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Autore: AMYpond88    09/12/2022    2 recensioni
Piccolo prequel Satosugu a Tattoos and Coffee, ma se non seguite quella long, prendetela pure come una AU dove Suguru è un tatuatore con un passato di dipendenza, Satoru un violinista (sì, come nel corto e no, non gira ad importunare Megumi) e su come i due si siano incontrati di nuovo.
Genere: Hurt/Comfort, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Che diamine c'entro qui? È quello che si domanda lui e che si sta decisamente anche chiedendo la maschera all'ingresso, mentre alza gli occhi dal suo biglietto, per dare la quarta? Forse quinta? occhiata al suo abbigliamento.
Suguru a questo punto vorrebbe dirgli che è consapevole di non avere l'outfit più azzeccato per l'occasione, ma davvero quei jeans neri e quel maglioncino sono la cosa più elegante che abbia trovato nel suo armadio.
Non è che non abbia una camicia, ma quella che ha scovato dopo due fottute ore di ricerche, è bianca e non è sicuro che nasconderebbe la decina di tatuaggi che ricoprono le sue braccia.
Perché sì, è coperto di tatuaggi e no, non vuole trovarsi a spiegare che non fa parte della Yakuza.
Vorrebbe dire all'uomo di fronte a lui che per evitare un infarto a qualche spettatore anziano, si è anche levato un paio di piercing, lasciandoli nel cassetto prima di uscire, ma i dilatatori ai suoi lobi, che sia lui che il collega all'ingresso hanno fissato per tre minuti buoni (sì, li ha contati) non è che possa proprio levarli e via.
E soprattutto vorrebbe fargli sapere che lo capisce benissimo, che lui per primo sa di non c'entrare nulla lì, nella bellissima hall del Tokyo Bunkan Kaikan*, ad un dannato concerto di musica classica.
Anzi, fosse al posto dell'uomo, si sarebbe già mandato via, quindi è il primo a dargli ragione, ma non può proprio andarsene ed evitare ad entrambi questi momenti di imbarazzo, perché quella sera suona Satoru e lui non può, ne vuole mancare.

Ecco, forse potrei buttarla sul comico, pensa, ghignando al pensiero della faccia che farebbe l'uomo sapendo che Satoru Gojo, il violinista prodigio, lo vuole lì.
'Sa ci siamo rivisti per caso dopo anni e mi ha invitato. Sarebbe la sua prima esibizione che vedo, prima ero troppo impegnato a distruggere la mia già complicata esistenza con ogni tipo di droga mi passasse davanti, quindi mi spiacerebbe perdermela'. Ecco cosa dovrebbe provare a dire, giusto per godersi il modo in cui la faccia dell'uomo finirebbe per spaccarsi, aprendosi in decine, centinaia di piccole crepe.
Sarebbe divertente, ghigna tra sé e sé.
"Tu sei Geto Suguru, vero?"
Si volta verso la figura che incede a passo deciso nella loro direzione, statuaria e leggiadra ad un tempo, con la lunga treccia azzurra che ondeggia ad ogni passo che fa su un paio di tacchi a spillo, a prima vista più adatti come strumenti di tortura che come calzature.
La donna, Mei Mei, secondo quanto recita il cartellino appuntato alla giacca del suo completo, non aspetta un suo cenno di risposta. Si limita ad avvicinare le labbra rosso cremisi all'orecchio dell'inserviente, sussurrare qualcosa e guardarlo farsi da parte, mentre posa una mano sul braccio di Suguru per indirizzarlo all'ingresso della sala.
Segue come un automa la ragazza, probabilmente mandata da Satoru per evitargli problemi, grato per l'eleganza che lei ha nel non farglielo notare.
Mei Mei da un'occhiata al suo biglietto, poi gli indica il posto.
"Ecco, è la terza fila... Gojo non sarà il primo questa sera, dice che spera che tu non ti annoi nell'attesa", quasi canta, mentre lo saluta con un occhiolino, per poi allontanarsi.
Suguru sbatte le palpebre un paio di volte, ipnotizzato dal passo della donna, prima di dirigersi al posto che gli ha indicato.

Si siede, cercando di farsi piccolo. Non è facile, dato che passa il metro e ottanta, ma ci tenta.
I suoi sforzi raddoppiano quando al suo fianco prende posto una signora di mezza età.
Sarà sulla sessantina, ricorda un po' la classica nonna degli anime, con i capelli raccolti in una crocchia e una piccola borsetta che stinge tra le mani, posate sulle ginocchia.
"Sai, è bello vedere persone giovani qui... a volte sembra di essere in una casa di riposo".
Con sorpresa di Suguru, la donna spezza il silenzio e gli rivolge un piccolo sorriso.
La sua voce è calda, calma, nonostante la punta di sarcasmo. Infonde sicurezza e tranquillità.
"Sono qui per sentire un... un amico", risponde con il tono più cortese ed educato che riesce a mettere insieme, guadagnandosi un'occhiata incredula, piena però di freschezza e ironia.
"Ah sì? Pensavo che non solo gli spettatori, ma anche i musicisti fossero per lo più mummie ormai", ridacchia, facendo sorridere anche lui.
"Ma sai cosa ti dico? Io sono fortunata! Guarda vicino a che bel ragazzo sono capitata! Come ti chiami?"
"Suguru Geto, signora... "
"Bene, Suguru Kun, sono Kuroi, ma chiamami pure baachan*..."
Le luci si abbassano, nascondendo il rossore che gli si allarga sulle guance, mentre il primo musicista sale sul palco.
Rimane in scena una ventina di minuti, per lasciare il posto ad un secondo ed ad un terzo violinista.
Lui non li definirebbe mummie, no di certo.
Sono tutti decisamente più adulti di lui e di Satoru, molto più adulti, questo sì.
Eleganti, compiti. Loro e la loro musica.
Quello della musica classica non è che sia proprio il suo campo e Kuroi, come fosse davvero una nonna seduta a fianco del nipote al suo primo concerto, gli elenca i nomi dei musicisti, spiega i pezzi e le composizioni.
Con pazienza, sottolinea i punti di forza e le debolezze, lo incoraggia a dire la sua opinione, finge di chiudere gli occhi ed addormentarsi se un pezzo pare troppo pesante, per poi strizzargli l'occhiolino in gesto complice.
"Guardali, tutti impomatati, stretti nel loro vestito nero, con il loro papillon", gli sussurra divertita.
Passano così anche il quarto e il quinto musicista e Suguru scopre di apprezzare Chopin, ma di non soffrire per nulla Schubert.
Quando lo dice alla sua nuova baachan la donna si mette a ridere, guadagnandosi un'occhiataccia e un richiamo da una coppia seduta nella fila di fronte.
Davanti allo sguardo sconvolto di Suguru, la nonnina aspetta che si girino, prima di far la linguaccia nella loro direzione.
Geto la guarda con occhi sgranati, poi scoppia a ridere. Leggero come si sente poche volte e come decisamente non pensava poter essere in quel teatro dove aveva messo piede con la cassa toracica sul punto di esplodere.
Sta ancora ridendo, quando sul palco sale Satoru e il suo cuore salta un battito. O forse un paio.

A prima vista Gojo pare cozzare con gli altri musicisti, quanto lui con quella sala.
Niente abito scuro e nè capelli impomatati. Diamine, non è manco certo si sia pettinato.
Le sue ciocche bianche sono lasciate libere di cadere sulla fronte.
Una semplice camicia chiara con le maniche rimboccate all'altezza dei gomiti, cade libera su un paio di pantaloni blu.
Una parte di lui, quella che si ricorda bene quanto sbruffone l'amico possa essere, si aspettava di vederlo indossare qualcosa di più eclatante, forse di provocatorio.
Non si sarebbe nemmeno stupito di vederlo arrivare sul palco con il culo in mostra.
Meglio così però. Così... semplice.
Semplice e bellissimo.
Poi Satoru comincia a suonare e la domanda che gli era saltata un testa a vederlo salire sul palco cambia, si ribalta: non più 'cosa c'entra con gli altri musicisti', ma cosa 'cosa c'entrano loro con lui'.
Perchè ovviamente Satoru è il migliore, non c'è confronto.
Ha già sentito il pezzo che sta suonando, in qualche film crede e di nuovo è la donna al suo fianco a risolvere i suoi dubbi.
"Zimmer", gli sussurra all'orecchio, dandogli modo di far mente locale.
E lui ad un certo punto quasi ride per la seconda o terza volta della serata. Ride perché in mezzo a musicisti che hanno portato sulla scena vecchi compositori sepolti da secoli, Gojo è salito sul palco suonando quella che pare proprio la colonna sonora de I pirati dei Caraibi.
La sua risata si spegne presto, perché il ritmo della musica diventa frenetico, aumenta e aumenta, incollando lo sguardo di Suguru alle dita che si muovono veloci sulle corde, alla mano che stringe l'archetto.
"Direi che è quello il tuo amico", sussurra Kuroi al suo fianco, riservandogli una mezza risatina.
"Credo... credo di sì", risponde, guadagnandosi un'occhiata stranita.
Si rende conto di sembrare abbastanza confuso, a voler essere gentili, e vorrebbe davvero ribattere con qualcosa di più di più netto, sicuro o almeno sensato, ma la verità è che non lo sa.
Come può definire cosa sia Satoru per lui, se nemmeno lui sa dire cosa ci fa lì. E con non intende solo in quel teatro, ma nella vita di Gojo.

La verità è che il loro incontro era avvenuto per caso, dopo così tanto tempo, nemmeno due mesi prima.
Aveva appena lasciato Mimiko e Nanako a scuola ed era di ottimo umore, per un motivo semplice, quasi banale.
Si era perso a chiacchierare con la maestra preferita delle ragazze, di nuovo, forse per la terza o quarta volta quella settimana. Stava diventando un'abitudine.
Una di quelle piacevoli.
Quel giorno in particolare aveva deciso di concedersi di pensare che forse quel mezzo sorriso in più che la ragazza gli aveva lanciato, mentre le sue sorelle la trascinavano via, fosse qualcosa, qualcosa di dolce in un certo senso e che, forse, avrebbe potuto trasformarsi in qualcosa di bello, in futuro.
Che lei era davvero carina, con il viso a cuore incorniciato da un caschetto nero, ed ogni volta che si fermava a parlare con lui, rimaneva un minuto in più del giorno precedente.
Camminando, assorto e insolitamente leggero, era capitato davanti ad una caffetteria un po' vecchio stile, una delle poche rimaste con gli infissi in legno, una di quelle che sarebbero state meglio in una via di Kyoto.
Gli era balenato in testa un pensiero: forse, ma solo forse, non era più così incasinato da non potersi permettere di invitare una ragazza a prendere un caffè.
Ecco, in quel momento, il destino, il karma, l'intero pantheon di divinità shintoiste, lo avevano guardato e si erano messi a ridere tutti insieme in coro.
Perché proprio lì, in quell'istante, davanti a quella caffetteria, Suguru aveva alzato lo sguardo e lo aveva visto.
Un ragazzo allampanato, in una t shirt a righe troppo larga e un po' corta, tanto corta da sfiorare appena la cinta dei jeans, fermo in piedi a guardare il telefono a nemmeno dieci metri di distanza.
Satoru? Si era chiesto, tenendo il fiato.
Sì, era lui.
I capelli nivei, quasi nascosti da un berretto calzato in modo da lasciar cadere alcuni ciuffi bianchi sulla fronte, erano inconfondibili e allo stesso modo lo erano gli immancabili occhiali da sole tondi (ancora gli stessi del liceo?), calati sul ponte del naso.
Non si stava sbagliando.
Non lo vedeva da anni, ma era bastato che entrasse nel suo campo visivo per distorcere il tempo e lo spazio attorno a lui.
Perché improvvisamente, era come non fosse passato un giorno da quel mattino a Shinjuko, quando si erano in un certo senso detti addio.
Quando te ne sei andato, Suguru, lui ti aveva chiesto di restare, gli aveva ricordato in quell'istante una vocina nella sua testa.
Mentre guardava Satoru mettere via il telefono e incamminarsi dandogli le spalle, allontanandosi di nuovo dalla sua vita, si era chiesto se fosse normale che facesse tanto male.
Guardare quella schiena, la sua schiena; seguire i suoi passi allontanarsi, senza riuscire a respirare.
Perché in quel momento era Gojo che se ne stava andando, anche se decisamente meno consapevole del dolore che stava causando, di quanto lo fosse stato lui anni prima.
È stato così doloroso anche per te, Satoru?
Avrebbe voluto chiederglielo, ma improvvisa la sua parte razionale era saltata fuori a rassicurarlo. A dirgli che non doveva per forza decidere in quell'istante.
Forse aveva ancora il suo numero? Sarebbe riuscito a rintracciarlo?
Avrebbe potuto chiedere ad amici comuni?
No, se l'avesse lasciato allontanare di nuovo, non avrebbe ritrovato il coraggio di rientrare nella sua vita.
Tanto valeva andare davanti all'Istituto delle ragazze, aspettare la maestra all'uscita, chiederle un appuntamento.
O anche passare alla caffetteria di prima, prenderle un dolce e proporle di mangiarlo al parco.
Avrebbe accettato. Ne sarebbe stata felice.
Sarebbe stato un nuovo inizio...
Non sarebbe stato male.
Non sarebbe stato male.
Suguru aveva fatto un respiro profondo, dato un'ultima occhiata alle sue spalle, verso la scuola, e preso al volo una decisione.
Prima che il tempo e lo spazio tornassero normali.
Nemmeno mezz'ora dopo era seduto al banco di quella caffetteria, guardando Satoru appollaiato sullo sgabello di fronte a lui, affondare la forchetta nel dolce probabilmente più calorico e pieno di coloranti del negozio.
Ascoltandolo parlare a macchinetta come se non si vedessero dal giorno prima, Suguru si era accorto che sì, si era appena fottutamente giocato la possibilità di avere qualcosa di normale.
Ma lui non voleva qualcosa di normale.
Lui voleva Satoru Gojo.

Da quel giorno sono andati al cinema, al parco, tornati in quella caffetteria.
Ad un certo punto, nel corso di quei due mesi, Suguru ha anche trovato il coraggio di invitarlo a mangiare fuori, dopo aver centellinato le sigarette per dieci giorni, per mettere insieme abbastanza Yen per pagare una baby sitter decente per Mimiko e Nanako e offrire la cena al ragazzo, per poi finire a ridere nel guardarlo spiegare al cameriere come per lui fosse normale cenare con una fetta di torta.
Ha passato due mesi a cercare di ritessere anni di assenza. Di sua assenza.
Hanno parlato, di tutto e di niente.
Degli anni in cui sono stati distanti; dei suoi tatuaggi e del violino decisamente costoso per cui addirittura Satoru deve risparmiare; di Mimiko, della sua bambola inquietante e di come Suguru abbia imparato a rattopparla e di Nanako che non si rassegna ad essere troppo piccola per un cellulare.
Ha scoperto che per uno strano scherzo del destino, anche Gojo è tutore di due ragazzini.
Hanno parlato, parlato, parlato.
Finchè Satoru non lo ha baciato.
A stampo, come quando erano al liceo, piantando poi quegli occhi azzurri nei suoi, lasciandogli lo spazio per decidere.
E lui nonostante morisse dalla voglia di cominciare a baciarlo e non smettere per i seguenti cento, mille giorni, è rimasto imbambolato.
Fermo, di sasso per un minuto buono, prima di riuscire a borbottare una scusa, pure pessima, per scappare a casa.
Perché hanno parlato di tutto, ma evitato come la peste l'elefante nella stanza: quello che era successo tra loro, lui che se ne era andato, che era sparito dalla vita di Satoru per passare dal rischiare di morire di overdose ad essere l'unica famiglia di due bambine.
E questo, tutto questo, era davvero qualcosa di grosso da affrontare.
Per lui, per Gojo.
Appena chiusa la porta del suo appartamento, quella sera, era scivolato a terra, la schiena contro il legno duro, la testa tra le mani. Nelle vene, il timore di aver distrutto tutto. Di nuovo.
Aveva passato i giorni seguenti a vivere la sua vita, ma era come muoversi tenendo il fiato. Come camminare sulle uova, in attesa di qualcosa.
Tutto era rimasto come sospeso, finché Satoru non gli aveva ovviamente messo di nuovo sotto sopra lo stomaco e l'esistenza, facendogli avere il biglietto per quella sera.
Una mattina ha aperto la cassetta delle lettere e la busta era lì.
In calce solo la firma, nemmeno una parola. Nemmeno una fottuta parola.
Dal loro quasi bacio non era passata nemmeno una settimana.
Perciò ora, mentre tre quarti del suo cervello sono impegnati ad ascoltare, a guardare Satoru fare le sue stregonerie con quel violino, non sa proprio cosa rispondere alla sua baachan della serata.
"Sai, qui fuori c'è una fiorista che rimane aperta fino a tardi", gli borbotta la donna, senza aspettare oltre la sua risposta.
Suguru appena nota il tono allusivo della donna, impegnato come è a non togliere gli occhi dal palco.
"Per quando qualcuno vuole lasciare un regalo per musicisti o ballerini", aggiunge lei, dandogli una piccola gomitata e attirando così un suo sguardo confuso.
Kuroi lo guarda di rimando, con la pazienza di una nonna che spiega la stessa cosa per la decima volta, poi lancia un'occhiata a Satoru.
Ripete il gesto, guarda lui, poi il ragazzo sul palco, finché non vede un guizzo di comprensione nel suo sguardo.
Comprare dei fiori a Satoru? L'idea è... strana, ma in un certo senso lo fa sorridere.
Forse lo farà, forse.
Ora sa solo che Satoru ha cambiato melodia, è più dolce, e mentre suona il ragazzo punta gli occhi su di lui.
E con quelle iridi cerulee addosso, ne ha la certezza.
Come può sperare di avere qualcosa di normale, qualcosa di comune, se può avere Satoru Gojo nella sua vita?

La signora lo saluta con un gesto della mano e un sorriso davanti al teatro, dopo averlo aiutato a scegliere i fiori.
Sì, alla fine li ha presi e ora se li sta rigirando nelle mani, chiedendosi cosa intendesse la donna quando ridacchiando gli ha detto che gigli e calle fossero bellissimi, ma decisamente poco adatti per esprimere i suoi sentimenti.
Lui aveva inarcato un sopracciglio, con sguardo interrogativo, e Kuroi lo aveva rassicurato, trattenendo una risata, che se era la sua stima che voleva trasmettere, allora andavano più che bene.
Gli aveva dato un buffetto, prima di augurargli buona fortuna ed allontanarsi.
La sua figura non è ancora scomparsa che Suguru vorrebbe richiamarla, chiederle dove diamine si può portare a cena fuori un musicista a cui tutti, ma proprio tutti hanno applaudito per minuti interi.
Anzi, più precisamente dove si porta a cena non un comune musicista , ma Satoru credo tu sia l'amore della mia vita Gojo.
E con così pochi yen in tasca, pensa, dando un'occhiata sconsolata al suo portafoglio, mentre tiene i fiori incastrati tra braccio e fianco, per aver le mani libere di vagare nel nulla dei suoi risparmi.
"Ehi, sto morendo di fame! Andiamo a mangiare qualcosa?"
Si volta, seguendo la voce alle sue spalle, e rimane bloccato, osservando gli occhi azzurri del ragazzo di fronte a lui riempirsi di stupore, mentre con lo sguardo si sofferma sul mazzo di fiori.
"Quelli sono per me?", chiede, sembrando sinceramente curioso.
Non indossa gli occhiali e lui è decisamente, piacevolmente stordito, bloccato con il portafogli aperto in mano e fermo a chiedersi quando mai si abituerà alla vista degli occhi di Satoru senza filtri.
Satoru che di nuovo deve aver fatto quel suo giochetto con spazio e tempo, che per Suguru si sono ancora una volta fermati, accartocciati su loro stessi.
Quando il mondo ricomincia a ruotare sul proprio asse, risponde.
"No, cioè sì. Secondo la signora sarebbe stato un bel gesto".
"Quale signora?", chiede Gojo, inclinando la testa.
"È una storia lunga...", ribatte, mentre lascia che l'altro sfili i fiori dall'incavo del suo braccio.
"Beh, me la racconterai mentre ceniamo, sto morendo di fame..."
Mentra parla, Satoru si ferma e si volta appena, allungando una mano verso di lui.
"C'è un kombini qui vicino, vende anche anpan e manju*. Andiamo lì?"
Suguru scuote la testa, fa un passo verso il ragazzo, intrecciando le dita con le sue.
A quanto pare, il posto della cena non sarà un gran problema.


Continua...

* Tokyo Bunkan Kaikan: sala da concerto di Tokyo, si trova nella zona del parco di Ueno.
*baachan: "nonna", in giapponese.
*anpan e manju: dolci tipici giapponesi.


Piccolo prequel a Tattos and coffee. Perché?
Punto uno: Tattos and coffee (il prossimo capitolo arriva, davvero, solo dopo due capitoli immensa in Dream, remember and... devo un attimo ritornare nel mood e davvero, voglio scrivere il capitolo più coerente possibile...) non è incentrato su Satoru e Suguru, i due "adulti" sono d'appoggio ai ragazzetti protagonisti e spesso tendono a voler rubare spazio, ma questa parte della loro storia, almeno in questa AU, era ferma nelle note da un po' di tempo. Era momento uscisse alla luce. Questa mi è sembrata una buona soluzione.
Punto due: volevo scrivere qualcosa di dannatamente autoindulgente, avevo bisogno di scrivere qualcosa di autoindulgente, quindi ho rispolverato le conoscenze di commedie romantiche inglesi (per le quali devo ringraziare la mia migliore amica e la costanza con cui da quei 20 anni di vita insieme mi trascina al cinema, ignorando i miei piedini puntati e i miei lamenti), attaccato gli Oasis a palla e messo insieme gli appunti dimenticati.
Curiosità: il titolo è preso dalla canzone "Don't go away", dell'album Be here now, brano che ha fatto un po' da colonna sonora alla scrittura di questo capitolo.
Ps. Ho messo l'avvertimento "tematiche delicate" perché viene trattato il tema della droga. Probabilmente però non sarà l'unica giustificazione al rating arancione.
Pps: scusate, le mie note sono capitoli a parte.
Un abbraccio,
Amy
   
 
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