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Autore: Glenda    04/12/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Adrian non si aspettava davvero che, tornando a Noravàl, avrebbe conosciuto di persona anche tutti gli altri fratelli di Noam, e fu grato di non trovarsi di fronte a persone impegnative quanto Thièl!

Per fortuna, il giovane Dzjorzj Dolbruk era fatto di tutt’altra pasta: ragazzotto posato, con la testa sulle spalle e poche idee ma concrete, come compare casa a Mìmat e mettere al più presto su famiglia. Aveva un posto di lavoro sicuro e una compagna con cui intendeva sposarsi a breve, nessuna nostalgia di Mòrask e soprattutto nessun interesse nella politica: di attivismo ne aveva le tasche piene, e, per quel che lo riguardava – diceva con franchezza ed ironia – avrebbe dato il voto a suo fratello solo il giorno che gli avesse promesso di inventare un sistema capace di azzerare il carico di cartacce che gli ingolfavano l’ufficio. Adrian non sapeva fino a che punto Dzjorzj fosse a parte della storia di famiglia, ma quell’astensionismo e quel disinteresse ostentati (in chiara opposizione alla scelta di vita di Noam e, per vie diverse, di Thièl) lo rendevano ai suoi occhi innocuo e rassicurante.

Le due sorelle giocavano un ruolo diverso: Trexìa affermava di sostenere il progetto politico del fratello con toni da adolescente infervorata, prometteva che sarebbe tornata a Mòrask per votare e si schierava senza mezze misure, come solo a quell’età si riesce a fare, mentre Alma, più cauta, non si pronunciava apertamente, ma Adrian la sentì dire a Noam, mentre stava ripartendo per Kòr, che, comunque fossero andare le cose, sarebbe stata dalla sua parte, a prescindere da cosa mamma e Thièl avrebbero detto.

A rigor di logica, Noam avrebbe dovuto esserne felice, o almeno più in pace con se stesso e con la paura di essere odiato, e in certi momenti indubbiamente lo era: se non altro lo era stato finché loro erano rimasti suoi ospiti e lo era quando parlava dell’imminente matrimonio di Dzjorzj, di Alma che studiava medicina ed era in pari con tutti gli esami, di Trexìa che partecipava alle nazionali di ginnastica artistica… Ma poi, quando usciva dal ruolo del fratello orgoglioso e tornava a vestirsi di quello del giovane politico sulla cresta dell’onda, allora Adrian si accorgeva che c’era qualcosa di diverso in lui: non necessariamente qualcosa di sbagliato, ma di alterato, di obliquo.

Se parlava dei suoi progetti, ad esempio, e usava il verbo al futuro, lo faceva con troppa fermezza e senza puntini di sospensione, quasi che non pensasse di potersi più permettere le esitazioni, le illuminazioni improvvise, i cambi di tono e gli ariosi “poi vederemo” che lo avevano sempre caratterizzato: un osservatore qualsiasi lo avrebbe trovato maturato, pronto ad affrontare la sfida che gli si prospettava, insomma esattamente ciò che un uomo nella sua posizione avrebbe dovuto essere, soprattutto in quel momento storico. Ma Adrian non poteva non sentire che, laddove qualcosa si era aggiustato, qualcos’altro doveva essersi rotto: che non era quella la faccia che Noam aveva scelto di portare in quell’avventura, quando aveva accettato di buttarcisi in mezzo e di diventarne il protagonista.

C’era stato più di un momento in cui si era chiesto se fosse opportuno parlargli di cosa era andato a fare sui monti, ma voleva davvero tradire la garanzia data ad un uomo che si era offerto di aiutarlo e che era, al tempo stesso, così sottilmente pericoloso? E poteva contare sul fatto che Noam, di fronte alle rassicurazioni del fratello, non commettesse imprudenze? Thièl era stato chiaro: lui non era il Fronte, anche se si trovava in una posizione favorevole per interpretare, e probabilmente influenzare, la volontà della maggioranza. Le elezioni amministrative erano vicine, il clima di Mòrask era tutt’altro che sereno, i notiziari riferivano di continui subbugli, scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, università occupate e lavoratori in sciopero, con slogan che alla fine concordavano tutti su un solo concetto: non serviva un nuovo sindaco, serviva l’indipendenza. No, non era il momento giusto per le trattative: quella fase doveva essere lasciata passare, e, che Màrna vincesse o meno, ogni tentativo di mediazione andava ripreso ad acque calme.

Dunque, a conti fatti, doveva stare zitto.

Lucidamente scelse di star zitto.

Lucidamente, già.

E che cosa, lucidamente, Noam stava scegliendo di non dire?

Quanto era diventata difficile quella parola.

Peggio.

Quanto gli era diventata antipatica.

 

***

 

Se la primavera, quell’anno, era arrivata presto, presto arrivò – e improvviso - l’autunno. Un autunno gelido, brumoso e bagnato. Dall’oggi al domani la temperatura ebbe un crollo di dieci gradi e iniziò a piovere tanto, ma così tanto da mandare in tilt il traffico e far saltare grondaie e tubature.

Sembrava che la città avesse cambiato umore: ad un settembre quasi estivo si era sostituito un ottobre letteralmente invernale. Chissà come si stava a Mòrask? E chissà se Thièl Dolbruk ostentava ancora le sue magliette smanicate a dimostrare di non aver paura di nessuno, nemmeno del clima?

Noam invece aveva già tirato fuori la giacca di lana, quella che portava il giorno in cui si erano conosciuti, così dimessa e modesta da stonare sul completo d’ordinanza. Noam non era proprio tipo da completo: era fatto per i contrasti e le spiegazzature, ma era sempre stato bravissimo a riempire di informalità e di leggerezza anche i propri vestiti.

Quel giorno un po’ meno, però, e forse era per questo, non per il freddo fuori stagione a cui non si era ancora adattato, che una volta arrivato alla sede del partito, esitava a togliersi quella sua giacchetta che aveva odore di stazioni affollate e di mattine affacciate al belvedere.

Lo fece con una strana cautela, appendendola all’attaccapanni.

“Noam.” gli disse Adrian, appoggiandogli una mano sulla spalla “Che c’è che non va?”

Lui si prese un attimo, come se la risposta dovesse essere calibrata bene.

“Niente.” sorrise “E se qualcosa non andasse, è niente lo stesso. Le elezioni sono tra dieci giorni. Quello che non va lo vedrò dopo.” un’ombra passò sul suo viso “Ormai.” aggiunse.

Ormai, ecco.

Ormai, in quegli ultimi giorni, sembrava diventata la parola di Noam.

Pesava sui suoi gesti, sulle sue parole, nei suoi occhi.

Gli rendeva indispensabile tenere addosso quella giacca fatta di treni e di vento.

Ormai era una parola antipatica almeno quanto lucidamente.

Zjam Kàrkoviy e Segùr Òraviy li aspettavano nella sala riunioni: tavoli a ferro di cavallo e veneziane a lamelle orientabili che quel giorno sarebbe stato saggio aprire, dato il buio che c’era.

Perché mai nei luoghi in cui si gioca a fare la Storia ci devono sempre essere quei dettagli da ridicolo senso di segretezza, come una serranda mezza abbassata, un vetro opaco o delle tende tirate? Erano il corrispettivo d’arredo degli occhiali a specchio sui visi dei suoi colleghi, una mascherata patetica per darsi un carisma che non si possiede, per raccontarsi un po’ di favole, un po’ di bugie sul mondo e su se stessi.

Dio, se odiava gli occhiali a specchio!

Odiava le tende, odiava i vetri oscurati, odiava quel mondo – quello di Noam ed il suo, così simili in questo grottesco particolare – e in quel momento gli parve così chiaro perché fosse rimasto tanto colpito da lui quasi un anno prima: era chiaro nel suo ricordo Noam che faceva “ciao” con le dita della mano e si presentava per nome proprio nonostante il completo e la cravatta, e quel gesto e quel nome erano diventate le sole cose vere in un mare di nulla.

In quella sala c’era troppa gente e c’era il nulla: quindici persone dalle facce grigie, dieci delle quali parlamentari da più legislature e tra loro l’unico ancora lontano dal pensionamento – ma non per questo meno grigio – era Segùr.

L’atmosfera era greve e assonnolita, eppure Kàrkoviy sembrava di umore raggiante.

“Che ti devo dire, Noam? Cedo all’evidenza e mi congratulo: è chiaro chi sia qua dentro il genio della propaganda!”

La capacità di Kàrkoviy di cambiare umore e bandiera come cambiava le cravatte era imbarazzante, ma probabilmente lui non se ne rendeva conto. Non dovevano rendersene conto nemmeno i suoi colleghi – o forse sì, e ne sapevano trarre i propri vantaggi – altrimenti non era spiegabile come quell’uomo potesse occupare ancora la posizione che occupava. Erano bastati i risultati dei sondaggi dell’ultimo mese per fargli mettere da parte ogni timore di perdere i propri appoggi finanziari: il miraggio di tornare in auge come leader del primo partito che riusciva a smuovere l’elettorato di Mòrask doveva averlo abbagliato.

“Con questi numeri, Màrna ha la vittoria in pugno!”

Tra i presenti aleggiava una stanca indifferenza: Kàrkoviy doveva averli convocati solo per precisare l’ovvio e appagare un po’ del proprio ego e l’espressione di ciascuno di loro emanava un grande desiderio di trovarsi da un’altra parte.

Noam, intanto, valutava i dati che gli erano stati messi sotto gli occhi, quasi incredulo lui stesso: tanto era diligente nel rispondere alle centinaia di mail che riceveva, altrettanto era incostante nell’occuparsi della propria immagine. Quando era stata l’ultima volta che aveva consultato i risultati di un sondaggio? Forse il mese prima, e Adrian era pronto a scommettere che gli paressero passati pochi giorni.

“Se mi permettete…” Segùr si alzò in piedi, quasi fosse necessario quel gesto per avere l’attenzione “io non canterei vittoria tanto presto.” un mormorio serpeggiò da una bocca all’altra “Sondaggi positivi, ok. Ma che valore dobbiamo dare al caos in cui è piombata la città? Per la gente che scende in piazza, Màrna è un nemico al pari dei suoi rivali, perché per loro sono le elezioni stesse ad essere un sopruso: non possiamo pensare che dichiarazioni fatte in un clima di serenità corrispondano a scelte reali da fare in un clima di terrore.”

“Non essere disfattista, Segùr!” esclamò Kàrkoviy ostentando una risata “Il peggio può sempre capitare, ma per fare progetti è necessario guardare la parte piena del bicchiere!”

Segùr annuì vistosamente.

“Questo è vero. Dunque di quale progetto siamo venuti a parlare, oggi?”

Al suo vicino di posto scappò una risata.

“Di come muoverci per la questione dei finanziamenti a certe imprese, per esempio” Kàrkoviy, duro, sapendo di star toccando un tasto dolente.

Il suo interlocutore non si fece intimidire: si rimise seduto, ma senza abbassare lo sguardo.

“Questa è una questione molto importante, che credo dovremmo affrontare a elezioni vinte. In un momento come questo, invece, dobbiamo fare progetti che ci assicurino di vincerle.”

Sul volto di Noam si dipinse un inquieto stupore: troppo inquieto per trattarsi di semplice sorpresa.

“So che questa valutazione potrà sembrare insolente” proseguì il giovane Òraviy “ma chi andrà a votare a fine mese non vota realmente né per il professor Màrna né per Liberi Insieme: vota per Dolbruk. Se davvero gli astensionisti di Mòrask stavolta si alzeranno dal divano, lo faranno per fare un favore a lui. Non gli interessa chi sarà il sindaco di Mòrask, non si stanno schierando per un’ideologia, seguono una leadership: un concittadino affascinante che raggiunge la popolarità, un darbrandese – uno di loro – che porta Mòrask fuori da Mòrask. I separatisti duri e puri non si smuoveranno per questo: queste elezioni non sono un banco di prova politico, sono un grande concerto, e lei…” fissò negli occhi Noam senza l’accenno di un sorriso e Adrian avvertì uno sciame di non detti attraversare quello sguardo “è la rock star. Quindi, per esempio: io ritengo che dovrebbe fare al più presto la valigia ed andare là a interpretare il suo ruolo.”

“No.” Adrian aveva parlato prima di rendersi conto di farlo (eh, lucidità antipatica) “La sua è una proposta irragionevole. Mòrask in questo momento è un luogo impraticabile per il signor Dolbruk. Dovremmo, anzi, preoccuparci di garantire un’adeguata sicurezza a Lant Màrna.”

“Valutazione che non spetta a lei” lo rimbrottò Segùr.

Kàrkoviy intervenne a calmare le acque.

“Ce ne siamo già occupati, Signor Vesna: la logistica è stata curata in ogni dettaglio.” poi si rivolse a Noam “Per quel che riguarda un’eventuale tua presenza a Mòrask, invece, preferirei evitarla…”

Adrian lo ringraziò con lo sguardo.

Noam rimase qualche attimo in silenzio, come se stesse mettendo in ordine i pensieri.

“Per me è ok.” disse.

Cercò gli occhi di Segùr e, ad un tratto, fu come se gli altri presenti nella stanza sparissero.

“Per me ok.” ripeté “Non intendo ripararmi dietro Lant, preferisco che sia Lant e ripararsi dietro di me.”

Frase molto da Noam: peccato che per Noam non fosse una frase a effetto: si sarebbe messo davvero a fare da scudo a qualcuno!

“Mancano dieci giorni, quel che è stato fatto è stato fatto.” intervenne Kàrkoviy “Trovo che una tua trasferta adesso sia solo un surplus di impegno e di spese, oltre che un rischio evitabile…”

Noam gli sorrise con sincera dolcezza, ma continuò a guardare Segùr.

“Sei gentile, Zjam, ma ad un egocentrico come me ogni tanto bisognerebbe dire in faccia che se proprio gli piacciono i rischi la sua sorte è un suo problema!”

Il volto di Segùr scolorì.

Da dove veniva tutta quella tensione?

Cosa era accaduto tra quei due?

“C’è una frase incisa ai piedi della colonna che segna il centro di Mòrask: Arbràsk'a thraxudràddi” proseguì Noam “l’incoscienza ti salverà la vita, dove Incoscienza però è una traduzione solo parziale. Perché arbrask – incoscienza – non è semplice avventatezza… è più quello che fai quando, messo in certe circostanze, le tue gambe e le tue mani si muovono da sole, ignorando pericoli e conseguenze. Tu lo sai che potresti anche fare diversamente: sai che potresti fermarti e fare delle previsioni. Ma è inutile, non ci riesci. Io sono quel tipo di incoscienza. Se posso fare cose per cui la gente di Mòrask me lo riconoscerà, sarò solo un passo avanti nel tendergli la mia mano.”

Lo aveva detto anche a lui, una volta.

Aveva detto che voleva usare l’incoscienza – arbrask, l’incoscienza di Mòrask – per guadagnarsi la fiducia della propria gente.

Ma non era così, e lo aveva appena dichiarato apertamente, davanti a tutti; non c’era nessun piano, nessun calcolo preliminare: lui non riusciva a fare a meno di quell’incoscienza.

Per questo poteva solo sfruttarla.

Oramai.

 

***

 

Lasciarono la sede del partito che il sole stava tramontando: aveva smesso di piovere e il grigio delle nubi lasciava filtrare a tratti un rosa intenso quasi innaturale.

Stavano raccogliendo i propri ombrelli quando Segùr li raggiunse nell’atrio, mosso da una strana fretta.

“Noam…!”

Lui si voltò e esitò sulla soglia, attendendo il seguito: il rettangolo della porta aperta non bastava a rischiarare l’ambiente, e Segùr sembrava una silouette scura e piccola, poco più che un’ombra.

“Ascolti, io…” ma si interruppe e fece un cenno di noncuranza con la mano, come se qualcosa l’avesse improvvisamente trattenuto o riscosso “Nah, niente di importante.”

Noam si scurì appena in viso, poi abbozzò un sorriso turbato.

“È la prima volta che mi chiama spontaneamente per nome, e non è niente di importante? Sicuro?”

L’altro abbassò lo sguardo: non glielo aveva mai visto fare prima.

“Volevo solo dirle che non deve intendere le mie parole come una forzatura, ritengo solo che…”

“Nessuna forzatura.” lo interruppe Noam, come se avesse l’urgenza di mettere dei puntini sulle i, o di liberarlo da un dubbio “Lei si aspettava da me una scelta, ed io l’ho fatta. Questa è solo la conseguenza.”

Che accidenti era accaduto tra quei due?

Non riusciva a guardare Segùr Òraviy senza avvertire una sensazione di angoscia e quasi di paura, mentre Noam gli parlava come se al di sotto di ogni parola ne passassero mille.

Segùr si aspettava una scelta.

Che scelta?

Non stavano parlando dell’andare o non andare a Mòrask.

Quella era la conseguenza.

Pensò all’Incoscienza-che-non-era-solo-avventatezza.

Pensò all’albero.

***

 

“Voglio andare su al belvedere.” disse Noam “Mi accompagni?”

Lo avrebbe accompagnato in capo al mondo, ma a Mòrask avrebbe proprio preferito evitarlo.

Il parco era impregnato di freddo e acqua e tutti gli odori erano più forti, i gradini erano cosparsi da uno strato di larghe foglie cadute, un po’ gialle, un po’ rosse: caldi colori autunnali. Dalle chiome degli alberi ogni tanto qualche residuo di pioggia e Noam si scrollava le gocce dai capelli agitando la testa come un cane bagnato.

Non c’era molta gente, in un giorno come quello.

Raggiunsero la cima della scalinata coi polmoni gonfi di umidità.

“Se volevi salire fin qui per dirmi che non vuoi attraversare la galleria non ce n’era bisogno.” provò a scherzare Adrian (e non ne aveva voglia, accidenti) “Facciamo come l’altra volta.”

“Già, già! È vero che eravamo qui quando ti ho parlato della galleria. Ritualizzazione involontaria, o semplicemente bisogno di aria quando prendo decisioni difficili?”

“Ti pare di aver preso una decisione difficile? A me sei parso anche troppo sbrigativo.”

Noam incassò e fece un respiro profondissimo, stendendo le braccia verso l’alto.

“C’è qualcosa che dovrei sapere?” incalzò Adrian “Qualcosa che riguarda te e Segùr Òraviy?”

“Te lo dirò se tu mi dici quando hai smesso di respirare.”

Lui si strinse nelle spalle e fece un sorriso storto: ecco che cercava di mandarlo a perdersi nei suoi soliti discorsi inconsistenti e fumosi per non dovergli rispondere. E però quanto li amava.

“Respiro piuttosto bene in verità. Non fumo, mi alleno. Soprattutto non bevo, sai?”

Sperò che Noam si mettesse a ridere, invece si lasciò cadere sulla panchina, facendo vagare lo sguardo sulla città appannata dalla foschia.

“Dico sul serio, Adrian. Quando ci siamo conosciuti, una delle prime cose che ho pensato è stata che tu non respirassi.” invece sembrava che fosse lui, in quel momento, ad essere a corto di aria "Secondo me, respiro è una delle parole più belle e terribili del mondo. In lingua dar-breuk c’è il verbo ondrèude, che non è solo respirare ma anche qualcosa di vicino allo star bene. Insomma, sono cresciuto parlando una lingua in cui il concetto di respirare non coincide con un semplice meccanismo corporeo ma quasi con la ricerca del proprio benessere: se ti alzi al mattino e non desideri niente di particolare, non vai alla ricerca di niente che sia buono per te… beh… quello, per un darbrandese, è un giorno in cui non stai respirando.”

“E questo per te è giorno di linguistica, Noam?”

Stavolta riuscì nell’intento e Noam scoppiò in una risata.

“So che non mi risponderai, Adrian…” riprese, come se il discorso iniziato non fosse mai stato interrotto “perché pensi che non serva a niente, e va bene così. Quello di cui spesso ho paura, però, è che tu non ti fidi abbastanza di me. Che io per te sia rimasto sempre l’avventato, bizzarro, imprevedibile Noam: onesto e simpatico, sì, ma da proteggere perfino da se stesso. L’uomo che non può essere un punto di riferimento per nessuno, perché pretende di esserlo per tutti. E io a volte invece vorrei esserlo per te. Ma anche questa deve essere una forma di egoismo, in fondo… ”

Guardò davanti a sé, dove si stendeva il “suo” panorama, l’angolo di mondo che Noam si era scelto per non sentirsi in trappola: ondrèude, respirare.

Raccontargli del giorno in cui aveva smesso di respirare.

Avrebbe dovuto?

Avrebbe potuto?

Sapeva perfettamente quando era successo: era quando, messo in una determinata condizione, le sue gambe e le sue braccia avrebbero dovuto muoversi da sole, e non lo avevano fatto.

No, lui non aveva quell’arbrask: lui non era Noam.

Lui ci era riuscito benissimo, a fermarsi: e la sua vita era sprofondata.

  
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