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Autore: Soledad_93    07/12/2022    0 recensioni
Chiara e Sara, unite da un male antitetico e complementare. L'incontro di due solitudini sullo sfondo di un mare invalicabile.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo 1
Estate 1999

 

L’estate era la chiusura del cerchio. Ci si incamminava verso la “bella stagione” in un trionfo prepotente di luce. Dalle corolle dei fiori al cielo limpido attraversato dalla striscia bianca degli aerei, il mondo sembrava più colorato e vivo.
Sara aveva detto al medico del servizio pubblico che a volte la luce del sole la terrorizzava. Che era costretta ad esiliarla fuori di casa sbarrando porte e finestre. Alla fine di maggio doveva farlo più spesso.
Il medico le parlò di depressione stagionale. Depressione estiva. Le prescrisse un dosaggio maggiore di ansiolitico. Una pillola bianca molto piccola che l’avrebbe aiutata a far funzionare meglio il cervello. Che avrebbe rimesso in forma le sue sinapsi. Anche la sua vita nel complesso.
Però era da mesi che appena alzata dal letto e dieci minuti prima di andare a dormire ingoiava pasticche di diversa forma e colore, ma nessuna di queste le aveva aggiustato le sinapsi e salvato la vita.
Ad un certo punto Chiara le aveva rivelato che quelle pillole le stavano rovinando il cervello.
Disse: “Ti fanno diventare scema, Sara”.
Disse: “Ti devi disintossicare”.
Il pensiero che dovesse riabilitarsi dalla cura ai suoi malanni la portò a riflettere sul fatto che qualunque cosa era impura. La cura includeva la malattia e la malattia portava in grembo la cura. La crisi generava a volte un’opportunità, ma dovevi avere il coraggio di toccare davvero il fondo. Lei invece era sempre stata incapace di elevarsi come di sprofondare del tutto. La vita la annoiava e a tratti le permetteva una leggerezza illecita. C’erano periodi di due o tre giorni e basta in cui si sentiva più morta e gelida di un cadavere. Non sapeva di preciso quanto sarebbero durati, ma sapeva che ogni volta sarebbero finiti, e a stretto giro di tempo. Avrebbe ricominciato a fingersi entusiasta di esistere mentre la sua pelle marciva sotto la maschera di gesso che presentava al mondo al posto della faccia. Un’infezione necrofila che penetrava fino alle sue ossa. Avrebbe colpito gli organi e sciolto come soda caustica il suo cuore. Aveva un cuore malato quanto il suo cervello o forse di più.
“Dato che non posso morire, non potrò mai vivere”, si ripeteva a mezze labbra in diversi momenti della giornata, perché il pensiero penetrasse bene.
Qualunque cosa facesse si rivelava un errore. Alla fine pensò che sarebbe stata una grazia esistere come carne inanimata. Non potersi muovere e non poter sentire niente. La sua vita le sembrava sempre più una condanna da scontare soffrendo fino al giorno della sua morte. La morte sarebbe stata molto più atroce per lei che per chiunque altro.




 
2.





Il pomeriggio del sedici giugno.
Le barche ed i battelli sulla superficie del mare puntellato d’oro dai raggi del sole scivolavano sempre più in là dalla riva con pigrizia lenta, quasi malinconica.
Seduta sul bordo del porticciolo Chiara infilò la sua mano in quella di Sara, accanto a lei, punzecchiandone il dorso rotondeggiante ed intrecciando le dita affusolate alle le grosse protuberanze dell’altra. Stringeva la presa e la rilasciava di un poco, e poi tornava a stringerla, quasi impercettibilmente. I suoi occhi di un colore non comune, tendente al miele, erano fissi al cielo azzurro cobalto, socchiusi, umidi e più brillanti di un diamante.
Sara si era sporta un poco in avanti per guardare la macchia di colore della sua faccia rotonda, circondata da ricci di capelli scuri, riflessa nell’acqua: incastrate nelle sue palpebre arrossate aveva visto due palline nere d’iride, come distratti sputi di pece. Con la mano libera aveva tirato un piccolo ciottolo sulla superficie dell’acqua, increspandola e spezzando per qualche istante il suo riflesso. Odiava doversi affrontare davanti a qualunque superficie riflettente perché preferiva dimenticare di non essere bella.
Chiara invece era bella, e la sua bellezza la mostrava a tutti con sicurezza e spavalderia, non mancando di sbirciarla dove poteva, perciò l’impressione era che la pavoneggiasse subdolamente.
Chiara accarezzò la testa scura di Sara: “La sai una cosa? Non voglio vivere. Sto pensando di farla finita”.
Sara sollevò la testa e la guardò.
“Perché?” chiese.
Lei non rispose, limitandosi ad un sorriso immalinconito.
“Oggi è l’anniversario della mia venuta al mondo”, disse.
Il suo compleanno le aveva sempre dato i crampi, aveva detto a Sara. “Mi dà i crampi perché mi ricorda il mio errore”.
Chiara non tollerava di essere nata e vissuta come – usando sue parole – un vuoto involucro di carne ed ossa destinato soltanto alla vivisezione. Aveva confidato a Sara e ai medici della comunità di cura che la sua anoressia era cominciata sugli otto anni, in coincidenza alla prima molestia di suo padre. Dopodiché non aveva avuto pace per il resto della sua esistenza. I medici la trattavano sempre con impietosita accortezza, come se fosse un oggetto d’un vetro particolarmente sottile pronto a rompersi in mille pezzi.
Chiara aveva una pelle scura che diventava violacea se qualcuno la faceva arrabbiare, e per quello di solito ci voleva poco. Per banalità esplodeva di punto in bianco, rompeva in urla e pianti isterici ed arrivava in circostanze limite a strapparsi qualche ciocca di capelli. Dieci minuti dopo la vedevi seduta sul muricciolo del cortiletto di casa a fumare una delle sue sigarette slim con le cuffie nelle orecchie, canticchiando una canzone, pronta a ridere per sciocchezze.
Che Chiara fosse malata era evidente. Dato che era una ragazza attraente, nonostante la sua malattia otteneva lo stesso qualche partner per un breve lasso di tempo, ma di amiche od amici, ovviamente, nemmeno l’ombra.
Sara era l’unica, in effetti.
Ma più che sua amica, lei la definiva sua “sorella”.
Si erano incontrate in quella casa di cura toscana. L’una e l’altra venivano dalla stessa provincia e parlavano quasi con lo stesso accento. Avevano instaurato un primo dialogo dopo pochissimo tempo, poi avevano iniziato a parlarsi ad ogni occasione, in seguito a frequentarsi assiduamente. Infine la loro sorellanza fu stipulata in un tacito accordo quando capirono di esser felici della reciproca compagnia.
Chiara parlava tanto e Sara ascoltava molto.
Le due estati che passarono in quella comunità terapeutica le trascorsero in perfetta simbiosi, come due corpi in un’anima. Quando venne dimessa Chiara, venne dimessa anche Sara. Quando entrambe tornarono a casa, si tennero in contatto assiduo e fino a quel giorno, due anni dopo, non c’era stato un fine settimana in cui non si erano fatte compagnia. Non era intervenuto neppure il caso ad interrompere la loro routine di incontri.
Chiara disse: “Mi butto giù dalla scogliera”.
Sara sbottò: “Non dire cazzate”.
Chiara insistette: “Ti giuro che lo faccio”.
E Sara smise di parlare, guardando altrove con insofferenza. Negli ultimi tempi Chiara non parlava d’altro che di morte. Un paio di volte ci aveva anche provato, ad uccidersi: il cinque marzo ed il tredici maggio, prima ingoiando una sessantina di sonniferi e poi bevendo un sorso piccolo di candeggina. Era sopravvissuta ad entrambi gli auto-attentati, senza neanche una ferita ed una striscia di vergogna addosso. “Io tento di uccidermi da quando avevo quattordici anni. A dodici già sognavo la mia morte chiedendomi come mi sarei uccisa”.
Sara le disse che si sentiva stanca.
Chiara continuò, senza considerazione: “Lo sai, Sarù, che cos’è quella che la gente chiama speranza? L’anestetico che ti tiene viva quando sei in coma da anni o pure decenni. Voglio interrompere questo mostruoso circo. Davvero”.
“Va bene” sospirò Sara. Non aveva più voglia di stare con lei. Forse era davvero una pazza squinternata, forse i pazzi squinternati non avrebbero mai potuto essere salvati. Forse sarebbe solo riuscita a farle del male.
Si alzò con un po’ di fatica e si incamminò a passi ben distesi lontano dallo sbocco sul molo dove entrambe erano sedute.
Chiara saltò in piedi e le corse dietro.
“Vai già via?” le chiese con voce ansiosa.
Sara si girò e la guardò con compassione.
“Devo stare sola perché tutto questo non mi fa bene…”
“Stasera andiamo a bere qualcosa?” esclamò Chiara. “Lascia stare quello che ti ho detto… era la solita cazzata…”
“Promettimi che non farai niente”
“Promesso” rispose prontamente Chiara.
Cinque minuti dopo camminavano per le vie del centro storico. Sara si fissava le scarpe mentre Chiara rideva facendo battute e notando con gioia questa e quell’altra cosa frivola, mostrandosi allegra.
Erano già le otto di sera. Stavano di nuovo guardando il mare. A segnalare la linea dritta dell’orizzonte c’erano piccoli spilli di stelle – navi in lontananza o fari. C’era un silenzio innaturale, lì: sentivano solo il rumore morbido delle onde che nel buio si rincorrevano e si accavallavano l’una all’altra. Chiara puntò la torcia del telefono contro quella distesa sconfinata di inchiostro, illuminandone le increspature. Non c’era un odore nell’aria, una voce; non c’era nient’altro che quel suono.
Chiara si studiava con aria corrucciata le unghia lunghe, rotonde, ben curate e smaltate di una tonalità pastello. Era un colore molto delicato. Sara pensò, un po’ nauseata, che invece in lei non c’era niente di delicato. Senz’altro non era delicata la sua fisicità prorompente e non era delicato neppure il suo carattere burrascoso e lunatico.
Qualche volta le era venuto il pensiero che la portasse con sé in giro per le strade solo con l’intento di farsi guardare.
Chiara sollevò lo sguardo su di lei. Come intuendo la natura dei suoi pensieri, la fissò con un velato timore in viso. “Che c’è, Sarù?”, le domandò.
Sara le lanciò uno sguardo e scrollò le spalle. “Niente”.
Chiara tornò a guardare all’orizzonte, non del tutto rassicurata.
“Tu ti sei data un motivo per continuare a campare, Sarù?” chiese con voce calma e seria.
“Ricominci?…”
“Io pensavo a quello che c’è dietro di me, al mattatoio che è stato il mio passato, a tutte le persone che mi hanno usata e poi buttata nel cestino… tipo Roberto”.
Roberto era un ragazzo del paese con cui Chiara era uscita una sera soltanto, un anno e mezzo prima, e che dopo aver preso visione dei suoi comportamenti bizzarri l’aveva prima bidonata e poi denigrata fin dove gli era stato possibile.
“Pensi ancora a quel cretino?” chiese Sara.
“Era solo un esempio” si affrettò a dire Chiara. “Non c’è stato nessuno al mondo che mi abbia mai trattato come una persona: per l’umanità intera sembro una cosa a parte. I criteri che si utilizzano con tutti gli altri, non valgono per me. Io vengo trattata peggio. Come se fossi un errore. Forse il mondo intero mi odia. Forse nessuno è felice che sono al mondo. Quindi posso continuare a vivere per non dargliela vinta; ma visto che sono la prima a soffrire di ciò, che ci guadagno davvero?”.
Sara si lasciò cadere sulla sabbia alle sue spalle, chiudendo gli occhi. Quel pomeriggio aveva combattuto con una calma eroica contro i suoi demoni interiori che la punzecchiavano per incuterle terrore. Ogni volta che Sara entrava in un locale con fare spavaldo avrebbe voluto correre via nella direzione opposta. Confondersi nella folla finché tutti gli sguardi beffardi e disgustati su di lei e sul suo corpo si sarebbero spenti.
Confondersi nella folla finché non avrebbe più visto Chiara. Correre lontano da lei e dal loro primo incontro nella clinica. Dimenticarla e farsi da lei dimenticare.
Chiara si girò a guardarla e la punzecchiò con un dito sulla spalla. “Sei morta?” chiese. Cominciò a ridacchiare, insensata.
Sara si girò su un fianco, dandole le spalle.
“Sarù, ti sto intristendo?” si preoccupò Chiara.
“No, sono stanca” replicò Sara.
Forse la odiava.
Era una cosa terribile, passare due anni continui assieme a qualcuno e accorgersi poi, d’improvviso, di detestarlo. Accorgersi di detestarlo in una serata placida, dolce e tranquilla come quella, davanti alla distesa d’acqua di un mare.
La prima volta che lei e Chiara si erano parlate si trovavano davanti ad un mare come quello. Gli operatori della clinica avevano portato i malati a fare una scampagnata lì, nelle ore più tiepide di una giornata di inizio settembre. Era ora che tramontasse il sole, ma si vedeva solo la cupola bianca delle nuvole, accalcata sopra la spiaggia. Traspariva in un punto una luce bianca che irradiava tutto il cielo. I gabbiani attraversavano le acque placide e smunte, a tratti posandosi sulla superficie. Non emettevano un suono. Tutto era silenzioso e piatto. Il mare era un muro compatto, slavato di un tenue azzurro-grigio.
Chiara si stringeva le gambe magre, l’unica persona in quella spiaggia seduta sulla riva. Sara la guardava da lontano pensando una serie di cose che convergevano tutte su quanto sarebbe stato bello essere così, come lei. Magra come lei.
Un tempo (sembrava passato un secolo) Sara aveva un corpo simile a quello di Chiara. Dopo la morte della madre aveva passato qualche mese tentando di metabolizzare il colpo letale infertole dal lutto. In quel periodo mangiava quello che le andava, quando le andava di mangiarlo, senza badare a cosa mettesse in bocca. Alcuni giorni restava quasi del tutto a digiuno, altri invece si ingozzava fino alla nausea. Era un modo che aveva per sentire meno la pena.
In uno di quei giorni d’eccesso si era materializzata in lei la consapevolezza che non vivesse per altro che per il cibo. Nella sua esistenza infertile non aveva mai avuto altra ragione di vita che il pensiero di doversi – o non doversi – nutrire, e i tanti cibi buoni che avrebbe voluto mangiare, che avrebbe forse poi mangiato, e tenuto con sé o dato alla tazza del gabinetto.
Allora erano già passati tre anni da quando aveva sviluppato quella bulimia degenerata. Ma forse la bulimia non era sufficiente. Sara voleva la morte. Anzi, peggio: voleva essere sola.
I parenti che chiosavano compassione circondandola come un rumoroso pollaio non riuscivano a trasmetterle nessuna impressione di amore.
I suoi parenti erano quel genere di persone con un’ottima memoria, che adorano chiacchierare le vite degli altri, sempre provando una segreta, emozionata gioia nel venire a sapere di qualche loro sventura, narrandola con "addolorato" compatimento. Persone che ti persuadevano di poterti assolutamente fidare salvo poi che le tue confidenze, stranamente, entrassero in possesso di altri con cui non penseresti mai di condividere neanche un caffè. Persone castigate dall’imperativo categorico assoluto di mangiare piano, masticando trenta volte, un bocconcino del gambo di un sedano sporcato d’olio.
Mentre sua madre era sul versante opposto e consumava divorandola qualunque cosa: un cibo, un libro, un sentimento, una persona...
Loro non l’avevano mai neppure considerata, se non con disprezzo.
Era morta in casa, nottetempo. Sara l’aveva trovata sul suo letto di morte la mattina dopo. Il medico accorso velocemente aveva concluso che la causa del decesso era stata un improvviso arresto cardiaco.
Le cose cambiavano sempre così rapidamente. La vita ti rovinava sempre così all’improvviso.
Sara aveva trovato il suo modo strambo di morire rendendo onore alla memoria della madre ingozzandosi fino a scoppiare: si sarebbe suicidata con il cibo esattamente come aveva fatto lei. L’avrebbe raggiunta viaggiando sul suo stesso degenerato binario di morte.
Così nel giro di un anno aveva acquisito il doppio del suo peso.
E poi l’avevano costretta ad un ricovero coatto in quella clinica.
La vita e le persone hanno il loro buon diritto di farti a pezzi in molti modi, ma tu sei tenuta al dovere morale, esistenziale, di volerti bene e di farti del bene. Tutt’attorno c’è il più arido deserto e la scelta più naturale ed istintiva sarebbe quella di schiacciare quell’ultimo fiore di speranza rimasto per te – la tua vita stessa –, piuttosto che sforzarti di seminarne altre migliaia in un terreno comunque sia infecondo. Però il mondo dice: “Semina!”. E tu devi seminare. Se non ce la fai ti relegano ai margini della società e poi, forse, in un un pertugio di istituto psichiatrico. Per correggerti, per aggiustarti, per "stare meglio" – anche se Sara pensava di non poter mai più stare meglio.
In realtà i manicomi erano solo dei grossi immondezzai di vite di scarto, la cui presenza al mondo non è gradita.
Quel tardo pomeriggio settembrino Chiara si era girata e l’aveva notata dalla riva. Avevano mantenuto per qualche istante il contatto visivo, prima che Sara fingesse rapidamente di dare attenzione alla sua valigetta morbida, nella quale c’erano due o tre lattine di una bevanda senza zucchero.
Si era poi accorta che Chiara puntava verso di lei, portando goffamente avanti il suo corpicino attraverso la spiaggia. Aveva cercato di pensare rapidamente ad una via di fuga, ma gli operatori e gli altri malati erano in gruppo ad un centinaio di metri di distanza, chiacchierando e ridendo.
“Ehi!” gridò Chiara mentre istintivamente Sara tentava di muoversi verso destra. Sara si bloccò, la fronteggiò e le rivolse un sorriso intimorito.
Chiara il mostro. Lei e le sue strilla demoniache ed i suoi pianti isterici, le sue crisi e le sue guerre quotidiane contro tutti quanti lì.
“Ciao” mormorò nervosamente Sara, portando alla bocca la lattina di bevanda senza zucchero per impegnarsi in qualcosa.
“Ciao” replicò Chiara fermandosi davanti a lei. “Ti ho visto qui, da sola…”
“Eh, già”, disse Sara con un sorriso forzato. “Sono una solitaria…”
“Che cosa stai bevendo?” si informò Chiara.
Sara trattenne un gemito.
“È... un’aranciata senza zucchero. Ne ho altre due lattine. Ne vuoi una?”.
“Bevi cose senza zucchero, una grossa come te?” chiese Chiara.
Ti pareva, pensò Sara. In quel momento si rese conto che Chiara aveva gli occhi rossi e la voce più roca del solito. Forse aveva pianto. Provando un moto di compassione infilò la mano nella borsa ed estrasse da essa una seconda lattina di aranciata.
“La vuoi provare? È buona”.
Chiara prese in mano la bibita. “Magari un po’”, concesse. La stappò e si guardò intorno.
“Non c’è un bicchiere? Io non bevo neanche l’acqua in bottiglietta senza il bicchiere…”
“No, non c’è. Se ti schifi di bere dalla superficie della lattina, puoi bere facendotela cadere in bocca dall’alto”.
“Sì”. Chiara seguì il consiglio, inclinando la lattina verso la bocca spalancata a qualche centimetro di distanza. Nel farlo una goccia di aranciata macchiò la sua camicetta bianca.
“Oh, no…” si lamentò, fissando la macchia arancione sul tessuto. “E adesso cosa faccio?”
“Appena torni in clinica potrai cambiarti” rispose Sara annoiata. “Puoi anche chiedere agli operatori di farti fare una lavatrice, anche se non credo che te lo permetteranno per un solo capo sporco…”
Chiara sospirò pesantemente e la squadrò dalla testa ai piedi.
“Di dove sei?” indagò con circospezione, accostando la lattina alle labbra.
“Di Crotone. Sono calabrese”, rispose Sara. Gli occhi color miele di Chiara si spalancarono.
“Anche io! Incredibile... Però non di lì, ma di Santa Severina. È a mezz’ora di macchina da te. Vicinissime!”.
Sara annuì lentamente, chiedendosi se doveva condividere l’entusiasmo o meno. Chiara sembrava alquanto emozionata dalla coincidenza.
“Qui sono tutti settentrionali a parte me e te” osservò Chiara.
“Sì, è vero” annuì Sara.
“Non ti dà disagio questa cosa?”
“No, perché?”
“Così. Ho sempre pensato che fossero razzisti”.
“Cose d’altri tempi…” commentò Sara, continuando a sorseggiare la sua bibita. Chiara aveva fatto una battuta a cui Sara aveva riso un pochino. Di botta in risposta avevano avuto la loro prima conversazione amichevole. Quando si erano separate, tornando al pullman assieme agli altri, lo avevano fatto rivolgendosi a vicenda un mezzo sorriso.
Quando ci ripensava, Sara aveva l’impressione che fossero passati cent’anni da allora.
Il mare le aveva unite e il mare le stava separando.





 
3.



 


Quando si avviarono a casa di Sara erano le ventitré passate. Salirono in macchina e si avviarono lungo la stradicciola buia, per poi immettersi nella corrente pigra e scarna della tarda sera.
Arrivate all’abitazione di Chiara si separarono. Chiara lasciò un bacetto rapido sulla guancia rotonda di Sara. Si avviò all’ingresso di casa camminando all’indietro, sventolando entrambe le mani in segno di saluto.
Sara sospirò di stanchezza. Girò le chiavi nel quadrante del volante e ripartì.
Chiara non aspettò che la macchina sparisse nel buio: si infilò in casa e chiuse la porta alle sue spalle, senza preoccuparsi di non far rumore. Il silenzio si annidava in ogni angolo. Bambola, la sua gatta, le venne incontro strusciandosi sulle sue gambe. Chiara la prese in braccio e si avviò alla sua stanza.
Lì trovò sua madre, in piedi davanti alla finestra. Scrutava il giardino oltre i vetri, con aria incuriosita. Chiara posò la gatta sul pavimento e la borsa sulla sedia accanto alla porta di ingresso e senza accendere la luce si avvicinò a lei. Sua madre indossava il suo reggiseno squinternato, color carne, e i suoi mutandoni bianchi, tesi sul sedere scarno, sorretto da due stuzzicadenti di gambe ossute. Andava spesso in giro per casa senza vestiti.
Chiara accostò la guancia al vetro, guardandola in faccia. Gli occhi azzurri di sua madre erano sgranati, somiglianti a due palle da tennis, spaventati da qualcosa che stava in giardino. Chiara guardò fuori ma a parte la chioma del pino che ondeggiava al vento sotto la finestra e il breve tratto di giardino circondato dal muricciolo di ingresso in pietra, non vide nulla.
Nella buia stanza filtrava solo la luce cianotica della luna, una piccola palla argentata che galleggiava nel cielo nero inchiostro. L’espressione nel volto della madre di Chiara si rilassò quando la figlia la chiamò: “Mamma?”.
Lentamente, la donna si girò a guardarla. Aprì le labbra incartapecorite e le richiuse. Chiuse gli occhi come sognando di essere altrove.
Disse, con voce roca: “Di nuovo quello stupido cane nero. Sta cagando per tutto il giardino. Sta distruggendo il nostro giardino”.
“Non ci sono cani in giardino, mamma” esclamò Chiara ad alta voce. “Puoi uscire? Così cerco di dormire un po’”.
La madre di Chiara tornò a guardare fuori, tutt’altro che intenzionata ad ascoltarla. I suoi occhi vitrei si spalancarono di nuovo, mentre, guardando dritto verso il vetro, si faceva prendere da un nuovo spavento. Sollevò le dita scarne, simili ad ossi, e sfiorò il proprio viso segnato dalle rughe, riflesso sulla superficie vitrea della finestra.
“Guarda…” balbettò terrorizzata, mentre segnava con l’indice ricurvo le rughe agli angoli della propria bocca. “Guarda… sono rughe! Sono vecchia!”, esclamò. Scoppiò in un pianto rauco, affondando il viso sulle mani. Curvandosi in avanti, si dondolava avanti ed indietro.
Chiara alzò gli occhi al cielo, esasperata. Sfiorò le spalle pelle ed ossa di sua madre e aumentando la presa su di esse le disse piano: “Vai a dormire. Domani mattina sarà passato. A volte basta dormirci su”.
La madre di Chiara fermò con una mano le lacrime che le solcavano il viso ed annuì.
Uscì dalla stanza barcollando, strascicando i piedi scalzi lungo il pavimento di pietra. Chiara la seguì con lo sguardo finché non fu in corridoio, poi accostò la porta alle sue spalle.
“Ciao” sussurrò al corridoio inghiottito dal buio.
Si sentì improvvisamente molto stanca, con una pietra aguzza incastrata in gola. Emise un lungo sospiro e strisciò fino al letto. Tremando si nascose sotto le coperte così com’era, ancora completamente vestita. Si raggomitolò sul materasso molle e cigolante e chiuse gli occhi, sforzandosi di dormire. Un’ora dopo non era ancora riuscita nell’intento e si girava e rigirava fra le coperte. La calura estiva pesava come una coperta sul suo corpo. La nausea le contorceva lo stomaco. Aveva fame ma si sarebbe ammazzata piuttosto che permettersi di raggiungere la cucina e aprire il frigorifero – dove comunque non avrebbe trovato un granché. Se non che…
Qualche giorno prima sua madre aveva comprato una torta. L’aveva comprata per sé, perché era il suo compleanno. Chiara sapeva che non l’avrebbe mangiata, ma lei sembrava estremamente soddisfatta, quasi eccitata dal suo acquisto. L’aveva poggiata sul tavolo del pranzo con orgoglio e dopo averla scartata aveva piazzato tre candeline rosa sulla panna superficiale. Aveva acceso le tre candeline e battendo le mani le aveva spente subito dopo. Chiara aveva riso della sua espressione compiaciuta mentre serrava occhi e labbra, pregustando la realizzazione del suo desiderio.
La torta era ancora in frigo, perché quel pomeriggio, mentre Chiara prendeva da lì una bottiglia d’acqua fredda, l’aveva vista nel suo incarto ammaccato e sbrindellato dietro il sacchetto trasparente dei pomodori.
Lottò per mezz’ora piena contro l’istinto morboso ad alzarsi e raggiungere il frigorifero in cucina.
Era quasi l’una del mattino quando decise di capitolare: infilando le pantofole si avviò a passi silenziosi fino alla cucina accanto alla sua stanza, e senza accendere la luce aprì il frigorifero ed estrasse velocemente, come se stesse commettendo un furto, l’incarto bianco della torta. Aprendolo vide che era consumata in più punti da quelle che sembravano impronte di dita: sua madre ne aveva strappato qualche pezzo con le mani. Non ci badò troppo e ne tagliò una fetta spessa, mettendola su un piattino. Con una forchetta da tavolo la attaccò e la trangugiò a grandi morsi. Poi ne tagliò un’altra fetta, più spessa della precedente. In breve aveva divorato tutto il dolce e la nausea spingeva forte contro il suo addome, rigonfio e dolorante. Ebbe quasi un conato per l’indigestione.
Riuscì a barcollare fino al bagno a stento e lì vomitò tutto, in ginocchio davanti alla tazza del water. Vomitò rumorosamente, tossendo e gemendo.
Alla fine il fondo della tazza era pieno di una melmosa sostanza rosata.
Si sollevò dal pavimento e si riavviò la lunga chioma scura oltre le spalle, sentendo il cuore battere forte e una confortevole sensazione di calore scorrerle dentro le vene.
Si lavò rapidamente il viso e si strofinò i denti. Doveva farsi una doccia, perché qualche schizzo di vomito le aveva imbrattato un ciuffo di capelli.
Tornò in camera sua verso le due e trenta del mattino e si addormentò presto, stringendo il cuscino.




 
4.



 


Quando riaprì gli occhi erano solo le cinque del mattino e dopo così poche ore di sonno si sentiva la schiena e lo stomaco a pezzi, forse a causa del digiuno a cui si sottoponeva quasi tutti i giorni e di quelle sporadiche abbuffate seguite dal vomito che la faceva sentire di nuovo forte, in pieno controllo di ogni suo istinto e di ogni suo atomo.
Le luci dell’alba che si intrufolavano attraverso le fessure della serranda disegnavano un tratteggio roseo sul muro accanto al suo giaciglio. Enumerò ciascun punto fino ad arrivare a trentasei, poi perse il conto. Lo stomaco continuava a dolerle, preso a pugni dalla fame, ma il dolore alla schiena si era attenuato. Sentiva un grumo di capelli premerle sul fondo della gola, producendo un rumore metallico. Sentiva le tempie stritolate da un fino spinato. Aveva la bocca piena di un sapore amaro, come se avesse già trangugiato la sua caraffa quotidiana di caffè senza zucchero tutta in un sorso. C’era la nausea a completare, una nausea che aveva imparato a riconoscere come la diretta conseguenza del vuoto.
Mentre il suo stomaco continuava a cannibalizzare sé stesso rifletté sugli anni che erano trascorsi da quando suo "padre" (ma non lo definiva così da un sacco di tempo) era andato via di casa. Erano passati otto anni, forse nove. Avrebbe anche potuto restare in quella casa ad abusare della figlia, continuando a fingere di essere un uomo esemplare, ma pochi giorni dopo la notte che avrebbe ridotto in cenere il resto della vita di Chiara, lui aveva deciso di andarsene. Aveva scritto un biglietto d’addio e lo aveva lasciato sul tavolo della cucina.
Quel pomeriggio tornava a casa da scuola accompagnata da sua madre. Avevano trovato il post-it appiccicato sul legno del tavolo della cucina. Di lui, in tutta la casa, nemmeno l’ombra. Il biglietto diceva semplicemente: “Non cercatemi”. La mamma invece l’aveva cercato, freneticamente, per tutte le stanze della casa; sconvolta, si era infine accasciata contro il muro accanto alla finestra della camera della figlia – proprio di quella stessa stanza – e aveva iniziato a singhiozzare. “Lo sapevo” ripeteva più volte, fra i singhiozzi. “Lo sapevo lo sapevo lo sapevo lo sapevo lo sapevo…”.
In quegli anni Chiara era troppo piccola per accorgersi della doppia vita di suo padre, ma poteva ricordare quante volte avesse sentito i suoi genitori litigare nei mesi precedenti alla fuga dell’uomo. Più volte si era svegliata in piena notte sentendoli urlarsi addosso, ma non aveva mai avuto il coraggio di entrare in cucina ed intromettersi nel loro litigio.
Una volta sua mamma aveva un livido sotto l’occhio destro, un’altra volta un ematoma sulle labbra.
Se riusciva a sforzarsi un po’, Chiara ricordava lo sguardo storto di disprezzo di suo padre quando la mamma diceva qualcosa di fuori luogo o sciocca e come la apostrofava continuamente se lei lo infastidiva in qualsiasi modo: “idiota”, “bastarda”, “stai zitta”…
La mamma soffriva in silenzio. Chiara si ricordava delle sue mani che torcendosi e stirando i tendini delle dita assumevano un colorito che sembrava quasi blu. C’erano momenti – curiosamente li ricordava meglio – in cui i suoi genitori si abbracciavano leggermente, o si sorridevano con complicità, anche se non ricordava di averli mai visti baciarsi sulla bocca.
Chiara premette la punta dei polpastrelli sulle palpebre, spingendo come se volesse accecarsi. Le lacrime le bruciavano già come una patina di plastica sugli occhi. Non aveva voglia di ricordare ancora.
Si tirò giù dal materasso e si incamminò a piedi nudi fino alla cucina. Lì prese il pentolino del latte e lo riempì d’acqua fredda, per poi metterlo sul fornello acceso.
Nella sua vita, le veniva ora da pensare, niente poteva essere serio. Non ci sarebbe mai stato, forse non c’era nemmeno mai stato, niente di serio o da prendere seriamente. Si era abituata a pensarla così per non impazzire completamente. Aveva trovato il suo equilibrio in quella vita malata fatta di altalene continue di momentanei divertimenti e lunghi periodi di dolore, e nulla di concreto. Aveva lasciato le superiori a quindici anni, a sedici era cominciata l’escalation di cure massicce per il suo disturbo mentale. Non sarebbe servito a nulla. Tutti i suoi sforzi per essere all’altezza degli altri – "persone normali"– morivano nei loro sguardi impietositi, nei loro sogghigni sprezzanti… così aveva smesso di provarci e si era consegnata anima e corpo a quell’esistenza da semplice rifiuto, priva di sogni, obiettivi e finalità. Priva di senso. Un portarsi avanti biologico, senza calcolo e progettualità. Un’esistenza "alla giornata" che con il tempo le aveva tolto ogni speranza di vivere.
Forse per lei Sara era stata una novità?
A malapena si accorgeva che c’era, Sara. Anche se questo lei non doveva saperlo.
Mentre l’acqua bolliva nel pentolino prese una bustina di tè al limone dalla credenza e la liberò dal suo involucro. Fuori dalla porta della finestra cominciava il primo canto degli uccelli. Erano le sei e faceva giorno: la luce mattutina dissipava il buio tenue della notte, illuminando la superficie spigolosa degli oggetti, proiettando alle loro spalle una piccola ombra grigia…





 
5.






Sara si infilò sotto le coperte, tirando a sé il plaid. Per qualche tempo ascoltò il picchiettio delle gocce di pioggia sui vetri della finestra, finché quel picchiettio non divenne uno scroscio violento e poi un temporale estivo: oltre le persiane schiuse il vento si fece così forte che le tende di stoffa cominciarono a fluttuare, gonfiandosi ed appiattendosi. Si cacciò fuori dal letto e sospirando chiuse l’anta della finestra che sul lato destro era rimasta aperta, sigillandola ben bene con un colpo secco, per poi strisciare di nuovo sotto le coperte.
Indossava un pigiama estivo in stile tartan, (“di pessimo gusto”, aveva commentato una volta Chiara), e ai piedi aveva i calzini di cotone che indossava perché le piaceva camminare senza pantofole per la casa.
Più e più volte aveva visto Chiara fare lo stesso a casa sua, ma a piedi completamente scalzi, e un paio di quelle volte era anche uscita calpestando le piastrelle lerce di polvere e sporco del terrazzo di casa sua con le piante dei piedi completamente nude. Comunque fra il terrazzo della casa di Chiara e l’interno della casa di Chiara non c’era mai stata una gran differenza in termini di pulizia. La casa di Chiara era un inferno di oggetti messi alla rinfusa, pensò, in tutte le stanze, accatastati negli angoli più improbabili: scatoloni, libri, borse, zaini, fogli di carta, penne e matite, pennarelli, cartacce di alimenti, bidoni dell’immondizia, immondizia vera e propria, grumi di tabacco sparsi su tutto il pavimento e sul tavolo; se passavi un indice sulla superficie di un mobile, ti ritrovavi il polpastrello tinto di nero.
“Perché non dai una sistemata qui?” le aveva chiesto ingenuamente una volta. Chiara aveva fatto spallucce.
“Non me ne frega niente. Mi piace il disordine. E mi piace anche lo sporco. Vedo nella casa dove vivo lo stesso caos che c’è nel mio cervello e anche nella mia vita, e questo mi tranquillizza molto”.
“In che modo ti tranquillizza?” aveva chiesto Sara, guardando cupa la fila di piatti sporchi impilati nel lavello, che arrivava quasi al rubinetto.
“Mi sento nel mio elemento” aveva risposto Chiara, semplicemente. E aveva ribadito: “Io sono un casino, anzi, un totale casino, e il posto dove vivo deve essere sudicio come lo è la mia testa e la mia vita”.
“Questa mi sembra una scusa bella e buona… magari sei solo pigra” l’aveva provocata Sara.
“Sì, c’è anche quello”, aveva concesso Chiara.
Delle pulizie non poteva occuparsene nemmeno la madre di Chiara, che a malapena si accorgeva del problema. Sara non avrebbe mai potuto vivere in un ambiente come il loro. A casa sua – viveva da sola, in affitto, da un paio di mesi – tutto era in ordine: alle pulizie degli ambienti badava meticolosamente ogni giorno. Non c’era un oggetto fuori posto. Ci teneva che il suo ambiente non rispecchiasse per nulla il disastro che sobolliva in lei come una lava ardente. L’ordine la aiutava a raffreddare la lava, a sentirsi in pace con sé stessa.
Mentre pensava queste cose aveva spento il lumino accanto al letto ed era sprofondata in un’oscurità tenue, rischiarata dalle luci dei lampioni in strada, e con la testa affondata sul cuscino ascoltava la tempesta di fuori picchiare sull’asfalto della strada, sui vetri, sui terrazzi degli edifici.
D’un tratto aveva sentito uno zoccolio ritmico, come di scarpe dai tacchi alti, aggiungersi al concerto naturale. Le venne curiosità di sapere chi stava camminando sotto casa sua a quell’ora e con quel tempo, e gettò un’occhiata fuori dalla finestra.
Una donna, in abiti striminziti e con due grosse zeppe ai piedi nero lucido, passeggiava lungo la strada sotto casa di Sara, tutta sola. Il suo corpo era minuto, ma dal modo in cui ancheggiava sbilenca non sembrava aver molto equilibrio, perciò Sara immaginò che avesse bevuto o che fosse di una certa età. La donna si fermò davanti alla tabaccheria all’incrocio per accendersi una sigaretta, tenendo l’ombrello incastrato fra il collo e la spalla; poi svoltò l’angolo e Sara la perse di vista.
L’aver visto quella donna passeggiare sotto casa sua le accese nella mente una voglia, che non riusciva a frenare con il buon senso, di infilare maglia e cappotto e, armata di ombrello, uscire. Per dove? Per il mare, certo. Abitava a poca distanza dal mare e si sarebbe seduta su una di quelle panchine di pietra che costeggiavano la spiaggia, e avrebbe guardato il cielo nero fuligginoso scontrarsi con le onde tempestose dabbasso.
Sara amava il mare perché anche sua madre amava il mare. Le aveva trasmesso lo stesso amore con naturalezza. Sua madre la portava spesso, finché Sara aveva l’età di frequentare le medie, a fare il bagno su di quella spiaggia che adesso era a pochi passi da casa sua. Sempre in calette nascoste, al riparo dalla vista della gente. Mamma si vergognava molto del suo corpo. Mamma diceva che nessuno l’avrebbe mai assolta per la sua obesità, tutti l’avrebbero sempre condannata per la sua obesità, senza possibilità di appello. Così passava gran parte del tempo nascosta in casa, a badare alla casa, senza vedere nessuno a parte la figlia, Nelle giornate della madre di Sara non succedeva niente. Cucinava ogni giorno grandi quantità di pasta, aveva imparato ad impastare la pizza, a cucinare le torte alla crema, si impegnava molte ore a cucinare e poi a rimettere tutto in ordine perché al piacere successivo dell’addentare la pizza, la torta, non sapeva rinunciare. Preferiva il cibo alla vita.
La madre di Sara le diceva: “Le persone sono inaffidabili, le persone in breve od alla lunga ti danno solo dolore, il cibo ti conforta, non ti tradisce”.
Aveva quella mentalità patetica – che poi Sara aveva assimilato come per automatismo quando lei era scomparsa. Scomparsa. Per quanto l’avesse cercata, non l’avrebbe mai più trovata. Ma avrebbe sempre ricordato la felicità del tornare a casa da scuola e subito dopo partire con lei per il mare. Si portavano appresso panini al salame, torta, una grande caraffa di tè freddo. I pic-nic al mare erano l’unico ricordo davvero felice che Sara conservasse della sua infanzia con lei.
Si vestì con un maglione, dei jeans slavati ed un grosso cappotto ed uscì. Ora piovigginava appena. Camminò lungo il viale fino a trovare la sua macchina, entrò nell’abitacolo – un tiepido grembo al riparo dal freddo e dalla pioggia che spruzzava la città – e guidando lungo le strade buie e deserte raggiunse la spiaggia.
Nell’aria c’era un ritmico ed assordante frastuono, che era piacevole, ed il cielo era così nero che non si distingueva dal mare se non per la presenza delle increspature bianche delle onde.
Fu lieta che in quel momento non ci fosse Chiara con lei. Chiara avrebbe rovinato e distrutto tutto, come sempre. Sedette su una panchina in granito slavata dalla pioggia a ridosso della sabbia bagnata della spiaggia e pensò che sarebbe stato bello, comunque, avere qualcuno vicino (qualcuno che non fosse lei).
Sara pensò: “Tutti noi fingiamo di essere coinvolti ed interessati agli altri, alla vita, mentre tendiamo continuamente le braccia alla solitudine e alla morte, tutti noi fingiamo di vivere ma quando la coscienza è distratta compiamo infinite azioni che esprimono il nostro desiderio, ed il nostro amore, atavico e radicale, per la morte”.
Pensò: “Forse noi siamo nati più per volontà di morire che di vivere, e quella tensione spasmodica alla morte nasce in noi già fin dal primo momento che possiamo definirci vivi”.
Si disse: “Essere non capiti non è questa cosa terribile”.
E ripensò un attimo dopo a Chiara. Chiara svendeva di sé tutto, tutto ciò che le passava per la testa lo diceva a voce, esaurendo chiunque stesse a sentirla e sfinendo chiunque provasse a capirla al di là di tanti suoi discorsi che sembravano solo ciarle sconnesse da qualunque sensatezza di tornaconto. Chiara di sé vendeva e anzi, prostituiva persino l’anima. Era come il mare. Un mare così vasto da non poter essere incanalato dal cono di uno sguardo, ora piatto e calmo, ora tempestoso e furibondo, in base al fattore imprevedibile del tempo, del vento. La sua follia, la sua assenza di confini, era una corazza, un piano diabolico, di una perfezione chirurgica, per essere non capita, per essere sola.
In quell’istante Sara fu sicura che Chiara aveva premeditato tutto. Sì, si disse. Continui ad essere pazza perché vuoi stare, anzi, vuoi essere sola.
In quel momento la pioggia si fece di nuovo pesante, battente. Senza rendersi conto di essere già bagnata fradicia Sara continuò a fissare le luci tremolanti all’orizzonte nero come l’inchiostro del mare, vivide come lanterne – un faro, e diverse navi da crociera –, oltre la cortina dell’acqua. Restò seduta sulla panchina ancora per qualche minuto, ignorando con caparbietà il freddo che la intirizziva, l’acqua che le infradiciava tutti i vestiti. Tornò poi alla macchina e guardò la pioggia scivolare a cascata sul parabrezza, chiedendosi perché era così sola e se avesse sbagliato qualcosa di fondamentale e dove, perché nulla poteva più darle piacere, perché, se pure una cosa ci riusciva, alla fine cessava sempre di svolgere il suo ruolo.
Come Chiara. Come l’affetto che non poteva più sentire per lei.
   
 
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