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Autore: sacrogral    10/12/2022    11 recensioni
… in cui il Marchese avrà un colloquio particolare e in teoria impossibile, tanto l’incredulità è già sospesa, ma solo dopo aver rivisitato la sua vita dal suo personale punto di vista; d'altronde, Latour farà la stessa cosa, cioè rivisitare la vita del marchese dal proprio personale punto di vista; nel frattempo, alla Disperazione si prepara un piano che, se vogliamo trovargli delle falle, ce ne sono a iosa, ma loro han deciso così.
Vesto il testo di arancione per colpa di Sade, e declino ogni personale responsabilità.
Licenze storiche, sicuramente, a volontà.
Questa storia è un capitolo di una storia, come indica il III. Il titolo è ancora provvisorio.
Genere: Dark, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Una volta sdraiato sul suo pagliericcio, senza neanche togliersi gli abiti da giorno, de Sade incrociò le braccia dietro la testa, chiuse gli occhi e dimenticò il mondo.

Aspettava.

E intanto rifletteva sulla sua assoluta impossibilità di cambiare anche quando avrebbe voluto farlo. Succedeva sempre qualcosa nella sua testa che gli diceva che era impossibile, che mai avrebbe potuto fare finta di essere diverso, nemmeno per convenienza, soprattutto per convenienza. Ripensò alla sua giovane cognata, che aveva iniziato al sesso sedicenne, prima che la sbattessero in convento per risparmiare sulla dote, e poi alla fuga di lei, il cercarlo e buttarglisi fra le braccia: “Mio unico amore”, aveva detto, la ragazzina, a lui che, quando diceva amore, non intendeva la stessa cosa. La breve parentesi di felicità in Italia – era stato felice, lo ricordava. Quel tacchino urlante di sua suocera, consorte di un Presidente di Tribunale, che gliela giurava a vita per avergli rovinato non una figlia, ma due. E la devozione cieca di sua moglie, quella bigotta innamorata del fatto di avere un marito, e pronta a mentire per lui, a riprenderselo sempre e comunque perché fedeltà gli aveva giurato davanti a un paio di incensieri, ai turiboli cesellati e a due immagini di Santi e Madonne. Gli risaliva la bile consueta, e continuava a imporsi di non aprire gli occhi.

Aspettava.

Le donne facili, le donne vogliose, le donne fameliche. Colette, l’attrice, che aveva dovuto dividere perché troppo costosa da mantenere. A Marsiglia. Quelle piccole canaglie con gli occhi lucidi davanti al denaro, pronte a fare di tutto. E lui, libertino sì, ma avvelenatore mai, criminale mai. Gli montava la rabbia tanto da sentire la bile in gola, ma si costringeva a rimanere immobile, a occhi chiusi.

Ad Aix le accuse di veneficio erano cadute, per la questione morale aveva dovuto solo pagare un’ammenda, avrebbe dovuto essere libero. Libero! Non fosse per quella lettre de cachet, per quella scrofa di Madame la President… inutile pensarci.

A che punto era, la sua opera? Dov’era rimasto? Parlava Dolmancè, faceva filosofia nel boudoirSappi dunque una volta per tutte, uomo ingenuo e pusillanime, che ciò che gli imbecilli chiamano umanità non è che una debolezza nata dalla paura e dall’egoismo; che quella chimerica virtù, che non incatena che gli uomini deboli, è sconosciuta a coloro il cui carattere è temprato dallo stoicismo, dal coraggio e dalla filosofia. (1) E poi avrebbe provveduto a organizzare l’orgia, a servire ben bene la signora di Mistival.

Era facile buttare il fiele che secerneva minuto dopo minuto, dietro quella maschera di ferro, sulla carta. Ci credeva? Si divertiva? Voleva insegnare o ammonire? Vallo a sapere. L’unica cosa reale era che, quando Lanuy faceva picchiare a sangue San Giorgio, e gli diceva di guardare e divertirsi, a lui prendevano una tale stretta allo stomaco e un furore cieco che avrebbe strozzato quell’uomo con le sue mani, quell’idiota che disprezzava l’immoralità delle idee ma non quella delle azioni.

Umanità ingrata, nient’altro che fango.

E quella gente, quei pezzenti, in quel buco di posto in rue Saint Lazare – ma chi erano, quelli? Il boia di Parigi – un uomo dignitoso, ecco cos’era, e non ricattabile, come aveva detto; eppure c’era qualcosa di malato nella sua mente, se era rimasto lì, fermo, con gli altri, impotente a portare in fondo la propria dignitosa ribellione; il dottore… non avrebbe voluto certo, il dottor Lassone, che si rimestasse in acque sporche, che si insinuasse che la morte improvvisa del visconte de Lorsange, di famiglia imparentata alla lontana con i Colonna di Roma, non fosse stata del tutto naturale – il visconte di Lorsange, noto pederasta e meno noto assassino di bambini, che negli ultimi tempi aveva girato assai attorno ai figli del dottor Lassone, e una sera sua moglie gli aveva detto che, se era un vero uomo, Joseph-Marie-François da tale avrebbe dovuto comportarsi, e altro non aveva aggiunto, e non ce n’era stato bisogno;  e l’oste, quel Joss che da trent’anni e più sciacquava bicchieri alla Disperazione, il gigante più brutto che la natura avesse mai prodotto, capace di buttar fuori a calci un paio di parigini ubriachi e molesti, a calci e mani nude se gli girava storto, e incapace di scambiare due parole ammiccanti con una prostituta avvezza a tutto; e il giovane poeta, quel saltimbanco da due soldi con la faccia di un imperatore romano, se voleva, col cuore sempre gonfio come il viso dell’amico del cuore annegato nella Senna – per colpa sua, credeva il ragazzo, perché avere più talento del tuo amico migliore è un peccato originale, se tu e l’amico migliore battete le stesse strade, seguite gli stessi miraggi, e se l’amico è fragile – e Michel Gobemouche quel peso dal cuore non se lo sarebbe tolto mai, come il suo amico Marcel non avrebbe più rivisto le stelle amiche, sulla collina di Montmartre;  e il ragazzino con la Luce, che aveva paura della sua ombra, di disturbare e di far del male ai bicchieri, ma non tremava davanti alla Morte che porta con sé ricchi e poveri, realisti e sognatori, vecchi con la gobba e fanciulle in fiore – il ragazzino, che non tremava davanti a lui, e aveva l’audacia di definirlo una brava persona, lui, che lo stesso Latour venerava per la malvagità innata, sovrapponendolo a ogni personaggio delle sue opere, le uniche per le quali venivano di nuovo invocati i roghi.

Perché, si chiedeva ancora, proprio quella marmaglia, eterogenea e fosca, sotto il Memento più vivido che mai gli fosse capitato di vedere, dipinto come se fosse una scultura da chissà quale mano e in quale tempo; cosa c’entravano alla fine con la sua missione, come avrebbero potuto aiutarlo, loro, che lo guardavano con la diffidenza congenita delle persone abituate a nascondersi, a parlare poco di sé, a tenersi dentro i propri mostri e a non sbatterli in faccia al mondo intero?

E finalmente la sentì.

Tenere gli occhi serrati gli era sempre più difficile, di fronte all’evidenza del corpo di donna addosso, alla magia di un corpo di donna a lungo atteso e desiderato.

La donna portatrice di bellezza, la donna salvifica, la donna pronta ad accogliere.

Il bacio lo fece quasi commuovere, un bacio di sogno dopo notti a produrre baci che erano rabbia e incubi, carne marcia e fetida per lussuriosi alla ricerca di un alibi e sensazioni forsennate; poveri idioti, pensava, che leggevano i suoi assilli e tormenti per trovare una quiete che non era la loro, mentre sarebbe bastato un bacio di sogno come quello a riconciliarli con la terra, con quello che c’è talmente in fondo all’uomo che neanche l’uomo sa dargli un nome.

“Non aprire gli occhi, monsieur le marquis” disse una voce morbida.

“Non li apro, non li apro” mugolò, spostando una gamba e senza sciogliere le braccia con le mani in croce dietro la nuca “Vi attendevo, mia signora. Da una vita vi attendevo”.

“Alphonse, hai sempre voglia di scherzare. Eppure è necessario che tu tenga bene a mente cosa sono io, e cosa mi è stato fatto” disse la Dama (2), che lasciava andare il suo respiro profumato sulla bocca di Sade, desideroso di mangiarlo.

“Siete una làmia, un demone e una strega, che ha trovato casa a Nouvelle Orleans nelle cui foreste, sempre bagnate di pioggia, scherzano i lutin. Vi nutrite di carne umana e quando siete sazia vi addormentate nell’Eden, accanto all’albero del Bene e del Male. Vi nutrite di uomini perché siete donna e date un senso evidente al vostro essere donna. E adesso siete sopra di me, sento il vostro peso ma non vi vedo, madame, perché mi avete ordinato di tenere gli occhi chiusi. Questo tengo a mente e di più non so, ma – e il marchese liberò le braccia, e affondò le mani possessivo nelle natiche che sentiva soffici ma anche dure di quella donna che lo teneva in pugno – questo, però, posso farlo”.

Sentì il bacio, rovente, sulle sue labbra secche e screpolate.

“Marchese, concentrati – non mi addormento più nell’Eden, lo sai cosa mi è stato fatto, sono stata troppo cattiva, o troppo poco, e ho addosso una maledizione potente, perché c’è Qualcuno che ha potere anche su di me. Io non posso intervenire. Tu hai fatto quello che ti ho chiesto?”

“Alla lettera, mia signora” iniziò Sade, non pensando a smettere di affondare mani e dita in quel corpo che non vedeva, e che avrebbe voluto riempire di lividi fin sui vestiti, con quella rabbia che gli prendeva le mani e i muscoli ogni volta in cui desiderava “Latour iuvante, abbiam raccolto ogni informazione possibile sulla nostra scuderia, arruolati per rubare il Graal, usando eterodossia e male arti a profusione. Ma – stringendole le braccia, che sentiva scoperte e vellutate come un frutto, in una maniera tale che avrebbe fatto urlare qualsiasi donna – il Graal… voi siete certa? Intendo, il Calice presuppone di credere a tante cose cui io non credo, e la leggenda della carretta – si parla di Scozia, e di Rennes le-Château, per questa carretta, che magari trasportava fieno”.

“Per una volta, non pensare a cose antiche quanto il mondo, quelle lasciale ricordare a me. Il Graal spezzerà la maledizione che mi ha colpita, o la giusta punizione, se preferisci. Ma lo so, Lui mi aiuterà, e spazzerà via la nobiltà mefitica, agirà come un tempo agì la Peste, sarà una provvida sventura, e Dio riconoscerà i suoi” terminò, con voce in cui de Sade riconobbe la suprema indifferenza di chi sta sopra tutto e tutti, ed è imparziale.

“Lo farò, mia adorata, ma non mi avete detto abbastanza – qual è la maledizione che vi ha colpita? Chi l’ha scagliata? Perché? E perché non posso guardarvi, nemmeno sotto la luce della luna, che è l’unica mia ricchezza qua dentro?”

Sade la sentì muoversi nervosa e impaziente, come una donna, pensò con una bestemmia, la donna che ricordava impressa a lettere di fuoco e che ora non poteva guardare, benché le stesse facendo un gran servigio, di fatto fosse ai suoi ordini, suo schiavo – lui, nato libero! si inalberò – con quella promessa che adesso gli pareva assurda, la caduta della Monarchia francese assoluta e sovrana e il trionfo dell’Illuminismo, di quei quattro cialtroni convinti che l’essere umano sia ragionevole , figuriamoci!

La Dama sentì più forte la stretta delle gambe di lui, più rabbioso il contatto, più concreto l’affondo delle mani.

“Non puoi e basta, marchese. Potrai, un giorno, appena tutto sarà finito” gli disse, rassicurante.

“Davvero?” la sfidò de Sade, che spalancò gli occhi di colpo – giusto il tempo di intravedere, mentre la Dama spariva in fruscio di vesti e con un grido di orrore inaspettato, non avvezza all’insubordinazione ma soprattutto terrorizzata, giusto il tempo per il marchese di intravedere, al posto del viso d’angelo che ricordava nei dettagli, al posto delle labbra che aveva baciato poco prima nel profumo delle rose di primavera, le orride e deformi fattezze di una testa di cammello (3).

 
Latour, nato sibilando anziché piangendo, che nella vita aveva continuato a sibilare anziché parlare, incapace di provare dolore e privo di ogni qualsivoglia empatia verso il dolore altrui, aveva sviluppato una venerazione nei confronti del libertino che aveva, come unico limite, la priorità della realizzazione dei propri interessi personali.

Non avvezzo alle sottigliezze, al contrario del suo padrone, e del tutto incapace di dividere la parola scritta dall’azione, non aveva tardato a convincersi che tutto ciò che il divin marchese raccontava fosse l’assoluta verità del davvero compiuto. Portava sempre con sé una copia tascabile di un’opera di Sade, o qualche pagina ricopiata dai lavori cui il padrone attendeva e, pur deluso dal fatto che le imprese gloriose dell’uomo cui aveva assistito di persona non fossero né migliori né peggiori di quelle dei mariti infedeli e fedifraghi che abbondavano nella società, pensava di aver avuto per adesso solo l’antipasto di quello che doveva essere l’intero pranzo; affascinato dall’idea astratta di quello che gli uomini normali chiamavano dolore, grazie alla scrittura del marchese de Sade andava oltre, riconosceva e amava la distorsione dei volti nel dolore e quella dei corpi attraversati dalla paura e da quel qualcosa che spingeva la gente al pianto e al lamento; lui, da quel punto di vista, non provava nulla. Doveva far attenzione a non appoggiare per sbaglio la mano sui tizzoni ardenti, perché l’avrebbe persa, carbonizzata, mentre pensava a cosa mangiare per cena.

Ma lui capiva tutto. Comprendeva, per esempio, che la società volesse il suo padrone alla Bastiglia, o in qualche manicomio criminale sparso in giro per la Francia. Insieme ai figli dementi e alle figlie disonorate di cui tutti si vergognavano. E non dubitava che le mani del nobile fossero sporche del sangue di fanciulle portate contro la loro volontà all’estremo del dolore e anche del piacere, e solo dopo ammazzate – e poi, più innocenti erano meglio era, nessun dubbio. Ma anche ragazzi, anche giovani uomini, certo, quegli insopportabili giovani uomini delicati e incipriati che avevano acqua e non sangue nelle vene, e che tanto innervosivano il marchese.

… la legge, essenzialmente fredda, non saprebbe essere accessibile alle passioni che possono legittimare nell’uomo la crudele azione dell’omicidio; l’uomo riceve dalla natura le impressioni che possono fargli perdonare quell’azione, e la legge, al contrario, sempre in opposizione alla natura e non ricevendo nulla da essa, non può essere autorizzata a permettersi gli stessi eccessi; non avendo gli stessi motivi, è impossibile che abbia gli stessi diritti. Ecco delle distinzioni sapienti e delicate che sfuggono a molta gente, perché pochi riflettono… (4)

Capiva benissimo, lui, cosa significava. Tornare al diritto di natura, in cui il forte mangia il debole – il forte, non il ricco, non l’uomo colto, non l’uomo legiferatore, solo il forte di forza bruta. Il lato estremo dell’Illuminismo che de Sade sbatteva in faccia ai francesi, quell’Illuminismo che faceva sorridere il marchese di un sorriso storto e di sufficienza, Ma lui, lui comprendeva. Altro che, come a Marsiglia, dopo quelle sculacciate di rappresentanza a quella giovinetta gaudente – Non ti ho fatto male davvero, eh, zuccherino? chiedeva il marchese, viscido, dopo, afferrando il mento della poco più che ragazzina soddisfatta.  Altro che mettere in guardia, altro che quella cosa dei livelli di lettura del testo, concetto che lui non aveva nemmeno afferrato. Si trattava di riprendersi i diritti di natura, molto facile. E il diritto di natura è semplice: sei bestia e hai fame – insegui la tua preda e la mangi. Fine. Sei uomo e vuoi godere e capire cos’è il dolore – insegui la tua preda e la mangi. Fine.

 
“E adesso che si fa?” chiese Michel Gobemouche, ancora un po’ inquieto. La sensibilità finissima del poeta lo portava a quella che un giorno sarebbe stata chiamata somatizzazione, e in fondo lui era il contrario di Latour: sentiva tutto, percepiva ogni singolo cambiamento emotivo nell’aria, ogni emozione altrui sulla sua pelle.

“Io ho fame!” disse Foret, in quella che gli sembrava una risposta.

Joss, disapprovando con le sopracciglia, si mise comunque a preparare qualcosa per il cucciolo, ché non è bello che i ragazzini in crescita non mangino quando hanno voglia.

“Al momento” prese la parola il dottor Lassone, tirando dalla pipa e reso un po’ meno lucido dalla giornata pesante, dalla serata ancora di più e dal vino – offerta del marchese, bontà sua! – “ par incontrovertibile che aspettiamo gli ordini del nostro nuovo condottiero, che sa passare dalle porte chiuse. E del suo tirapiedi che, concordo naturalmente con tutti voi, è un altro pendaglio da forca biforcuto come un serpente. E pur tuttavia, mi permetto di suggerire che, se dovremo sotto coercizione sottrarre qualcosa da Versailles, sarebbe comunque opportuno iniziare a organizzarci per entrare in Versailles medesima”.

“Intende con mezzi leciti o illeciti, dottore?” chiese Gobemouche.

Il boia sembrava trasformato in una statua di sale.

“Ho famiglia” pensava “Ho una famiglia che è la luce della mia vita. Perché sono qui seduto, perché non riesco a staccarmi da queste persone che sono impazzite, e poi perché non riesco a dire di no a Lei? Ma quale uomo potrebbe riuscirci, alla fine?” si chiedeva, con le domande degli innamorati colpevoli, e degli uomini toccati dal fato. Lui era stanco, tutto voleva fuorché fare ancora la Storia.

“Intende che preferirebbe mezzi leciti, e se ci aspettiamo da quel galeotto senzadio un suggerimento in questo senso, stiamo freschi, mondo boia!” e fra Etienne si girò verso monsieur Sanson “Scusate, eh, è solo un modo di dire”.

“Nell’insieme e tutto considerando” continuò il medico “Credo di esser colui che ha le maggiori possibilità di entrare e muovermi nella Reggia, benché nell’unicità della mia veste professionale. Urge però ch’io venga consultato, non essendo peraltro l’unico medico delle Loro Maestà – dal che si deduce che debba essere chiamato, e pertanto che debbano in qualche modo sentirsi male i Reali o qualcuno ai Reali molto vicino. A quel punto, portarmi dietro Michel nelle vesti di mio giovane aiutante sarà uno scherzo. Il tutto presupponendo, così facendo: 1) che il Graal si trovi alla Reggia 2) che noi riusciamo a scoprire ove esso si trovi 3) che riusciamo a riconoscerlo e a trafugarlo senza incorrere in sospetto o esser passati a fil di spada, direttamente, dalle Guardie di Sua Maestà. Come ha detto monsieur le marquis, un lavoro facile facile”.

“Un momento!” protestò Gobemouche “Come sarebbe a dire Michel nelle vesti di mio aiutante? Io non capisco un accidenti di medicina!”

Il dottore scacciò con la mano qualcosa che non c’era, mentre le sue occhiaie perenni sembravano arrivargli a metà gota.

“Nessun giovane aiutante ci capisce un accidenti. E magari potremo far passare anche Foret, se sta zitto e porta un paio di borse nessuno ci farà caso. Ma è necessario, appunto, che io in persona venga convocato”.

“Indi ragion per cui qualcuno dovrà sentirsi male”.

“Ma non troppo male, Foret” intervenne, per la prima volta, Joss, passandogli due grosse fette di pane imbottite con qualcosa che entusiasmò il bimbo “Non troppo male. In realtà, basterebbe che qualcuno riuscisse ad avere accesso alle cucine reali, e con molta discrezione mettesse qualche semplice al posto di qualche altro ingrediente, e la cosa sarebbe fatta”.

Siccome Foret aveva sgranato gli occhi, il dottor Lassone assunse un tono professionale: “Per Semplici si intendono i principi curativi che vengono ottenuti direttamente dalla natura, in terminologia medievale e popolare. Ergo, Joss intende che basterebbe qualche erba o succo d’erba dal potere, per esempio, di lassativo potente, introdotta con abilità nelle reali pietanze, per scatenare effetti che facilmente richiederebbero le cure del professionista qual io sono”.

Sanson alzò le sopracciglia, mentre fra Etienne, afferrando il rosario di legno, chiuse la questione:

“E per introdursi nelle reali cucine, niente c’è di meglio di un prete per la questua, boia d’un mondo!” e prontamente aggiunse: “Carità, monsieur Sanson, è solo un modo di dire!”
 
 
  1. D.A.F., OPERE, La filosofia del boudoir, p. 234, in Opere, (Paolo Caruso e Alberto Moravia a cura di), I Meridiani, Mondadori, 1976.
  2. Per saperne di più su colei che si definisce una cosa, cfr. le mie Lei arriva coi fulmini nel cielo sereno nonché E dei remi facemmo ali al folle volo 0-XII, nella sezione Lady Oscar di questa Piattaforma. Chi non ne avesse voglia, aspetti che il racconto la riveli, con una pazienza di cui sono grato.
  3. Il primo/ la prima che becca il riferimento vince una bambolina!
  4. D.A.F., OPERE, La filosofia del boudoir, p. 171, in Opere, (Paolo Caruso e Alberto Moravia a cura di), I Meridiani, Mondadori, 1976.
 
 
 
 
  
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