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Autore: Flofly    23/12/2022    2 recensioni
Gli oggetti raccontano una storia se li sai leggere. E se sei una Lettrice potresti scoprire molto di più di quello che avresti mai creduto, anche che gli abbracci a volte sono nascosti nel ticchettio di un orologio.
La storia partecipa alla Secret Santa Challenge II° edizione indetto sul forum Ferisce più la Penna da Mari e Sia.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Berenilde, Ofelia, Thorn
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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La storia partecipa alla Secret Santa Challenge indetta sul forum Ferisce più la Penna da Bellaluna ed è il mio regalo per Jeremymarsh… Buon Natale!
Per confezionare il tuo regalo ho preso spunto dal modo in cui hai descritto Berenilde nella tua raccolta di Missing Moments Come madre e figlio e ho voluto aggiungere la mia versione di chi abbia regalato l’orologio da taschino a Thorn e perché. La storia è inserita nel contesto del primo libro ( ad eccezione del flashback) ma con qualche smagliatura rispetto alla trama originale che spero non ti disturberà troppo.


 
 
 Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare

Un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.

Un tempo per amare e un tempo per odiare 
(Dal libro del Qoèlet)

 
Ofelia osservava pensierosa il carretto che stazionava sul vialetto di ingresso: l’uomo sembrava attardarsi più del necessario, il pesante tabarro ricoperto di neve poggiato sul sedile accanto a lui.
Ovviamente all’interno del Maniero di Berenilde quel capo non aveva alcuna ragione di esistere: nonostante fosse la mattina della Vigilia di Natale, l’aria era mite e profumata come se fosse primavera. Ofelia prese il binocolo per studiare più da vicino l’uomo, prima che i valletti di Berenilde lo cacciassero via. Aveva ragione: anche attraverso gli occhiali appannati poteva notare la differenza tra lo spesso strato di ghiaccio che ricopriva ancora le ruote e la neve soffice come panna montata che decorava i giardini. Persino le mani dell’uomo avevano i segni inequivocabili di chi fosse stato costretto a stare all’aperto nel clima inclemente di dicembre al Polo.
Quella era solo l’ennesima prova dei Miraggi, uno sfarzoso esercizio di stile per rendere l’Arca impeccabile, quell’eterna giostra di pura estetica che finalmente aveva imparato a riconoscere. La neve, quella vera, l’attendeva nella sua morsa gelata al di là dell’intricato cancello in ferro battuto che delineava la proprietà. Era lì che il Polo rivelava tutta la sua anima crudele ma onesta, al contrario di quello che accadeva  tra le stanze dorate e gli alberi scintillanti di candele e cristalli di quella casa.
A colazione Berenilde aveva schernito il suo disappunto per quella che considerava una truffa, guardandola con un sorrisetto di sufficienza mentre piluccava appena degli acini d’uva, liquidandola con un Sei qui da molto tempo, ormai. Possibile che tu ancora non abbia capito?
Aveva provato a replicare, ma il dolore di un artiglio incandescente nella carne le aveva tolto il fiato e quando finalmente era riuscita a respirare normalmente Berenilde era già andata via, mentre le grandi gocce sull’albero della sala da pranzo tintinnavano come scosse dalla tempesta.
«Non ci faccia caso. La padrona è molto nervosa in questo periodo...» le aveva bisbigliato una delle cameriere in tono appena percettibile, allontanandosi subito dopo in punta di piedi sino quasi a sparire tra i corridoi.
Ofelia era tornata in camera con le parole di Berenilde le risuonavano nella testa.
Apparenza. Ecco quello su cui si basava quell’Arca. Apparenza e nulla più.
Tutto era falso: dai sorrisi senza calore di chi la circondava, al profumo di caramello e arancia che pervadeva l’aria facendo venire l’acquolina e riempiendo il naso e la bocca della confortante dolcezza di un bicchiere di latte caldo in una sera d’inverno. Al di fuori del loro piccolo spazio ristretto, tuttavia, sapeva bene che non c’era nulla di ospitale al Polo: giornate brevi, clima rigido e infiniti boschi di conifere popolati da animali selvaggi.
Era stata una sciocca. Come aveva potuto crederci? Eppure la sua specialità era proprio quella di superare l’immagine di un oggetto banale fino a risalire alla sua vera storia. Fino a capirne l’essenza.
Ed era proprio quello che avrebbe fatto quel pomeriggio, decise risoluta. Berenilde era stata chiamata a Corte, cosa che sembrava aver mitigato almeno un pochino l’umore tetro che l’avvolgeva da giorni. E lei ne avrebbe approfittato per intrufolarsi nell’ufficio di Thorn e leggere l’unico oggetto cui sembrava davvero tenere, oltre i suoi taccuini e i suoi rapporti da Intendente.
C’era stato uno strano scambio di battute qualche giorno prima in merito a quell’orologio ed era proprio quello che l’aveva incuriosita. Berenilde aveva ricordato più volte al nipote che fosse ormai quel periodo in cui l’orologio doveva essere lasciato a riposare per poter funzionare di nuovo un intero anno.
Ofelia era stata sul punto di ribattere sul fatto che fosse una sciocchezza, che aveva letto decine e decine di libri sugli orologi e non aveva mai sentito una storia del genere, ma si era fermata quando aveva notato lo sguardo di Berenilde. Persino la zia Roseline aveva nascosto il suo sbuffo di disappunto dietro la tazza di porcellana rosata. Per la prima volta da quando la conosceva, infatti, l’aveva vista sorridere sul serio: stava genuinamente sorridendo al nipote, accarezzandosi il ventre con fare assente, quasi a voler tenere occupata una mano che altrimenti avrebbe sfiorato quella di Thorn alla sua sinistra con una carezza materna.
E, altrettanto sorprendentemente, anche l’algido Thorn sembrava aver steso le labbra nella miglior esercitazione di sorriso che gli avesse mai visto fare da quando era arrivata.
Aveva pensato di viaggiare tramite lo specchio ma quel malfidato aveva rimosso tutte le superfici riflettenti dal suo studio, pertanto era rimasto solo un modo per compiere la sua missione: sgattaiolare in punta di piedi sino all’ufficio di Thorn e mettere alla prova tutte le tecniche di scasso delle serrature di cui aveva letto nei libri. Nessuno badò a lei, o meglio, nessuno aveva il tempo e la voglia di badare a lei: Berenilde fuori casa significava che i suoi sottoposti potevano finalmente tirare un sospiro di sollievo e rilassarsi per almeno qualche ora prima di riprendere i loro frenetici lavori. Probabilmente in quel momento erano di fronte al grande camino delle cucine a bere vino e a commentare quanto fosse divenuta dispotica la padrona ora che Lui sembrava averla messa da parte. E nel caso ci fosse stato bisogno si poteva sempre contare sulla zia per far impazzire chiunque, servitori compresi.
Arrivata davanti all’imponente porta di mogano la trovò sorprendentemente cedevole sotto il suo tocco. Si era aspettata di doverla forzare e invece quella girò sui cardini senza alcun rumore: la aprì quel poco che bastava per infilarsi dentro, richiudendola con attenzione dietro di sé. Appena entrata un odore pungente le causò un pesante starnuto che riuscì a dissimulare appena accucciandosi dietro la poltrona. Rimase un minuto così, rannicchiata dietro lo schienale di pelle, con le orecchie tese per capire se qualcuno l’avesse sentita.
Quando si arrischiò a muoversi iniziò la sua ricerca dalla grande scrivania, sfiorando con la mano guantata la superficie di legno massello priva di orpelli ma lucida e profumata di cera al gelsomino. Un tocco che non si sarebbe mai aspettata da un uomo che sembrava rifuggire ogni concessione alle comodità. Non le ci volle molto a trovare l’oggetto estraneo a quella pila di rotoli e quaderni scritti in codice: una scatola laccata di rosso scuro, con appena in rilievo delle incisioni molto simili al tatuaggio che aveva intravisto sul braccio di Berenilde.
Ora che era giunto il momento, Ofelia sembrò perdere la cocciuta risolutezza che l'aveva condotta sin lì, chiedendosi se avesse il diritto di invadere i ricordi privati della famiglia che l’ospitava. Quando era diventata Lettrice aveva promesso di  usare le sue abilità solo a servizio della conoscenza… eppure ora si trovava ad un passo da compiere qualcosa che fino a poco tempo prima l’avrebbe fatta inorridire.
Beh, in fondo non poteva certo dire che loro si fossero fatti molti scrupoli nel farla trapiantare al Polo e rinchiudere da Berenilde, come se fosse un pacco qualunque, neanche troppo gradito. Senza contare il modo in cui la padrona di casa aveva deciso di dare dimostrazione dei suoi poteri. Se davvero volevano che quel matrimonio forzato potesse avere la minima chance di funzionare lei doveva capire. Doveva vedere.
Sollevò il coperchio della scatola: l’orologio da taschino di Thorn era li, appoggiato su un cuscino di velluto blu scuro. Si, aveva avuto ragione Berenilde quando aveva utilizzato il termine riposare. Se non l’avesse ritenuto assolutamente privo di logica, avrebbe anche lei detto che l’orologio fosse immerso in un sonno profondo.
Aveva preso la sua decisione… Ofelia si sfilò  lentamente i guanti, cullando l’orologio come avrebbe fatto con un gattino appena nato, mentre l’anima dell’oggetto fluiva attraverso le sue dita nude come una corrente calda che cancellava ogni cosa attorno a lei. Ofelia sospirò di sollievo e timore allo stesso tempo: l’oggetto aveva deciso di accettare la sua lettura.
 




Il silenzio denso della notte prima di Natale trovò Berenilde seduta davanti alla sua toelette da trucco, mente teneva  pensierosa una scatolina tra le mani, riflettendo su quanto la sua vita fosse cambiata.
Era il primo Natale da quando Thorn era entrato nella sua vita, depositato come un pacchetto non richiesto sull’uscio di casa sua. Ricordava ancora il suo sguardo compito, quell’assurda serietà sul viso di quello che era poco più di un bambino, la compostezza del suo corpicino fragile. Troppo fragile per un membro della famiglia dei Draghi. 
All’inizio aveva cercato di ignorare le numerose cicatrici sulla pelle pallida, un crocevia di segni e storie che raccontavano quanto Isabel non lasciasse neanche per un momento che Thorn potesse scordare chi fosse, né che lo dimenticassero Freja e Godefroy. Un bastardo. Figlio di una Storiografa. Qualcuno che non sarebbe mai appartenuto al loro clan. E, peggio ancora, capace di ricordare ogni cosa, ogni dettaglio che non avrebbe mai dovuto vedere.
Thorn non avrebbe mai avuto il loro tatuaggio, ma sarebbe sempre stato considerato un problema. E Padre Vladimir sembrava fin troppo felice di potersene sbarazzare alla prima occasione.
Non poteva combattere contro la sua Famiglia, sarebbe finita fatta a pezzi … ci voleva così poco a simulare un incidente alla Caccia annuale. Ma lei aveva un altro asso da giocare, qualcosa di più subdolo di artigli invisibili che laceravano la carne. Un’arma fatta di pelle d’alabastro e sbattiti di ciglia dorate, chiacchiere leggere e sguardi adoranti, seta contro la pelle e odore di rose. Se c’era una cosa che il passato le aveva insegnato è che la sua felicità, la sua stessa sicurezza ad essere più precisi, potevano essere spazzate via da un giorno all’altro. Era allora che aveva iniziato la sua danza all’interno della Corte di Chiardiluna, tessendo alleanze d’ombra come merletti sulla pelle, sedendosi all’ombra del Sire. Farouk… lui non l’avrebbe mai abbandonata.
Aveva già dato la sua benedizione al fatto che Thorn entrasse nella Scuola di Alta Amministrazione appena raggiunta l’età giusta e lì era certa che sarebbe diventato Intendente al Polo. Un ruolo che gli avrebbe di certo attirato odio, ma a quello era già abituato sin da piccolo. Al centro della vita amministrativa e con un ruolo pubblico, però, sarebbe stato  abbastanza vicino alla Corte da tenerlo al sicuro dai Draghi. Non avrebbe permesso che le portassero via anche lui.
La donna si alzò facendo scivolare la scatola nelle ampie maniche a kimono della vestaglia di seta dipinta a mano, incamminandosi lungo il corridoio decorato con ghirlande di vischio e bacche rosse che collegava le stanze padronali con quelle di Thorn. Rimase un attimo sulla porta, indecisa sul da farsi.
Le era stato sempre insegnato a non mostrare le sue emozioni, a non indulgere in sciocchi sentimentalismi indegni di un membro dei Draghi. Ma quel bambino così compassato e silenzioso le aveva rubato il cuore, o quello che ne era rimasto. 
Aprì piano la porta, sapendo bene che, nonostante l’ora tarda, Thorn non stava dormendo. Era seduto sul letto, il respiro appena più accelerato del solito unico segno stonato in una figura altrimenti immobile. Trasalì vedendo un’ombra entrare nella sua camera, poi, riconoscendola sembrò rilassarsi, riacquistando il suo sguardo impassibile.
«Buonasera,zia. Come mai qui?» chiese compito allisciandosi indietro i capelli biondi insolitamente spettinati, unica traccia della sua agitazione.
Berenilde gli sorrise, sendendosi sul bordo del letto «Sono venuta a vedere come stavi. Di nuovo quegli incubi?»
Il bambino non rispose, limitandosi a borbottare qualcosa sotto voce, le labbra che si muovevano veloci.
1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89… numeri bisbigliati nella notte, i soli che riuscivano a calmarlo. Ormai li aveva imparati anche lei.
«144» continuò lei con un sorriso avvicinandosi un poco sino a mettergli una mano sul polso. Anche sotto il pigiama pesante poteva sentire la cicatrice in rilievo, il souvenir dell’ultima visiva dei fratellastri al Maniero.«E’ corretto, vero?»
Thor annuì,serio.
Berenilde gli passò una mano tra i capelli, un gesto talmente spontaneo che non era riuscita a reprimere.«Sei gelato. Andiamo rimettiti dentro le coperte o ti prenderai un malore. E poi ho una sorpresa per te... Buon Natale, Thorn»
Lo sguardo del bambino si fece improvvisamente attento, una scintilla di infantile curiosità che finalmente accendeva il volto magro ed appuntito.
«Per me?» bisbigliò, quasi avesse paura che qualcuno, persino gli antichi e severi muri della stanza, potesse sentirlo.
Trattenendo un sorriso zia Berenilde tirò fuori una scatolina laccata, grande poco più di un palmo, eppure enorme tra le mani  di quel bambino già adulto.
«Forza, aprila» lo incoraggiò, godendosi l’infantile stupore di Thorn mentre sollevava con estrema delicatezza il coperchio e sfiorava delicato il quadrante, quasi ad accarezzare i numeri. Sollevò con delicatezza l’orologio dalla catenella, lasciandolo sospeso a pochi centimetri dai suoi occhi, la bocca piegata in una muta meraviglia.
«Davvero è per me? Solo per me?» chiese di nuovo, incredulo.
«Si. E’ una cosa preziosa sai? Il tempo, intendo. Sana le ferite, delinea il nostro futuro. Ti piacciono le regole, l’ordine… e cosa c’è di più importante di un orologio che segna ogni ora quella giusta per fare qualcosa?Ma anche lui ha bisogno di riposare, di tanto in tanto. Come te.»
Thor rimase in silenzio, continuando a girarsi il piccolo orologio da taschino tra le mani, soppesandolo insieme ai suoi pensieri.
Con un sospiro si sdraio di nuovo, l’orologio ancora stretto tra le mani.
«Mancano tre ore e cinquantasette minuti alla colazione di Natale, zia. Vorrei proprio dormire un po’», affermò serissimo, tenendo gli occhi ben chiusi.
Questa volta Berenilde non poté fare a meno di scoppiare in una risata sincera, la prima dopo tanto tempo. Rimboccò strette le coperte attorno al corpo esile del nipote, che teneva ancora stretto al petto l’orologio. Si sedette sulla sedia accanto al letto, immobile, osservando quello strano ragazzino che tanto odio e astio le aveva procurato.
«Buonanotte, Thorn.»
Silenzio. Il respiro regolare del bambino che increspava il silenzio della stanza. Allora non stava fingendo, era davvero finalmente scivolato nel sonno.
«Grazie, zia Berenilde» mormorò con la voce impastata «Buon Natale.»
Impossibile dire se stesse ringraziando lei o il primo sogno della notte. 
Con il cuore più leggero, Berenilde si alzò, lasciando dietro di sé solo la scatolina laccata con l’effige dei Draghi.
 

Il tonfo dell’orologio in terra fece trasalire Ofelia, riportandola al presente. Per un attimo restò immobile a fissarlo, le immagini che aveva appena visto che si sovrapponevano: da un lato la Berenilde nevrotica e frivola che conosceva lei, dall’altro quella versione stranamente dolce che aveva solo potuto intravedere di sfuggita. E Thorn… come si era trasformato da quel bambino adorabile nel freddo e anaffettivo Intendente che conosceva lei? Ripensò allo sguardo ferito che aveva intravisto nel racconto dell’orologio e a quello di pura gioia di quando aveva accettato che l’orologio fosse davvero un regalo per lui.
Deglutì a vuoto, rimettendo la scatola e il suo contenuto nel cassetto dove l’aveva trovata. Forse era anche quello opera dei Miraggi ma le era sembrato di aver rivisto gli occhi di Thorn illuminarsi allo stesso modo di recente. Solo per un attimo, un accenno di brillio subito sparito.
E stava guardando lei.
Chiuse in fretta il cassetto e in punta di piedi lasciò la stanza. Aveva sperato di capire di più del suo fidanzato e di sua zia ma ora la sua mente era costellata da dubbi. Cos’erano quelle cicatrici sul corpo di Thorn? E soprattutto….chi era che incuteva un tale timore in Thorn da piccolo?
 




 
Incapace di concentrarsi su altro che non fosse la lettura, Ofelia non aveva fatto caso che il grande dipinto di un orso dietro la scrivania  sembrava seguire ogni sua mossa con lo sguardo. Tre colpi secchi in successione e la parete scivolò leggera di lato, quel tanto da alla figura imponente ma slanciata di uscire dal suo nascondiglio. 
La chiave nella serratura girò più volte rumorosamente, il segnale per tutti di non disturbarlo per alcun motivo. Ora che il mondo era chiuso fuori, Thorn poté finalmente concedersi di ricominciare a respirare, troppo preoccupato fino a quel momento che Ofelia potesse scoprirlo.
Sarebbe stata la fine di ogni possibilità per loro. Eppure quando aveva notato il suo interesse non aveva potuto fare a meno di concederle quella porta aperta sul suo passato. Non troppo, solo uno spiraglio, quel tanto che bastava affinché lei capisse davvero chi fosse. Sentiva che era il momento giusto per farlo.
All’inizio aveva accettato quel fidanzamento come uno dei tanti compiti da svolgere, né più che meno di controllare il controllare che i calcoli quadrassero al centesimo. L’aveva considerata uno dei tanti compromessi che doveva accettare per garantire la sua sopravvivenza. Ma poi l’aveva vista inciampare nella sua stessa sciarpa, starnutire ad ogni alito di vento, perdersi  dietro una storia o un libro. E per la prima volta in vita sua aveva ascoltato qualcunosul serio, non solo per interesse personale ma con genuino interesse.
Ancora non poteva raccontarle tutto ma voleva che lei fosse pronta …Freja e suo marito, padre Vladimir, tutto il clan dei Draghi… avrebbero presto capito quanto lei  fosse importante.
E chissà. Forse un giorno forse qualcuno lo avrebbe davvero amato. Anche solo un po’. E lui si sarebbe sentito di nuovo come la notte di Natale di tanti anni prima.

 

Si, i numeri che ripete Thorn sono la sequenza di Fibonacci.
Anche se non leggerà mai...un grazie speciale a Marta per avermi aiutata a superare un blocco e colmato le mie lacune di memoria e aver tentato di arginare le mie sbrodolature di trama.
Infine,a chiunque abbia avuto la pazienza di arrivare sino a qui ti auguro di passare dei giorni sereni in queste festività e grazie del tempo che hai dedicato alla mia storia. Ps vai a leggere Come Madre e figlio se ancora non l'hai fatto <3
 
 
   
 
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