Storie originali > Storico
Ricorda la storia  |      
Autore: Scarlett Queen    09/12/2022    2 recensioni
Un uomo al quale è rimasta solo la spada ha una missione da compiere: uccidere il tirannico Shogun che ha preso il controllo della nazione.
Tutto ciò che si frappone fra lui e il suo obbiettivo è un esercito.
(Liberamente ispirato al genere cinematografico giapponese noto come Chanbara e ai lavori di Kurosawa e Kobayashi)
Genere: Azione, Guerra | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Giappone feudale
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
    [https://youtu.be/O21um_tm-ZQ]   
   La scalinata grondava sangue; i corpi giacevano riversi al suolo, squarciati dai colpi di spada, le armature lacerate e le armi ancora strette in pugno. Lo stendardo azzurro era inzaccherato di sangue e schizzi purpurei colavano lenti dalle pareti. L'uomo sentì un urlo e poi, di seguito, una gran serie di voci. Si fermò dov'era, stringendo la katana nella destra e sollevò il mento, osservando gli ashigaru attraversare di corsa il corridoio del palazzo, correndogli addosso con gli yari puntati così da trafiggerlo. L'assassino dello Shogun prese un profondo respiro e portò la mano sinistra sotto la destra, stringendo l'elsa della spada e la sollevò davanti a sé, portando appena un piede in avanti. 
   Armature e passi rimbombavano nello spazio, dall'esterno si udivano i clamori degli allarmi e delle guardie, il rimbombo dei tamburi, i passi affrettati dei samurai allertati. Colpì rapido, deviando la lama di una yari con la propria e menò un fendente fulmineo, segnando il volto del primo avversario con un profondo taglio preciso in mezzo agli occhi. Il sangue che zampillò gli irrorò il volto e prima che il corpo fosse a terra, altri tre uomini giacevano morti, pompando il ferroso plasma scarlatto. Con un rinnovato urlo, quei contadini appena addestrati si fecero in avanti, contro la sua spada, finendo falciati come il grano, con le braccia che cadevano sul legno laccato del pavimento, le gambe mozzate, le teste decapitate. Era come se le lance non riuscissero a raggiungerlo.
   L'assassino si muoveva rapido e preciso, eppure ponderato. Nessuno dei suoi spostamenti era casuale, piegava le ginocchia e torceva il busto, colpendo ora da una parte e ora dall'altra, deviando i maldestri affondi. Quando poi trafisse l'ultimo alla bocca spalancata, inchiodandolo alla parete dietro di lui, facendolo strozzare nel suo stesso sangue, si era lasciato alle spalle cinquanta cadaveri, col flusso che colava persino dal soffitto. Ci furono altri passi, alle sue spalle sentiva le esclamazioni fai samurai e davanti a lui un muro di arcieri con le frecce puntate. Sollevò un angolo della bocca, muovendosi nel proprio kimono nero fradicio di sangue e, usando il corpo dell'ultimo lancere come scudo, si lanciò in avanti. 
   Udì il macabro rumore delle frecce in ferro che ne trafiggevano le carni, sentiva le loro voci concitate, le corde gli archi tese e il sibilo dei fusti in legno nell'aria. Quando fu abbastanza vicino scaraventò in corpo contro la prima linea e lo seguì a ruota: tagliò un arco e il braccio che lo reggeva assieme, girò su sé stesso, passando il secondo da parte a parte al petto e fu rapido, usandolo come protezione contro una freccia e vi passò oltre, sollevando in aria la testa e il sangue che sprizzò ad arco del terzo. Menò un fendente verticale, verso il basso, tranciando un braccio all'altezza della spada e poi un altro affondo, passando un occhio sino alla nuca, squarciando la testa quando ritrasse la katana per colpire ancora, e ancora, e ancora. Il suo era un mondo di sangue, organi lacerati e ossa spezzate, un mondo dove i suoi sandali scivolavano in una senza pozza scarlatta e tutti i colori si mescolavano per poi sparire.
   Quando l'ultimo degli arcieri morì, vi erano altri trenta corpi a terra e si rimise a correre tenendo la mano sinistra sul fianco, la katana verso il basso e sollevando silenzioso le ginocchia. Sentiva che i samurai alle sue spalle aumentavano di numero, ma non se ne curò: sapeva che non sarebbe mai uscito vivo dalla fortezza, tutto ciò che gli importava era uccidere lo shogun, poi si sarebbe tolto la vita squarciandosi il ventre. Superò i due grandi battenti laccati di oro e azzurro, i colori di quel clan di vipere e si ritrovò nella grande sala delle udienze; ci fu il suono di un gong e le porta di carta lungo le ampie pareti si spalancarono facendo entrare decine di samurai con yari e katana mentre dietro al trono e lungo il colonnato si allinearono frotte di arcieri che tesero gli archi senza esitare. L'assassino rimase immobile e strinse convulsamente la propria spada. Morire così non avrebbe avuto senso, doveva compiere l'ultima volontà del suo signore e uccidere quel demone in sembianze umane. Digrignò i denti e si guardò attorno: in totale dovevano essere oltre cinquecento, troppi per lui...ma gli era stato detto che avrebbe avuto bisogno di un esercito anche solo per distrarre le forze del suo obbiettivo. 
   Ma quando era pronto a fare inizio ad uno scontro che non poteva vincere, il comandante delle guardie di palazzo, armato da capo a piedi e con un formidabile elmo coronato da un palco di corna scese la scalinata che portava al trono dello Shogun e si fermò davanti a lui; per un attimo il silenzio fu assoluto, persino il vociare delle guardie che si avvicinavano era come sparito, poi il suo nuovo avversario parlò. Gli disse che il dovere di un samurai stava nel perseguire i principi di un guerriero, i principi del bushidō...e dare la vita per un assassino, uno stupratore e un tiranno avrebbe reso sdegnati i suoi antenati e disonorato il nome della sua famiglia. Poi si fece da parte, chinando il capo e e ad un suo gesto, i samurai si volsero verso le porte spalancate e ne serrarono i battenti, pronti a rallentare l'orda di ashigaru e samurai lealisti che avrebbero fatto pagare loro il tradimento con la vita. Ma quella, disse il comandante, sarebbe stata una morte gradita al cielo e da accogliere col sorriso sulle labbra.
   L'assassino annuì col capo, chinandosi a propria volta e passò oltre gli arcieri, risalendo di fretta l'alta torre in cima alla quale stavano gli alloggi dell'uomo che era giunto ad uccidere. La scalinata serpeggiava ad angoli retti verso l'alto e su ogni piano si affacciavano porte scorrevoli mentre un'apertura perfettamente circolare dall'alto faceva entrare abbondante la luce del tramonto. L'oro della giornata morente inondava la fortezza e pioveva a fiotti abbondanti, baciando il legno della costruzione, danzanti fra le colonne che correvano lungo l'orlo esterno delle rampe. L'assassino scattò di corsa, stringendo i denti, seguendo le continue curve delle rampe, sentendo dietro di lui il fragore dello scontro.
   Le porte vennero sfondate a colpi di lama, l'uomo si abbatté di slancio contro coloro che ne uscivano, lasciandoli riversi sui pianerottoli o gradini a pompare sangue dalle gole tagliate e dagli arti mutilati. I suoi passi picchiavano rapidi sui gradini, la spada cozzava contro le altre, deviando affondi e fendenti, danzando precisa e sinuosa, trovando sempre un punto dove colpire facendo sgorgare altro sangue fresco e strappando grida e lamenti strozzati dai nemici abbattuti. Dabbasso, lo scontro infuriava nella sala del trono, gli ashigaru andavano a morire contro le lance e le katane dei samurai traditori, gli arcieri scoccavano contro i lealisti, sbalzandoli all'indietro e gli uomini si facevano a pezzi in una ressa furiosa dove l'onore non stava nella lotta in sé, ma nella causa perseguita. 
   In prima linea, il comandante delle guardie si batteva esponendosi al pericolo, lasciando che fosse la sua spada a parlare per lui, stretto spalla a spalla con i suoi uomini, sudato sotto la corazza e con gli occhi che mandavano bagliori febbrili. La lama si sollevava e calava, scattava in orizzontale e verticale, il sangue schizzava al suolo mentre il nemico assediava l'ingresso, respinto dalle frecce e dall'acciaio ripiegato e battuto decine di volte, sino a rendere ogni arma brandita un letale strumento musicale il cui canto era null'altro che la sinfonia della morte. Le voci dei combattenti formavano una grandiosa cacofonia e il macabro tonfo dei corpi accompagnava il suono del metallo che penetrava nella carne.
   L'assassino proseguiva la sua ascesa, colpendo rapido, col cuore che batteva follemente contro il costato, la fronte madida di sudore, i muscoli doloranti e le labbra strette, i denti serrati. Un colpo, un urlo, un altro morto. Si muoveva agile e veloce sugli scalini, affondando e fendendo facendo spruzzare scintille quando l'acciaio colpiva l'acciaio, squarciando il do delle corazze dei suoi avversari, tagliando loro la testa, le braccia, spaccandoli da parte a parte impugnando la katana a due mani, ringhiando mentre il sangue zampillava a fiotti, trasformandolo in un mostro rosso di furia omicida. Fuori iniziò a piovere, sentì i fulmini e i lampi, la pioggia contro le regole rosse della torre e dal basso, distante, l'eco dello scontro. 
   Diede il colpo di grazia al samurai morente davanti a lui, staccandogli la testa dal collo, il sangue pompò impazzito dal moncherino, sprizzando tutto attorno e ricominciò a correre. Ogni passo era sempre più vicino, si, c'era quasi. Quasi! 
   [https://youtu.be/sx8RWeaWp1Q]
   Sfondò l'ultima porta col corpo di un hashigaru armato con una yari e gli diede un calcio, mandandolo per terra. Era nella grande sala da tè privata dello Shogun, con le sete rosse che pendevano dal soffitto, i cuscini poggiati al suolo, il terrazzo flagellato dal temporale. Dall'apertura sul tetto, l'acqua cadeva nel cuore della torre, alimentando i pozzi interni e nessun servitore provvide, quella notte, a chiudere i pannelli scorrevoli fra le colonne. L'acqua ruscello lungo i gradini lordi di sangue, provocando cascatelle scarlatte e un profondo silenzio scese sulla fortezza. L'assassino era consapevole di quanto rumore dovesse fare la battaglia nella sala del trono, ma nulla gli giungeva più. In quell'immobilità, il sangue gli scorreva di dosso e gocciolava sulle pregiate stuoie stese sul pavimento. Cadeva dalle dita, dai capelli, dal kimono attaccato al suo corpo forte e scattante, dai capelli neri sciolti e dal volto. Restò così per del tempo, finché davanti a lui non comparve un alto samurai, anziano, coperto come lui da un kimono verde e oro, con una la destra poggiata sull'elsa della katana. Il maestro di spada dello Shogun...il suo vecchio maestro che lo aveva spinto sulla strada del bushidō. Come poteva quell'uomo servire un demone, quale era il suo signore?
   Non ci furono discorsi o parole. L'assassino rifoderò la spada e chinò il capo, imitato dal vecchio ed entrambi si avvicinarono impercettibilmente di pochi passi, prima che le mani snudassero le spade, iniziando a scambiarsi rapidi, ponderati colpi. Dal basso, dall'alto, sul fianco, in diagonale; mai distogliere il contatto visivo, mai una mossa superflua. Le spade cantarono allegramente durante il duello, i muscoli rispondevano agli ordini dei loro proprietari e le spade fischiavano nell'aria, raggiungendosi e inseguendosi fulminee in balenare di bianco e argento. Il primo colpo andò al maestro che gli aprì la veste sul petto, segnandolo dal pettorale sinistro al fianco destro ma l'uomo si fece sotto veloce, costringendolo ad arretrare e gli segnò la spalla, sollevando il sangue in alto, facendolo pompare copioso come fosse la gola squarciata di un maiale. Si separarono un istante, ripresero respiro e tornarono all'assalto, girando in cerchio nel tentativo di trovare una falla nella difesa del nemico. Ma il vecchio lo comprese: l'assassino dello shogun esitava, forse senza rendersene conto, a porre fine alla sua vita. 
    I due non potevano sentirlo, e non tanto per la distanza o la tempesta quanto per la concentrazione, ma decine di metri sotto i loro piedi, il comandante delle guardie veniva trafitto ad una spalla e all'addome, i suoi uomini lo tiravano indietro e gli arcieri bersagliavano quanti avevano forzato il blocco ed entravano nella sala, soverchiandoli di numero. Con un ruggito, i samurai ribelli si lanciarono in avanti nella sala, fronteggiando quell'orda sanguinaria e ne uccisero decine: ogni ribelle passato a fil di spada se ne portava una mezza dozzina nella tomba, trasformando il pregiato ambiente in un mattatoio, dove le viscere si mescolavano ai rantoli di morti. Sul punto di spegnersi, il comandante si fece aiutare a togliersi la corazza e, dietro al trono fece seppuku, squarciandosi il ventre con la spada, il sangue sgorgò a fiumi e quando sollevò lo sguardo sul suo assistente, il suo era il sorriso di un uomo in pace e quel sorriso gli rimase impresso quando gli venne tagliata la testa. 
   Con la morte della loro guida, i traditori si offrirono al massacro, buttandosi sulle lance tese con poderosi urli di guerra, bloccando l'avanzata con i loro corpi, costringendo i lealisti a ucciderli uno ad uno per poter passare oltre e raggiungere il loro signore. Costui, nel mentre stava seduto nelle proprie stanze, bevendo del tè caldo mentre le cortigiane suonavano e cantavano, ascoltando il rumore della pioggia e l'eco dei combattimenti. Andava tutto bene, chi si era ribellato sarebbe morto e chiunque fosse l'assassino non avrebbe mai superato il vecchio. Sorrise allegramente e rise, imitato dalle donne. I ceppi alle loro caviglie le segnavano a sangue e i collari quasi impedivano loro di respirare se sollevavano la testa per guardare il loro signore.  
   Poco fuori, nella sala del tè, il vecchio e il giovane continuavano a scambiarsi colpi fulminei, fino a quando il maestro non fece un passo in avanti e calò contemporanea la katana, strappandogli l'occhio destro in una sottile ma abbondante scia di sangue. In quel momento, il mondo dell'assassino perse i suoi colori, tutto si fece bianco e nero, persino il rosso del suo sangue e d'istinto mosse la spada in diagonale, verso sinistra. Sentì un sibilo di dolore e battendo più volte l'occhio sinistro per recuperare la vista, vide il vecchio cadere in ginocchio, tenendosi il moncherino che pompava sangue, rumoreggiando viscidamente mentre sgorgava. Tenendosi la destra sul volto ferito, l'assassino strinse la sinistra attorno alla lama e con un urlo strozzato gli fece rotolare la testa sulle stuoie, incespicando e spostando il peso da un piede all'altro, recuperando l'equilibrio. Riprese ad avanzare, lentamente, superando i pochi gradini che gli restavano e fece a pezzi il muro di carta con la spada. Ci fu un'epslosione.
   Dalla canna del moschetto si sollevava una pallida linea di fumo, lo Shogun aveva usato la schiena nuda di una delle cortigiane come cavalletto e nel momento in cui lui era entrato, aveva sparato, sbalzandolo all'indietro, facendolo cadere di schiena, con un buco bruciante nella spalla mancina. Si rimise sul ginocchio sinistro poggiato a terra, il vapore si sollevava dalla sua bocca e rivolse al signore uno sguardo di odio, stringendo convulsamente la presa sulla katana. L'uomo rise, rise malignamente e si preparò a sparare di nuovo, puntando alla sua testa, innescando la micca. Ma si udì un urlo di donna, la punta di una kodachi uscì dalla coscia destra dell'uomo col fucile, facendolo strillare come il porco che era, la sua arma cadde a terra. Si voltò urlando, colpendo la donna al volto con un manrovescio e portò la mano all'elsa del pugnale, digrignando i denti. 
   In quel momento accaddero molte cose: i suoi uomini fecero irruzione, lanciandosi in avanti contro l'assassino, questi fece un balzo poderoso con le ultime forze rimastegli e si portò davanti allo shogun; l'ultima cosa fu la sua lama che penetrava a fondo nella sua gola, inchiodandolo a terra e facendone sgorgare il sangue a fiumi. Un colpo violento di venti spalancò le porte della terrazza, irradiando il bianco dei fulmini e il nero della notte dentro la stanza, mettendo a nudo la morte di un miserabile per mano di una puttana e di un ronin senza padrone. Gli uomini del palazzo si fermarono davanti a quella scena, osservando stupiti l'assassino che si rialzava, la lama che aveva colpito il signore alla gamba conficcata nel suo addome e il volto pallido. Si guardò attorno, poi guardò la donna e le tolse il collare, lanciandoselo alle spalle e, senza che nessuno osasse muovere un muscolo, col temporale che si abbatteva sulla fortezza tornata silenziosa come un campo di grano in inverno, l'assassino dello shogun si mosse verso la terrazza, chiudendo gli occhi e lasciò cadere la katana che picchiò sulle assi di legno. Il volere del suo signore era compiuto, il mostro era morto e il Paese...il paese poteva rinascere. 
   Prese un profondo respiro, portando le mani alla kodachi stretta nelle sue carni e stava per aprirsi il ventre quando un fulmine colpì il terrazzo, facendolo cadere in basso, nelle tumultuose acque del fiume che a scorreva decine di metri più in basso, alla base della torre. Uomini e donne si precipitarono in avanti, ma il corpo dell'uomo venne avvinghiato dalla crudele corrente e trascinato via, lontano, sempre più lontano. 
   Con la morte dello Shogun, il paese era destinato a tornare in guerra, i daimyo si sarebbero mossi gli uni contro gli altri e gli eserciti sarebbero stati il flagello delle campagne, dei villaggi e dei deboli. Venne quindi deciso altrimenti dai dignitari di corte: la donna che aveva colpito lo Shogun gli succedette sul trono in via eccezionale, fu facile dopotutto fare sembrare che l'uomo l'avesse adottata e legittimata. Il comanda ribelle sarebbe stato onorato e sepolto come un eroe assieme ai suoi cinquecento ribelli.
   Di cosa ne fosse stato dell'assassino nessuno ne seppe nulla, divenne una leggenda popolare, un eroe senza nome che aveva posto fine alla tirannia. Ma si dice che, da qualche parte, comparisse ancora, per intervenire sugli oppressi, su coloro che soffrivano e punire ancora i malvagi, come uno spirito vendicativo...
 


   Il mondo era in bianco e nero, l'uomo col cappello di paglia superava il ponte, il bandito morto alle sue spalle e da qualche parte un vecchio iniziava a cantare. Perché lui non era un fantasma, lui era un Ronin, sopravissuto forse per volere del cielo e il mondo...il mondo era in bianco in nero. Il suo nome sarebbe entrato nella storia della sua nazione come quello del più abile spadaccini del Paese: Miyamoto Musashi e mai, mai avrebbe conosciuto la sconfitta, né per la spada o fucile che fosse. Lui era un ronin, l'uomo col cappello di paglia e avrebbe riportato il colore della speranza dove vi fosse un bambino, una donna o un uomo in lacrime. Ma lui non li vedeva più, no...per lui, il mondo era bianco e nero.
   Ma chi era Miyamoto? Cosa lo aveva spinto ad intraprendere una guerra suicida contro lo Shogun, chi era stato prima di seguire la via del bushidō come lama al servizio dell'umile? Questo nessuno seppe mai dirlo con certezza, la verità se la portò nella tomba e anche se qualcuno, forse, un giorno dovesse essere in grado di raccontarla, come si suole dire...sarebbe un'altra storia, un'altra storia di spada, guerra e onore. 
   Ma, appunto, questa è un'altra storia.

 

      Prima di tutto, i chiarimenti necessari!
   Ho messo questa storia nella categoria "storici" solo per la presenza del protagonista, ma, ovviamente, non ha alcun interesse a rifarsi davvero alla vita del leggendario spadaccino giapponese a favore di una narrazione, come messo nell'introduzione di forte ispirazione della cinematografia epico-giapponese in aggiunta allo stile della fumettistica nipponica che spesso, nel trattare di personaggi storici del genere si concede qualche esagerazione in termini di abilità e forza. Ad ogni modo mi sono sforzata di mettere qualche dettaglio tipico dell'epoca feudale giapponese qua e la, sopratutto nelle armi e nella temrinologia ad esse legate.
   Gli ashigaru per esempio costituivano il corpo principale delle armate al servizio della classe dei samurai nel periodo feudale, la milizia armata costituita prevalentemente da contadini addestrati e armati.
   i samurai, invece costituivano la classe guerriera dell'epoca geudale giapponese, per certi versi assimilabili ai nostri cavalieri medievali.

   La katana è la spada giapponese corrispondente ad una scimitarra o sciabola ma con impugnatura a due mani mentre le yari era un tipo di lancia usata sempre nel periodo feudale, anche se dalle fonti risulta fosse di uso più comne fra i samurai rispetto agli ashigaru. La do era invece la corazza tipica dell'armatura
 giapponese, composta da un insieme di cuoio, metallo laccato e stoffa. Per finire, l'arma nota come kodachi era una spada giapponese troppo corta per essere considerata come una spada lunga, ma troppo lunga per essere un pugnale. Grazie alle sue dimensioni, poteva essere estratto e utilizzato molto rapidamente.
   Ma nonostante questi radi dettagli, ripeto, la storia è pensata per far parte di un mio filone narrativo che si rifà fortemente all'epica nipponica. Questa one shot in particolare è il prequel di un altro piccolo lavoro dal titolo "Il ponte" e fa da base a quello che sarà un autentico universo narrativo ambientato in un Giapppne medievale dai carattri epici/fantastici con la presenza anche di demoni e creature sovrannaturali tipiche del folclore del Sol Levante! Detto questo, spero davvero che il progetto vi piaccia, alla prossima!

   
 

  
   
 
 
 
   
 
Leggi le 2 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Scarlett Queen