anche non afferro del tutto che cosa sia a turbarmi. Sulle prime, non mi rendo conto di che cosa sia di preciso a darmi questa sensazione. A vederlo così, non mi pare affatto male…

Ah, ecco… ho capito…

Come incipit va bene, certo. Anzi è ottimo, ma per un buon motivo: è in questa maniera che comincia il primo film di Indiana Jones! Se al posto di quel “Cambogia, 1932” avessi scritto “Sud America, 1936 e Hans si fosse chiamato Barranca, avrei riproposto il mitico inizio dei Predatori dell’arca perduta, tale e quale! Posso quasi vedere il resto, come se lo avessi già scritto: il nostro eroe entra in un qualche tempio dimenticato e, dopo aver fatto fino a questo momento il misterioso e – diciamolo pure – il tamarro e l’uomo tutto d’un pezzo che non deve chiedere mai, comincia a cacciarsi in una serie interminabile di guai. A questo punto, il buon Indy se ne tornerebbe a casa con le pive nel sacco, accontentandosi di aver almeno salvato la vecchia pellaccia, pur con qualche sbucciatura qua e là.

Vecchia storia!

Sbuffo e scuoto la testa.

No, non ci siamo. Non va bene così.

Se voglio scrivere ancora di Indy, devo essere più originale, devo trovare qualche cosa di differente, di non ancora visto e raccontato. Qualcosa che valga la pena di essere narrato, che possa incuriosire sia me sia chi avrà voglia di leggermi. Ma comincio a intuire che non sia più così facile come ai primi tempi, inventare qualcosa di nuovo. Perlomeno, inventare qualcosa su Indiana Jones. Oltretutto, mi passa per la mente un pensiero: ma io, dopo aver smesso di farlo per tutto questo tempo, voglio davvero scrivere ancora di lui? Domandarmelo è lecito, visto che non lo so più nemmeno io…

Spingo indietro la sedia, mi alzo e vado alla finestra. I vetri sono chiusi, cercano di tenere fuori il freddo dell’inverno. Il risultato è più o meno passabile. Le mie mani vicine a sfiorare lo zero assoluto forse non sono tanto d’accordo, ma quelle sono congelate sempre, non possono fare testo più di tanto, in questo momento.

Guardo gli alberi immobili e spogli, il cielo nuvoloso che si fa sempre più scuro, le strade accese nella luce dei lampioni in cui le automobili vanno avanti e indietro – sfrecciando manco fossimo all’autodromo di Monza e zigzagando perché non ci si può fermare per inviare un messaggio su Whatsapp, né accostare per controllare l’ultimo aggiornamento di Instagram; bisogna fare tutto senza smettere di guidare e di premere fino in fondo il pedale dell’acceleratore. Sarò io che sono fin troppo prudente alla guida, ma certi automobilisti non li capisco proprio. Non ci pensano affatto a quelle che potrebbero essere le conseguenze. Sono faccende che non li competono. Almeno, finché non succedono.

Ne sono cambiate tante di cose, da queste parti. Pochi anni hanno tramutato il paesaggio come se fossero stati secoli interi. Memorie del passato. Forse sono davvero sul punto di diventare vecchio. Forse lo sono già… cavolo, mi lamento della gente che guida senza nessuna prudenza e delle mani fredde, proprio come un nonnino al bar! Manca soltanto che mi metta a dire che ho qualche dolore qua e là, e il gioco sarebbe fatto.

Ricordo i campi che si stendevano all’orizzonte fino a qualche anno fa e che ora sono stati fagocitati da catrame e cemento; io da bambino ci giocavo e ci correvo, tra quei campi, in mezzo ai fiori spontanei i cui colori sono ormai più dentro di me che fuori, ma immagino che essere nostalgici non serva a nulla. Senza bisogno di aprire il vetro, immagino l’odore dei camini a pellet nell’aria e il cinguettare sommesso degli uccelli – merli, pettirossi, ballerine, scriccioli e regoli che non temono il freddo – che si preparano alla notte, trovando rifugio tra le chiome dei pochi alberi che sono rimasti. Gli stornelli si inseguono in massa, diretti ai rifugi sulle rive del lago poco lontano – lago che, di questi tempi, pare più che altro una fogna a cielo aperto. Ma gli storni non se ne curano e lasciano i cavi dell’alta tensione verso luoghi dove trovare da dormire e da mangiare. Stormi d’uccelli neri, com’esuli pensieri nel vespero migrar… be’, aspetta: io mica sono un poeta!

Un sorriso mi si allarga sotto questa barbaccia da orso brescianotto – che deve essere diventata abbastanza lunga e informe, perché è da qualche giorno che vengo perseguitato da frasi del tipo «Tagliatela, staresti bene», «Ma solo una spuntatina» o «Però è lunga». Vediamo chi resiste di più in questa battaglia psicologica.

Io che non sono poeta mi inchino ai poeti e un po’ vi invidio, ragazzi, perché io non so giocare con le parole e le rime come fate voi, non riesco a scrutare le profondità dell’animo umano per poi eternarlo sulla carta con la vostra capacità. Ma soltanto un pochino. Perché, dopotutto, anche se non sono profondo, anche se vado avanti così come viene, io in fondo mi diverto. Magari non faccio chissà cosa, con le parole e con le frasi, ma qualcosa faccio. E se anche soltanto una persona si è mai emozionata leggendo qualcosa di mio, be’, ve lo dico, mi basta e mi avanza.

Continuo a guardare dalla finestra.

Un paesaggio quotidiano e ormai estraneo. Mi sento quasi fuori posto, qui. Forse lo sono senza bisogno di metterci il quasi. Se c’era ancora qualcosa, a tenermi legato a questo luogo, ora è svanito, oppure è rimasto ma è poco poco poco. Certa gente si dà parecchio da fare, per farmi sentire come un pesce fuor d’acqua. Il mio corpo è qui, l’anima è altrove. Non riconosco più nulla. Dentro e fuori, di là e di qua di questo vetro, non sono io.

Però non posso negare nemmeno che, tante volte, guardando da questa stessa finestra, ho visto luoghi esotici e lontanissimi. Da qui ho preso le mosse per compiere grandi viaggi, in compagnia di personaggi di volta in volta bizzarri e straordinari. Tutte imprese soltanto sognate, che ho riversato sui miei fogli di carta: racconti di avventurieri e di pirati, di soldati e esploratori, di giovani innamorati e di anziani brontoloni.

Questo è quello che faccio io. Lavoro – passatemi il termine – con la fantasia.

Un giorno d’inizio inverno, un giorno come questo sul finire del 2014, in questa fantasia è entrato anche Indiana Jones.

 

* * *

 

Ci siamo incontrati, se ben ricordo, nel chiuso silenzioso e sacrale della biblioteca di Sirmione, mentre passeggiavo tranquillamente all’Inferno in compagnia di Dante e di Virgilio.

Stavo preparando un esame universitario. Quasi ogni giorno in treno per Verona a seguire i corsi, e quando non ero a Verona ero in biblioteca a studiare. Andavo in quella di Sirmione perché in quella del mio paesello – che ha un nome uguale a quello di una delle armi preferite di Indy (non la frusta, però), e questa roba mi ha sempre fatto sorridere – non si trovava quasi mai un posto dove sedersi. E poi c’era sempre il rischio di incontrarci persone che avrei preferito evitare di incrociare anche soltanto di sfuggita… non ho grandi ricordi, legati alle persone con cui ho condiviso gli anni del percorso scolastico. Anzi.

Così andavo a Sirmione a studiare. Introduzione allo studio della storia, storia della letteratura italiana (dall’Indovinello veronese a Stefano Dal Bianco, con tutto quello che ci sta in mezzo, giusto un paio di robette, insomma), di quella latina e di quella latina medievale, storia dell’arte contemporanea e di quella classica, storia del vicino oriente antico, storia romana, greca, moderna e contemporanea, storia della scienza, storia della lingua italiana, storia del cinema e altro ancora. Vi ho mai accennato al fatto che sono un tantinello preparato, in storia? Però avevo un problema non da poco. Ero troppo meticoloso, nel preparare gli esami, e alla fine questo mi ha fregato. Un giorno sono arrivato a Verona per dare l’ennesimo esame e, dopo aver atteso un paio d’ore in aula che arrivasse il mio turno, con l’ansia che mi cresceva dentro a ondate prepotenti, ho detto «basta», sono uscito dall’Università e non ci ho mai più rimesso piede. E da quel giorno non sono più tornato nemmeno a Verona, che pure è una delle città più belle che ci siano – mi perdonino i miei conterranei bresciani per questa eresia. Ma tanto non credo che mi sarei laureato a prescindere. Non faceva per me. Non mi riconoscevo in quell’ambiente in cui o sei tutto o non sei nessuno. Posso comunque dire di averci provato, e qualcosa di quel periodo mi è rimasto radicato dentro. Le cose belle e utili, perlomeno. Il resto ho preferito scrollarmelo di dosso.

Sembra un’altra vita, a pensarci oggi. Ma non voglio divagare – e per fortuna che non voglio, visto quanto lo sto facendo. Perdonatemi. Dicevo del mio incontro con Indiana Jones.

Non che io e Indy non ci conoscessimo già, sia ben chiaro; anzi, eravamo proprio vecchissimi amici. Ci eravamo già incontrati al cinema nella primavera del 2008 e, prima e dopo di quella data, mi aveva tenuto compagnia innumerevoli volte con le sue avventure nei momenti più difficili, facendomi dimenticare le cose più brutte, specialmente negli anni spiacevoli – spiacevoli? Ma se ho detto che non sono un poeta… anni merdosi, chiamiamo le cose con il loro nome – in cui avevo frequentato le scuole medie. Era stato il mio sostegno più forte in un inferno che, di poetico e letterario, non aveva proprio nulla. Se non fosse stato per lui, che ogni sera mi faceva ridere e sognare, non so bene che fine avrei fatto… ma se sono qui, vivo più di quanto non ricordassi di essere stato da tanto tempo, vuol dire che – qualunque cosa avesse in mente – il mio amico Indy ha fatto centro.

Ma quel nuovo incontro è stato differente dal solito. Più tranquillo. Niente fruste, niente sparatorie ed esplosioni, in quel freddo pomeriggio di fine 2014. Niente di tutto questo. Indy è arrivato, ma non ha fatto crollare nulla, né sono scattate trappole mortali. Probabilmente, tutto questo è stato favorito dal clima austero e silente della biblioteca, anche se sappiamo bene che non sono certo le biblioteche a fermarlo dal compiere disastri. Oddio, qualche volta, nella biblioteca di Sirmione, le bibliotecarie (vecchiacce rompiballe) facevano un bordello della madonna – per usare un’espressione poetica – e studiare diventava pressoché impossibile, però adesso non voglio perdermi in sottigliezze.

Anche perché, quando ti appare davanti Indiana Jones, non è che perdi tempo a pensare alle vecchie. Mi va bene tutto, ma un uomo con un tale fascino magnetico ed enigmatico tende ad attrarre l’attenzione, sapete? E se mi chiedete la classifica degli uomini più belli di ogni tempo, eh… così, senza rifletterci, di primo acchito, mi sa che Indy lo piazzo proprio al primo posto. Al secondo c’è il Che Guevara. Così a caso, giusto per ricordarmi che il mio cervello a volte è strano e si mette a pensare robe che, in quel preciso momento, non c’entrano assolutamente nulla.

Indy si è seduto lì, di fronte a me, con tanto di frusta e revolver alla cintura, come se andare in giro con quella roba fosse del tutto normale; tanto per cambiare, era coperto di polvere e aveva il cappello pieno zeppo di ragnatele. Doveva anche avere fatto a botte – sai che novità! – perché perdeva sangue da uno zigomo. Il solito Indy, insomma. Io ho sollevato gli occhi – lasciando perdere lo maggior corno de la fiamma antica, che si stava scrollando mormorando verso il buon Durante di Alighiero e il mio quasi conterraneo nato sub Iulio, ancor che fosse tardi – e l’ho salutato.

«Ehi, Indy…» ho detto, tra il sorpreso e l’incredulo. Perché okay, mi sta bene tutto, ma trovarmi Indiana Jones seduto di fronte… eh, non so quante volte possa succedere, una roba del genere. A voi è mai capitato? Io ho qualche dubbio, in proposito.

Lui ha ammiccato come fa sempre, con quel modo da sbruffone, si è sistemato meglio il cappello sulla testa e, senza curarsi del fatto che in biblioteca vigesse la regola del silenzio – puntualmente infranta dalle vecchie, comunque – si è messo a parlare.

«Ti ho mai raccontato di quella volta che ho scoperto la tomba del primo imperatore cinese?» ha chiesto. Nei suoi occhi ho visto accendersi la scintilla dell’avventura. Accanto a questa, ha brillato anche un’altra luce, più malinconica. «E ti ho mai descritto nei dettagli il mio primo incontro con quella furia scatenata di Marion? E di quella volta che ho raggiunto Atlantide – perché io, Atlantide, l’ho scoperta per davvero, Cristo santo! – ti ho mai accennato? E lo sapevi che ho distrutto la città perduta di Cibola, dopo averla riscoperta? Cioè, non è stata colpa mia… e, comunque, me lo si perdona, no, visto che sono anche stato investito cavaliere della Tavola Rotonda da Re Artù in persona?»

Io ho scosso la testa. Ho ripensato ai film, di cui potrei citare ogni singola battuta a memoria, ma tutte queste cose non ricordavo di averle mai nemmeno sentite nominare. Sequenze del genere, proprio, non le avevo mai viste. Era tutta roba di cui non sapevo proprio nulla!

«Indy, non conosco queste tue avventure…» ho detto.

Ho abbassato gli occhi alla mia copia della Divina Commedia. Un libro vecchio e ingiallito, consunto e pieno di strappi, stampato il 30 settembre 1938, anno XVI. Qualche volta, a sfogliarlo, ho il timore che mi si sfaldi tra le mani e vada in briciole, ma fa sempre il suo bravo dovere. Perché spendere soldi per comprare una roba nuova, quando quella vecchia funziona ancora alla grande? Però, in quel momento, di Ulisse e di Vanni Fucci, o del Conte Ugolino in cui più che l’amor poté il digiuno – stavo per dire l’onor, ma me l’avreste perdonata, credo – o di Pisa vituperio de le genti, o del Cocito, o delle tre facce sulla testa del buon vecchio Lucifero, insomma di Dante e di Virgilio, non è che mi importasse più molto. Si perde facilmente interesse per tutto il resto, quando hai davanti un tipo del genere.

Ho guardato di nuovo il volto massiccio e sarcastico di Indiana Jones.

«Non è che avresti voglia di raccontarmi qualcosina?» ho chiesto. Mi sono morso il labbro, nervoso. «Cioè, non voglio essere invadente, ma…»

Non è servito aggiungere altro. Mi ha rivolto un cenno amichevole, con quel suo ghigno beffardo. Dalle ragnatele che si erano avvinghiate al suo cappello è saltata giù una tarantola, che se l’è data a gambe, caracollando sulle sue otto zampette pelose. Sono sicuro che viva ancora nella biblioteca di Sirmione, nascosta da qualche parte in mezzo ai libri. Se cercate un volume tra quegli scaffali, guardate bene, prima di metterci sopra le mani. Io vi ho avvertiti.

Si è sistemato meglio contro lo schienale della sedia, ha incrociato le braccia sul petto e ha lanciato un’occhiata vogliosa verso la macchinetta del caffè. Ho capito l’antifona. Sono andato a prendere due bicchieri di caffè lungo – è americano, Indy, non bisogna dimenticarselo – e mi sono rimesso comodo davanti a lui.

Ha sorseggiato il caffè. Ha annuito in segno di apprezzamento. Le bevande calde delle macchinette costano poco e sono sempre le più buone, e non venitemi a dire che non è così. Magari non sono esattamente bollenti, ma questo è un altro discorso e credo che sia molto soggettivo. E, per finire, non devi dire «Grazie, buongiorno e arrivederci» alla macchinetta, prima di venire via. Ho un po’ di fobia sociale, se non si è mai capito. Giusto un pizzico. Ma lasciamo perdere questa cosa, adesso.

Indy si è girato il bicchierino di plastica tra le mani per qualche istante, con fare pensoso; faceva un certo effetto, vedere un uomo del genere, vestito come se fosse appena tornato dalla giungla, con in mano una cosa tanto ordinaria. Sono robe che bisogna vedere, altrimenti non si capiscono. Poi ha detto, con quel suo vocione roboante, mangiandosi le parole come al solito: «Sono venuto qui apposta per questo. Ti racconto tutto… anzi, quasi tutto. Mettiti comodo e, visto che hai lì carta e penna, prendi un po’ di appunti. Sono certo che ti torneranno utili, una volta o l’altra.»

Ho fatto come ha detto. All’epoca ero abituato a seguire le lezioni universitarie e a trascrivere quasi parola per parola tutto ciò che veniva detto dai docenti. Oggi non so se ne sarei ancora capace, ma in quel periodo ce la facevo alla grande. Così, non mi sono perso nemmeno una delle parole che Indy ha cominciato a riversarmi addosso.

«Allora…» ha detto. «Direi di cominciare da quella volta a Ceylon, mentre mi stavo addentrando nella foresta alla ricerca del Tempio della Dea del Fiume… era il… sì, giusto, era il 1935, in estate, prima della faccenda in India con i Thug…»

Ha iniziato a raccontare. E ha raccontato tanto… tantissimo! Un fiume in piena! C’è gente che non parla quasi mai con nessuno, e quando trova qualcuno con il desiderio di ascoltarla, be’ allora ci dà dentro. Indy era proprio così, in quel momento.

Un’avventura dopo l’altra, incontri straordinari con la gente più impensabile, nemici pronti a tutto pur di prendere il potere sul mondo intero, donne fantastiche, luoghi esotici e lontanissimi, templi misteriosi sperduti nel fitto delle foreste, ipogei sotterranei e valichi montani, inseguimenti in automobile, lotte all’ultimo sangue, salvataggi in extremis… è stato un susseguirsi di emozioni al cardiopalma, incredibile!

E io ho cominciato a scrivere e scrivere e scrivere.

 

* * *

 

Insieme a Indy ho girato il mondo, perché mi ha accompagnato – e l’ho accompagnato – in tutti i continenti del nostro pianeta. E, oltre che in tutti i continenti, siamo stati insieme anche in mondi perduti sotto le onde dell’Oceano, ci siamo addentrati nel Giardino dell’Eden – o quel cavolo che era davvero, perché Indy è ateo e a certe cose non ci crede, anche se le vede: lui è uno di quelli che cercano sempre un’altra spiegazione, un vero figlio del suo tempo, in pratica – e abbiamo volato nello spazio, fino alla superficie di Marte: abbiamo battuto sul tempo la NASA e SpaceX, mica niente. E, ovunque si andasse, chissà perché, c’era sempre qualche pazzo desideroso di due cose: farci fuori e conquistare il mondo. Ma tanto finiva sempre alla stessa maniera. Indy, in un modo o nell’altro, se la cava sempre, anche se nemmeno lui saprebbe dire in quale modo ci sia riuscito. Quell’uomo ha una fortuna sfacciata, credetemi.

Un bel viaggio, devo ammetterlo! Mi sono proprio divertito come un matto!

Ora, però, sono qui che provo a scrivere ancora di lui e mi ritrovo a ripetere ciò che già ha fatto nelle sue più grandi e celebri avventure. Tutti quegli appunti presi in biblioteca si sono esauriti da parecchio, e io non ricordo se, da qualche parte, ne ho ancora qualcuno da poter usare. Magari c’è, ma chissà dov’è finito. Allora cerco di inventarmi qualcosa, ma non è la stessa cosa.

Non lo è per niente.

Non riesco a scrivere niente di nuovo su Indiana Jones.

Conosco anche il motivo – anzi, i motivi, perché ce ne sono diversi – per cui non ce la faccio più.

Uno di questi motivi sono i vari personaggi che ho creato nel corso degli anni. Personaggi miei. Personaggi che meritano l’attenzione loro dovuta. Sono figli miei, no? Sono gli eredi che vorrei lasciare nel mondo per ricordare il mio nome. Magari non avranno una gran voce, ma ci sono. E ogni tanto anche loro vengono qui per ricordarmelo. Si accalcano fuori dalla porta e mi ricordano che è di loro, della loro esistenza immaginaria ma in qualche modo concreta, che devo scrivere adesso. Hanno vite loro. E io devo fare sì che, queste vite, vivano, se mi passate il gioco di parole.

Glielo devo, a loro e non solo a loro.

Una volta, sarà stato un annetto fa, suppergiù, hanno mandato da me uno di loro, per parlare a nome di tutti. Uno venuto a mettere le cose in chiaro una volta per tutte. Lo hanno scelto come portavoce, uno per tutti. Probabilmente hanno pensato che fosse quello con cui ho maggiore affinità, e in effetti sono abbastanza d’accordo con loro.

Me lo ricordo come fosse stato ieri. Era la fine di novembre, o forse i primi di dicembre. Fuori da casa mia si era alzata la nebbia. La nebbia, una volta, era una costante della mia esistenza. Non c’erano mattina e tardo pomeriggio, in autunno e alla fine dell’inverno, in cui non mi trovassi un muro bianco e impenetrabile fuori dalla finestra. Ora, il progresso e la cementificazione, sono riusciti a distruggere pure quella, riducendola a una vaga foschia inquinata che scivola contro il cono di luce bianca e accecante dei lampioni a led. Un’altra parte di me che ha lasciato questi luoghi. Ma, quel pomeriggio, c’era la nebbia. Un nebbione con i fiocchi. Nebbia padana fatta e finita. Nebbia d’altra tempi.

Il portavoce scelto si chiama Orso ed è… boh. Orso è tante cose, tantissime, un’infinità. Non saprei nemmeno da dove cominciare, per poterlo descrivere al meglio. Ma quel giorno si era calato nei panni di un filosofo. E come volete che possa fare, a resistere a un filosofo? Mi batte con la dialettica, mannaggia! E, se fare il filosofo non fosse stato abbastanza, aveva una roncola stretta in mano. Le roncole sono oggetti di persuasione che funzionano sempre bene, credetemi.

Dopo aver dato un’occhiata a tutti gli altri, che aspettavano silenziosi l’esito del nostro incontro – nel gruppo, c’era anche una tizia alta e dai capelli rossi, che pareva pronta a farmi secco se soltanto avessi provato a obiettare qualcosa – l’ho fatto entrare nel mio studio.

Io e Orso siamo rimasti soli, uno di fronte all’altro. L’ho invitato a sedersi, ma ha preferito restarsene in piedi, come se dovesse apprestarsi a una vera e propria filippica. Io, invece, mi sono rimesso a sedere. E ho fatto male, perché mi sono trovato subito in inferiorità; ma me ne sono accorto quando ormai era troppo tardi per rimediare senza sembrare sgarbato. Inoltre, c’era sempre quella roncola che sembrava voler suggerire di non fare movimenti azzardati.

«Sono qui per comunicarti a nome di tutti coloro che rappresento che, a nostro modesto avviso, tu stia dando troppo spazio a Indiana Jones. Non ci troveremmo nulla di male, né alcunché da obiettare, se solo questo non lo stessi facendo a nostro discapito. Mentre lui cresce e si ingrassa, fino a diventare persino ripetitivo e incomprensibile, noi languiamo nel nostro torpore senza muovere un dito, pur avendo moltissimo da fare e da dire. Ci sono due, là fuori, che devono sbrigarsi a risolvere indagini strane e assurde, e non possono cominciare perché tu non vuoi darti una mossa.»

A questo punto si è strofinato piano la barba. Io e Orso, lo avevo già notato, abbiamo una discreta somiglianza. Ho provato a dire due parole, ma mi ha interrotto con un cenno di roncola.

Ha ricominciato a parlare lui.

«È una situazione che non siamo disposti a tollerare oltre, specialmente in considerazione del fatto che lui non è nemmeno opera tua, e invece noi lo siamo. Ricordati, infatti, che noi tutti siamo usciti dalla tua immaginazione; siamo figli tuoi. Siamo noi gli eredi di cui popolerai questo mondo un po’ disgraziato, non scordartene mai. Lui invece, non dimenticarlo, lo hai semplicemente adottato, per giunta quando era già maggiorenne e autosufficiente da un bel pezzo, capace di badare da solo a se stesso. Riteniamo giusto, quindi, essere trattati come meritiamo.»

«Cosa volete che faccia?» ho detto, la mano davanti alla bocca a tormentare con nervosismo i baffi e la barba.

Avevo lasciato accesa la playlist di YouTube. C’erano Mietta e Amedeo Minghi che si chiamavano trottolino amoroso e dudu dadadà. In quel momento, però, suoni e musica erano smorzati e messi in secondo piano dalla voce un po’ strana di quell’Orso che io stesso ho creato.

«È presto detto», ha tagliato corto Orso, accompagnando le parole con la roncola. «Ti concediamo di concludere il lavoro che hai in corso su di lui; mi risulta che, al momento, tu stia cercando di tradurre in inglese l’ultima storia che gli hai dedicato, ossia Indiana Jones e la Gloria di Amon. Guarda, le ho dato un’occhiata, e te lo dico col cuore in mano: è una battaglia persa. Il tuo inglese fa schifo. Però, se vuoi proprio provarci, fallo. Ma, quando avrai terminato questa traduzione, anziché iniziare una nuova storia, dovrai finalmente rivolgerti a noi, come è giusto che sia. Hai creato dei personaggi, hai meditato le relazioni che li legano, hai messo a punto numerose trame in cui farli muovere: ora è tempo che, tutto questo, prenda forma. Non puoi mettere al mondo un figlio per poi abbandonarlo a se stesso.»

Il discorso di Orso mi ha colpito. Tra me e me, ho dovuto riconoscere che aveva ragione. Però, nel mio profondo, avevo paura: Indiana Jones era l’angolino sicuro, il posto dove rifugiarmi e dove trovare sempre conforto. Il resto, oltre a lui, era un ignoto assoluto, da cui non avrei saputo che cosa aspettarmi di preciso.

Dovevo prendere tempo.

Ho cercato di ribattere, di dire che avrei potuto lavorare su tutti e che scrivere di uno non avrebbe per forza di cose significato trascurare l’altro, ma non c’è stato nulla da fare. Orso e la sua roncola hanno ribadito di essere stati scelti come ambasciatori senza facoltà di trattare: in poche parole, erano venuti per mettermi di fronte al fatto compiuto. Loro avevano già deciso, e a me non era concesso di oppormi alle loro sentenze. Prima che potessi inventarmi qualcosa, Orso e la roncola avevano già lasciato la mia stanza.

È trascorso un anno da allora. Non ho più scritto nulla su Indiana Jones. Mi sono giusto limitato a dare una limata e un’aggiustatina all’ultima storia che avrei voluto pubblicare su di lui – una delle primissime scritte – intitolata Fortuna e Gloria. Ho obbedito a quel perentorio comando e mi sono dedicato ai miei personaggi. Qualcosa ho tirato fuori, credo.

Però, alla lunga, ho sentito la mancanza di Indy. E questa sera, essendo uscito il trailer del suo ultimo film, mi è tornata la voglia di scrivere ancora qualcosina su di lui. Giusto una storiella, tanto per salutarlo ancora una volta.

Ma come fare, senza disobbedire a Orso? Ci ho riflettuto per qualche istante, e alla fine ho creduto di aver trovato una soluzione adeguata: da una cartella del mio computer che non aprivo da anni, ho tirato fuori un vecchio file di scrittura, su cui aveva scritto soltanto Indiana Jones e… (il titolo completo non c’era) – Cambogia, 1932. Una storia mai scritta ma che, di fatto, potevo considerare come un lavoro già in corso: nessuno avrebbe potuto obiettare che non fossi stato fedele alle condizioni di quel trattato che ero stato costretto a ratificare!

E, così, mi sono subito messo all’opera, contento del mio stratagemma.

Ma dove poté l’astuzia non poté la mancanza di ispirazione.

E dalla finestra, adesso, contrariamente al solito, non vedo nulla che possa aiutarmi. O meglio, vedo moltissime cose, ma mi conducono… eh sì, lo confesso: mi conducono da Orso, dalla sua roncola, da quella tizia con i capelli rossi e l’aria assassina e da tutti quegli altri personaggi. Mi conducono a luoghi e persone che con Indy non c’entrano molto, anche se molto gli devono: perché è grazie a lui che ho davvero imparato a fare ciò che sto facendo.

È con Indy che ho imparato a scrivere.

Mi perdoni l’ardire chi scrive meglio di me: e siete in tanti, ragazzi, poeti e non poeti.

Non sono affatto stufo o stanco di Indy, a cui mi sentirò sempre legato e che sarà sempre uno dei miei personaggi preferiti, o addirittura il preferito in assoluto; ma ho capito che non posso più dedicargli racconti, che sarebbe soltanto una forzatura. Sento crescere dentro di me la voglia di scrivere anche altro, di cimentarmi con nuovi luoghi, nuovi personaggi, nuove dinamiche. Inoltre, io e lui, ormai, la vediamo in maniera troppo differente: lui è sempre quel materialista convinto che il mondo finisca lì dove lo vedono gli occhi e dove lo toccano le mani, mentre io… io no. Ho altre cose per la mente. Cose che non è il caso di dire qui. Ma non per questo non andiamo più d’accordo, eh: il nostro è un vero e proprio campo di confronto intelligente e interessante.

Io a Indiana Jones sarò sempre unito a doppio filo; ma non posso più scrivere nulla su di lui. Desidero che torni a essere quello che è sempre stato: un eroe del cinema, un personaggio che mi fa stare bene, che mi tiene su, a cui aggrapparmi nei momenti difficili.

C’è solo una persona nel mondo e in tutto l’universo – una persona vera e bionda – che mi tiene su e mi fa stare ancora più bene di quanto faccia Indy. Infinite volte più di lui (scusa, Indy, ma è vero). Una persona il cui solo pensiero mi porta un calore che non credevo di poter provare. E di recente si sono incontrati e si sono piaciuti – c’ero anche io a questo incontro – e il mio cuoricino si è un po’ sciolto. Un po’ tanto.

Indiana Jones mi ha dato tanto. Mi ha permesso di migliorarmi, di trovare uno stile diverso, e soprattutto mi ha fatto conoscere delle bellissime persone che hanno apprezzato i miei racconti su di lui. Se non fosse stato per lui non avrei mai scoperto questo sito che si chiama Efp, e se non avessi scoperto Efp non avrei mai… eh, a questo mica ci voglio pensare, per carità. Insomma, anche per questo, grazie Indy. Ti devo più di quanto riesca a mettere insieme la mia mente in questo momento.

Mollare tutto, adesso, mi fa sentire un po’ strano. Forse l’ho già salutato, forse io e lui ci siamo già congedati – dal punto di vista della scrittura, intendo dire, perché per il resto non ci lasceremo mai – ma non ne sono del tutto sicuro.

Devo rifletterci meglio. Ma non qui. Anche se sono nel mio studio, circondato da libri a cui sono affezionato e con davanti agli occhi un piccolo panorama a cui sono abituato, con le colonne sonore dei suoi film a tenermi compagnia e il cuore che batte ancora forte per aver appena visto il nuovo trailer della sua ultima avventura, ho bisogno di muovermi e di trovarmi a tu per tu con la natura, che riesce sempre a fornirmi gli spunti giusti.

So dove andare.

 

* * *

 

Nelle giornate estive, quando splende il sole e il caldo afoso del primo pomeriggio è per molte persone asfissiante – io lo sopporto abbastanza bene, anche se l’estate del 2022 ha messo in difficoltà pure me – ho una meta precisa in cui recarmi, se ho tempo a mia disposizione: una passeggiata sulle rive del lago di Garda.

Alcune volte, mi avventuro lungo la sponda bresciana, che con la sua conformazione ricorda un tratto di mare Mediterraneo che, poco per volta, pare confluire in un paesaggio alpino; altre ancora, mi incammino lungo quella veronese, che si dilunga per chilometri e chilometri in direzione nord-est, tra acqua, pioppi, salici, ulivi e canneti, con litorali frastagliati che ricordano da vicino i panorami della costiera amalfitana.

È qui che mi dirigo in questa gelida notte di dicembre.

Passeggiare a fianco del lago, lasciando vagare il mio sguardo sulle acque, mi aiuta sempre a trovare ispirazione per nuovi racconti. Per me ogni foglia, ogni onda, ogni volteggio di gabbiano, ogni viso umano è come se fosse un libro aperto, che mi narra in silenzio qualcosa che valga la pena di essere messo per iscritto. Moltissime delle mie storie, come le altre viste dalla finestra, sono nate in questo luogo, semplicemente camminando, osservando e riflettendo. La novità, adesso, è che sto facendo nel buio dell’inverno ciò che, di solito, faccio soltanto nella luce dell’estate.

Non ho pantaloni corti e maglietta, addosso; sono imbacuccato nel mio giubbotto blu, e sopra i capelli che ho dimenticato di pettinare – una dimenticanza che di solito non avviene, giuro e spergiuro – ho il mio basco di lana nero, che comincia ad accusare gli anni. Ma ci sono affezionato e non voglio sostituirlo. Di solito c’è una spilla con il teschio sul basco. Ora non c’è. Però ho qualcosa sul petto. Ed è meraviglioso così.

Il freddo mi strappa qualche brivido, ma non più di tanto. Ci ho fatto l’abitudine.

È strano passeggiare da queste parti in questo periodo. Silenzio. Niente bagnanti, niente rumore di motoscafi. Niente ragazze seminude o nude del tutto – e ne ho viste… Solo io, il cielo scuro, qualche stella che con ostinazione cerca di vincere le luci della costa e il rumore lieve della risacca. Sotto le suole delle mie scarpe, la ghiaia scricchiola adagio. Cric-cric.

C’è un punto del percorso, in particolare, che mi piace raggiungere.

Lì, per un certo tratto, non ci sono spiagge. Dalla parte del lago, la cui presenza è appena intuibile dallo sciabordio delle onde, è tutto un intrico di vegetazione, così fitta che non si vede al di là: canneti altissimi, ramaglie contorte e intrecciate, pioppi secolari e frassini; sull’altro lato del sentiero in terra battuta, invece, un groviglio inespugnabile di piante di vario genere – c’è pure una palma, qualunque cosa ci faccia lì, ma le palme si sa che sono dappertutto – si inerpica lungo un breve rialzo del terreno; poi, dopo qualche metro, si tramuta in una vera e propria macchia di bambù, in mezzo ai cui rami attorcigliati a formare una sorta di galleria verde salgono alcuni gradini intagliati nel terreno vivo.

Questo, lo confesso, è il luogo che più mi affascina dell’intero percorso. Non ha nulla di speciale in sé, non presenta attrattive particolari o altre cose così, ma a me piace da impazzire. Anche se non è più la stessa cosa rispetto a pochi anni fa… anche qui, l’essere umano ha dovuto allungare la sua mano. Di anno in anno, quando torno dopo un’assenza di qualche mese, trovo un po’ di cemento in più e un po’ di verde in meno. Temo che presto sarà soltanto un ricordo. Uno dei tanti ricordi che mi restano di un luogo che, giorno per giorno, stento a riconoscere. Vabbe’, che posso farci. Così va il mondo.

Mi fermo qualche istante, come faccio spesso quando capito da queste parti in luglio o in agosto. Di solito, a questo punto, svito il tappo della borraccia e bevo, cercando di placare la sete. Ora mi limito a osservare la nuvoletta in cui si condensa il mio fiato a ogni respiro. Ho le mani gelide, le affondo nelle tasche dei jeans ma non pare servire un granché a scaldarle. Potrei provare a mettere i guanti, ma mi pare che se ne stiano belli al calduccio, in fondo ai tasconi del giubbotto, e non mi va di disturbarli, poverini.

Gli alberi neri sono sagome indistinte attorno a me. Ombre che mormorano e stormiscono nella brezza fredda che scende dal settentrione insieme alla corrente del Garda. Vecchio Benaco che di recente hai perso il tuo più apprezzato cantore… magari piangi anche tu per questa perdita.

Muovo qualche passo e raggiungo il grande pioppo, un albero secolare che protende i rami verso l’acqua. Di solito, in estate, c’è sempre qualcuno, sdraiato lì, per lo più gente di una certa età – vecchi e vecchie, per dirlo alla maniera dei poeti – che preferisce quel luogo ombroso e appartato, immerso nel silenzio, anziché le vicine spiagge affollate di ragazzini schiamazzanti. Questa notte, naturalmente, è tutto per me. Posso affiancarmi al tronco e contemplare il lago, lastra nera che sembra distendersi nell’eternità. Le conchiglie che coprono il terreno scricchiolano sotto i miei piedi, che si fermano a pochi centimetri dal punto in cui si scioglie placida l’onda. Il profumo dell’umidità mi solletica le narici. Punti e riferimenti sono invisibili nel buio; se vedo ciò che esiste, lo faccio con gli occhi della mente.

Resterei fermo in questo posto a lungo, incantato, sprofondato nel silenzio, a rimirare lo spettacolo incommensurabile che la notte sul Garda mi offre stendendosi dinnanzi a me; ma sento quasi subito un tramestio provenire dalle mie spalle.

Incuriosito, mi sposto per vedere che cosa lo abbia provocato. Mi pare strano che, a quest’ora, ci sia qualcuno, da queste parti. Non mi va di incontrare gente. Solita fobia sociale. E poi le persone che si aggirano di notte in luoghi solitari e dimenticati non me la raccontano giusta. Qualcuno potrebbe obiettare che anche io mi aggiro di notte in posti del genere… ma vi paio forse uno che ve la racconta giusta?

Guardo con attenzione attraverso il buio. All’improvviso, dalla scala incuneata in mezzo alla macchia di bambù, si allunga una sagoma nera, che assume poco a poco le sembianze di un uomo.

Un uomo che conosco bene.

La giacca di pelle, la frusta, il cappello di feltro marrone che si adagia sui capelli quasi bianchi, spettinati e sudati come se avesse appena finito di correre nel deserto e non facesse così freddo, il volto adombrato dalla barba non rasata da giorni che sembra intagliato nel legno. Lo guardo e lui ricambia il mio sguardo con un sorriso svergolo e ironico. Non riesco a credere ai miei occhi!

«Indy!» esclamo. Non posso trattenere lo stupore, e non so essere discreto, in questo momento. C’è gente, al mondo, che mi fa scomparire all’istante la fobia sociale. Uno di questi è Indy. Mentre lo guardo come se fosse una specie di animale raro, mi scappa un: «Ma che cosa ci fai qui?!» Perché qualsiasi cosa mi sarei potuto aspettare, ma non di incontrarlo proprio qui, in questa notte di dicembre.

Il suo sogghigno non accenna a diminuire. Chissà in quale grande avventura è coinvolto. Mi guardo subito in giro, chiedendomi se, da qualche anfratto, vedrò sbucare qualche nemico assetato di sangue, pronto a fare la pelle a tutti e due. Non sarebbe una novità, in fondo. Ci siamo passati già un mucchio di volte!

«Cercavo questo», risponde Indy con il suo vocione profondo da orso delle caverne, tendendo una mano per mostrarmi uno strano cristallo rilucente. «Sapevo che doveva essere qui attorno… dovevo trovarlo, è un oggetto molto prezioso, dovrebbe stare in un museo.»

Prima che abbia avuto il tempo di guardare bene di che cosa si tratti di preciso, fa sparire la pietra misteriosa all’interno della borsa. Mi rivolge uno sguardo penetrante, di quelli che bucano le tenebre.

«Ma non è per questo che mi sono attardato. Sapevo che saresti passato di qui e ci tenevo molto a fare quattro chiacchiere con te…»

Ci siamo, penso. Ora mi fa la paternale perché ho smesso di scrivere storie su di lui e non riesco a ricominciare

«Non ho ancora deciso nulla», tento subito di giustificarmi, mettendo così le mani avanti per poterlo precedere. «Per le storie, intendo. Orso può dire ciò che vuole, e può sventolarmi quella roncola sotto il naso finché gli pare, ma tanto alla fine decido io e…»

«E io penso che Orso abbia ragione», interrompe Indy.

Io sgrano gli occhi per la meraviglia, mentre Indy, un po’ stanco – sarà il più grande eroe di tutti i tempi, ma comincia a sentire anche lui il peso del tempo che scorre – si mette a sedere sopra lo scalino di terra. Mi fa cenno di accomodarmi al suo fianco e io prontamente obbedisco. Il terreno è gelido e mi strappa qualche brivido, ma non ci bado.

Restiamo per qualche secondo in silenzio. Probabilmente stiamo riflettendo tutti e due sul tempo. Ma non il tempo atmosferico. C’è tempo e tempo.

«Che cosa dicevi, di Orso?» domando.

«Dicevo che, a mio avviso, ha avuto ragione quando è venuto a dirti di scrivere storie differenti da quelle su di me. Gli hai dato ascolto e ti sei divertito molto. Ormai è oltre un anno che hai abbandonato la scrittura delle fanfiction, e non vedo motivo per cui dovresti fare un passo indietro proprio adesso. Sai, anche se la cosa può sbigottire e fare paura, bisogna saper guardare avanti. A volte bisogna avere il coraggio di buttarsi in una nuova avventura, di affrontare l’ignoto, e credo che tu abbia dimostrato di saperlo fare… non hai stupito anche te stesso, qualche volta, facendo cose che non ti saresti mai sognato o di cui avevi una paura fottuta? E, alla fine, l’ignoto a cui sei andato incontro a braccia aperte si è rivelato infinitamente più dolce e confortante e vero – e qualsiasi altro aggettivo positivo che possa venirti in mente – di tutto ciò che ti è quotidiano…»

Mi fissa con quello sguardo penetrante. Ha ragione. Annuisco adagio, senza dire nulla.

«E, allora, fallo anche adesso…» prosegue.

«A me, però», dico, «raccontare le tue avventure piaceva davvero molto. Grazie a te ho avuto la possibilità di vedere luoghi lontanissimi e di incontrare persone straordinarie. Una volta ho provato a stilare un itinerario di tutti i luoghi che ho visitato in tua compagnia, e sono talmente tanti che presto ho perso il conto…»

«Ma questo è possibile anche grazie agli altri personaggi, quelli che hai creato tu», ribatte Indy. «Con loro – con Orso e con tutti gli altri – puoi viaggiare ancora, andare dove vuoi, creare tutte le dinamiche che hai sempre sognato… credo che, nel corso di quest’anno, te lo abbiano dimostrato più che bene…»

«Questo è vero…» borbotto, soppesando con lo sguardo alcuni rametti che sporgono dalle canne di bambù. «E, però, sarei un bugiardo a dire che, dall’anno scorso, non senta la tua mancanza…»

Indy sorride con sincerità.

«In fondo, il nostro non è stato un vero addio», mi ricorda. «Io sono sempre lì, a tenerti compagnia con le mie avventure, sia quelle che puoi vedere al cinema sia quelle che hai scritto tu. Puoi guardare i film, rileggere le tue storie, cercare i fumetti e i romanzi che mi hanno dedicato, puoi sempre imbatterti in fan fiction scritte da altri appassionati come te e tante, tante altre possibilità che ora non starò qui a elencarti. E nulla, ovviamente, ti impedirà di tornare ancora a cimentarti con me, di quando in quando, se ne avrai voglia. Tuttavia ti sei reso conto tu stesso che, in questo momento, riprendere a scrivere su di me sarebbe controproducente, e forse anche inutile. È meglio lasciare le cose come stanno, e concludere in bellezza, piuttosto che tirarle in lungo fino a ridurle a qualcosa di sfilacciato e privo di senso e di significato.»

Anche io sorrido.

Devo ammettere che Indy, proprio come Orso, ha ragione. Impuntarmi come un mulo a scrivere sempre le stesse cose non sarebbe affatto un buon affare, e col tempo potrebbe rivelarsi anche deleterio. È meglio lasciare tutto com’è, bello e, a mio avviso – e perdonatemi l’immodestia, per una volta nella vita – perfetto, piuttosto che ridurmi a non sapere più che cosa raccontare esattamente, e continuare a farlo soltanto per abitudine. È davvero il tempo di voltare pagina, ricordando però di lasciare una piega sul foglio – o, almeno, un pezzo di carta nel mezzo: così potrò ritrovare il segno tutte le volte che ne sentirò il bisogno.

Continuerò a volere bene a Indy, e non potrò mai dimenticare quanto lui sia stato fondamentale per me. Mi ha insegnato a scrivere meglio e a confrontarmi con dei lettori e con le loro esigenze. Mi ha sempre tenuto a galla, anche nei momenti peggiori. Grazie a lui ho conosciuto quel sito che si chiama Efp e qui… sì, eh. Sì. Lo so io. Lo so io perché non ho un teschio sul basco e ho una mano a proteggermi il cuore.

Lui avrà sempre una parte importantissima per me, e non lo abbandonerò mai. Mi aiuterà sempre a stare meglio. Queste cose le penso, ma non le dico; cerco, in effetti, di non far trasparire troppo le mie emozioni, in questo momento. Indiana Jones è pur sempre un rude avventuriero, uno abituato a risolvere le situazioni a cazzotti e frustate, e non approverebbe tutto questo sentimentalismo. Per fortuna c’è il buio a nascondermi gli occhi.

«Sai, avevo ancora parecchie idee su altre avventure da farti vivere…», accenno.

«Non è detto che tu non me la faccia vivere davvero», ribadisce lui. «Come abbiamo già anticipato, in futuro potresti scrivere ancora su di me. Oppure, se lo preferirai, potrai mandare i tuoi personaggi all’avventura al posto mio, facendogli vivere quelle imprese che avevi immaginato per me. Credo che si divertirebbero, no? E poi, guardami: comincio davvero a farmi vecchio. Non è che posso continuare a fare le acrobazie per sempre.»

Alzo gli occhi verso di lui, sentendomi in lieve imbarazzo.

«Non ti offenderesti, se facessi così?» chiedo.

Indy scuote la testa riparata dal cappellone di feltro.

«Niente affatto.» Un sogghigno gli si allarga sul volto. «E poi, ne ho già tanti di nipotini che si sono ispirati a me: averne qualcuno in più non può che farmi contento.»

Ridacchiamo entrambi per quella battuta, poi tra noi cala ancora il silenzio.

«Lo sai che volevo scrivere le tue avventure fino all’uscita del quinto film su di te?» rivelo. «Be’, in un certo senso, ci sono riuscito. Ormai non manca più molto a quel momento che ho atteso così a lungo! Certo, ci vorranno ancora un po’ di mesi, e se guardo a quando ho pubblicato la tua ultima storia, sarà passato oltre un anno, però… dai, se contiamo anche questa, per una manciata di mesi posso dire di avercela fatta. E poi, non so se lo sai, ma proprio questa sera hanno pubblicato il trailer del film…»

«Infatti!» dice Indy, annuendo con soddisfazione. «Così hai potuto ingannare l’attesa.»

«Già», replico io. «Però, più il film si avvicina e più mi assale un certo pensiero…»

«E quale sarebbe, questo pensiero?» mi sollecita a continuare.

Faccio un vago cenno.

«Non vorrei che ti maltrattassero eccessivamente, nel film…» ammetto. «Sai… perdona l’insolenza… però lo hai detto anche tu, quindi… cominci ad avere una certa età, Indy. Non vorrei che decidessero di farti fuori, magari anche solo per avere la sicurezza che i fan non chiedano poi persino un sesto film… e, se hanno preso James Mangold come regista… nei suoi film il protagonista muore quasi sempre, ecco…»

Indy si lascia andare a una risata lunga e divertita.

«Non ti devi preoccupare di questo!» esclama, con il suo vocione roboante.

«Perché?!» dico, eccitato, fissandolo con intensità attraverso le tenebre. «Per caso tu hai già letto la sceneggiatura? Sai come va a finire?!»

Lui agita la testa. «Be’, il film è su di me, è ovvio che so come inizi, come proceda e come vada a finire. Ma non ti voglio anticipare assolutamente nulla sulla trama. Niente spoiler. È così che si dice, giusto?»

«Nemmeno un accenno?» imploro. «Nemmeno un’indicazione piccola piccola…?»

«Non ti rivelo niente di niente», mi dice lui, sorridendo. «Se no, rischio di rovinarti la sorpresa… e davvero vuoi rovinarti la sorpresa, dopo aver aspettato tutti questi anni? Hai visto le prime immagini. L’anno scorso ti sei goduto le notizie delle riprese. Hai già avuto un anticipo della colonna sonora. Stasera ti sei pure visto il trailer: fino a quando non ti sarai seduto in sala, fatti bastare queste cose.»

«Quindi nel film potresti davvero morire!» azzardo. La cosa mi spaventa. Non sono pronto a vedere morire il mio eroe. Anche se, come scrittore o presunto tale, sono consapevole che la morte di un personaggio sia un modo per concludere il suo lungo viaggio. Però, insomma…

Indy si stringe nelle spalle, mentre un sorriso enigmatico gli increspa le labbra.

«Forse», ammette. «O forse no. Ma ti rivelo un segreto. Se anche James Mangold decidesse di farmi fuori, non ti devi affatto far catturare dallo sconforto: sono un personaggio di finzione, dopotutto. Mica esisto davvero. Posso morire tutte le volte che voglio, tanto poi rivivo di nuovo. Io, in realtà, come tutti gli eroi, sono immortale! Se, poi, mi tocca finire secco per esigenze narrative, non è un problema, tanto poi sarò di nuovo vivo quando andrai a rivederti il film dall’inizio, o ti riguarderai per l’ennesima volta tutti gli altri. Questa è la magia di noi personaggi. Siamo parti di anima che non possono mai andarsene per davvero.»

Sorrido.

In effetti è davvero così. I personaggi che noi creiamo e amiamo ci accompagnano per sempre, scavalcando le generazioni. Basti pensare a Ulisse, giusto per dirne uno. È nato qualcosa come tremila anni fa, suppergiù, ha viaggiato in lungo e in largo e Dante lo ha persino fatto finire all’Inferno. Ma, nonostante questo, è ancora vivo e gode di ottima salute. Proprio come Indiana Jones. E forse, è così che succede anche con le anime. Almeno, io penso che sia così che succede. Tutto ritorna, in un modo o nell’altro, e ciò che è importante non muore. Ho tentato di imprimere questo concetto anche in alcune delle mie storie di Indiana Jones, dopotutto.

«Già, proprio come me», soggiunge Indy, come se mi avesse letto nel pensiero.

In fondo, di che cosa mi stupisco? Lui è davvero nella mia mente, può leggere tutto ciò che contiene senza problemi. Capita, qualche volta. Incontri qualcuno e ne indovini i pensieri senza bisogno di porre domande. Forse anche in questo momento, a ben guardare, sono qui seduto da solo a perdermi nei miei pensieri. Forse non sono nemmeno venuto al lago, stanotte: penso di esserci, ma in realtà sono ancora nella mia stanza, davanti alla tastiera… magia della scrittura.

«Anzi, sai che ti dico?» esclama. «Mi piacerebbe davvero tanto, una mia avventura sulle orme di Ulisse!»

Queste parole mi illuminano.

«Che ne dici, la scrivo?» domando. «Ci provo, almeno? Quasi quasi, mi hai dato un’idea nuova…»

«Scegli tu» risponde, sogghignando. «Ovviamente io non posso prenderti a frustate per impedirti di scrivere ancora storie su di me. Però, considera quello che ci siamo appena detti… e non scordare che Orso, quella sua roncola, sembra maneggiarla molto bene.»

«Hai ragione», ammetto. «Meglio aspettare per non rovinare tutto. Tanto, le idee non me le porta via nessuno e, se un giorno trovassi l’illuminazione, come direbbe qualcuno che ben conosciamo…»

Lascio cadere la frase, mentre Indy sorride divertito.

Si alza e io lo osservo in tutta la sua imponenza. Sarà vecchio, ma fa ancora la sua figura. È uno che ruba la scena a tutti, non c’è che dire. Quel cappello e quella frusta alla cintura sarebbero riconoscibili ovunque, a prima vista.

«Devo andare a portare la pietra al museo, prima che Belloq o chissà chi tenti di rubarmela», dice. «Mi raccomando, non dimenticare: io sono sempre con te. E, quando avrai ancora voglia di fare quattro chiacchiere, saprai dove trovarmi.»

Annuisco un momento.

Sono felice di averlo conosciuto. Sono felice che mi accompagni sempre. Ma non c’è soltanto Indy, lo ammetto. C’è Orso, per dire un nome, e ci sono tanti altri. E questi sono soltanto personaggi di finzione, che vivono nella mia mente. Ma la vita trascende dalla finzione, e si insinua nella realtà, e in questa realtà adesso so che c’è qualcuno di meraviglioso e di importante la cui amicizia è per me più di quanto abbia mai potuto anche soltanto sognare, per quanto importanti siano anche tante altre persone che conosco e a cui sono legato… ma c’è sempre qualcuno che ci dà qualcosa in più e di più profondo, no? Qualcuno in grado di tenerci su anche solo con un pensiero. E ora so che c’è.

Ora sto bene. Ora mi sento vivo. Se c’è stato qualcosa di brutto, qualcosa che mi ha buttato giù, me lo sono lasciato dietro le spalle: Indy mi ha preso al volo con la frusta mentre stavo cadendo e, pian piano, mi ha accompagnato là dove poi ho incontrato quel qualcuno, che poi è un topo biondo. Magari è stata solo una coincidenza, ma è successa. E non credo troppo alle coincidenze. Preferisco pensare che ci sia in movimento qualcosa di più profondo, di una coincidenza. Qualcosa che sfugge al nostro controllo, alla nostra vista e a tutti i sensi esteriori.

Non ho più bisogno di nascondermi dietro questo nickname. IndianaJones25. Non che la fobia sociale mi sia guarita, eh. Con quella penso che ci farò i conti fino all’ultimo. Che volete farci. Nelle conversazioni, mi sa che continuerò a essere quello che sorride e annuisce, e butta lì due o tre parole ogni tanto giusto per non passare da statua di gesso. E se mi invitate a bere qualcosa al bar… be’, spero che siate bravi a fare conversazione, perché io non sono un granché in cose del genere. Vi pare che avrei scritto tanto, se fossi stato bravo a tenere orazioni e filippiche?

Sto bene davvero. Benissimo come mai non ero stato. Che altro mi serve?

Mi giro a cercare Indy con lo sguardo. Scopro che non c’è più.

È andato via.

È bastato che mi distraessi un momento perché lui si allontanasse per la sua strada. Mi chiedo, anzi, se ci siamo incontrati davvero, in questa strana notte, o se – tanto per cambiare – mi sia immaginato ogni cosa e io sia semplicemente rimasto qui seduto a parlare da solo, o al massimo con le canne di bambù.

Meglio non indagare troppo a fondo, no?

Comprendo che, in ogni caso, non vederlo più qui attorno è un segno. Ho molto da raccontare, mille avventure da vivere, milioni di idee da tramutare in lettere e in parole. Lui ci sarà sempre, ovviamente, a tenermi compagnia, ma è il momento di distogliere lo sguardo da Indiana Jones e fissarlo su tutto il resto del mondo.

Questi anni in sua compagnia sono stati straordinari e densi di stimoli, ma ora è proprio il momento di guardare avanti. Guardo avanti con la consapevolezza di non essere più solo come quando ho cominciato a scrivere quelle prime parole, tanto tempo fa. “I rumori ed i versi degli animali, uniti ai leggeri sciacquii dei piccoli corsi d’acqua, giungevano attutiti dalla fitta vegetazione, che filtrava i raggi del sole creando giochi di luce e di ombra in cui spiravano lenti i vapori leggeri che si levavano dal suolo…”

Però non dimentico niente. Del resto, mi sarà sufficiente accendere un computer, o entrare in un cinema, o semplicemente chiudere gli occhi, per averlo un’altra volta di fronte a me, con le sue incredibili e fantastiche avventure.

«Grazie, Indy» dico. «Grazie… ti devo più di quanto avrei potuto immaginare…»

Spero che mi perdoni, se sembro troppo sdolcinato. Lo so che lui è rude, un rozzo americano tutto d’un pezzo, abituato a menare le mani e a maneggiare armi di ogni tipo, e che non è fatto per queste cose. Però… grazie.

Mi alzo, mi spazzolo i pantaloni e mi incammino nella notte, le mani gelide in tasca e la mente già colma di mille nuove idee.

Sì, grazie Indy.

 

 

   
 
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