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Autore: Glenda    25/12/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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*** Ho voluto postare questo capitolo oggi per ritualizzare un po’ il giorno di Natale… pensierino per i miei due lettori! ^_^ Ci vediamo ad anno nuovo! ***

 

La fastidiosa pioggerella era cessata e dalle nubi si era affacciato un piccolo spiraglio di sole.

Lentamente, la piazza si era popolata: all’inizio dell’evento mancava meno di mezz’ora.

Noam non si era quasi mosso dal luogo in cui aveva scambiato le ultime parole con Adrian: guardava le persone accalcarsi alle transenne e riconobbe qualcuno dei ragazzi incontrati durante la notte; riconosceva bene anche quelli che erano lì per fischiare e protestare (sguardi noti, prossemica nota, era stato anche lui uno di loro); poi c’erano i curiosi, quelli che si erano avvicinati perché non sapevano neppure cosa stesse accadendo, e se quel palco fosse stato montato per una celebrzione, uno spettacolo teatrale o un concerto. Noam poteva indovinare i pensieri dietro ciascuno di quei visi, ma non aveva nessuna voglia di inseguirli. La sua mentre era occupata da Adrian, da Màrna, dal desiderio di vederli sbucare tagliando in due il cordone di polizia mentre dicevano niente, tutto bene, falso allarme.

Tutto gli sembrava distante e irreale: lui così piccolo e insignificante, il palco all’improvviso enorme, incombente, e davanti a sé gli abitanti della sua città; alle sue spalle, da qualche parte, stampa e televisione pronti a manipolare quell’evento per conto di questo o di quello, come era sempre stato da quando c’era lui oltre le transenne, con gli striscioni tesi, a fischiare il politicante di turno; tutto intorno, poliziotti in uniformi scure, dietro scudi scuri, con occhi scuri, nero fuori e nero dentro, barricati in se stessi per sentirsi più forti degli altri.

Da qualche parte, altrove, l’unica persona di cui sentiva di potersi fidare.

Come poteva pretendere che Mòrask si fidasse? Come poteva, in quell’atmosfera, aspettarsi dagli altri il salto nel vuoto più grande: la fiducia in lui?

Pensò a suo padre, a che cosa avrebbe detto, che cosa avrebbe fatto nel vederlo lì. Ma era un pensiero stupido: se Fidòr Dolbruk fosse stato vivo, ogni cosa sarebbe andata diversamente, non avrebbe perso Thièl, non avrebbe visto Noravàl, non avrebbe…

Poi all’improvviso qualcuno gridò.

Erano i poliziotti, c’era qualcuno che fischiava, e poi sentì la voce di Adrian: si voltò in quella direzione e lo vide saltare la transenna mentre il cordone cercava di ricomporsi, scompaginato e confuso. Correva verso di lui gridando il suo nome, facendogli segno di muoversi, di andargli incontro, e c’era un’urgenza disperata in ogni suo gesto, in ogni fibra del suo corpo.

Noam fece per muoversi, ma si rese conto di essere completamente pietrificato.

Cos’era quel terrore negli occhi di Adrian?

Perché Lant non era lì?

Era morto?

Cos’era successo?

Si sentì sopraffare dal panico.

Per un lunghissimo momento, vide se stesso correre: sapeva di essere fermo, eppure da qualche parte nella sua mente stava correndo, ed era una corsa senza speranza, e sopra la sua testa non c’era più il cielo piovigginoso di quel mattino, non c’erano la cima del campanile e il piccolo spiraglio di sole, c’era solo il soffitto buio e incombente del traforo del Nòdoask.

Adrian lo afferrò per un braccio, lo strattonò e lo spinse avanti a sé gridando qualcosa.

Poi il mondo esplose alla loro spalle.

 

***

 

Cos’era accaduto, quel giorno?

Credeva di non ricordarlo così bene.

Invece le immagini erano lucide, le sensazioni erano lucide, tutto era perfettamente nitido e chiaro.

L’ingresso della galleria era gremito di gente, e anche allora c’era la polizia a tenerla a distanza, perché non ci si deve accalcare in una galleria, no, è pericoloso (perché voi siete pericolosi, voi darbrandesi incivili e testardi, sempre pronti a ricorrere alla violenza): ma il pericolo era già all’interno, e Fidòr era di certo felice, quella volta, che ci fossero scudi e manganelli tra lui e la sua gente venuta a curiosare, e che vicini a lui ci fossero solo i suoi due bersagli: l’allora sindaco di Mòrask, che aveva permesso e caldeggiato i lavori, e il vice ministro dei trasporti in persona (quale onore per la città!), tronfi e tirati a lucido davanti al nastro rosso da tagliare.

Noam si era fatto strada tra la calca, riconosceva i volti, molti erano lì per protestare, come avrebbe fatto lui se non avesse saputo…

Era arrivato davanti alle transenne correndo, sì, ora se lo ricordava bene, le immagini erano in ordine, definite e lontane.

Le guardava da distanza – da dove? - era come vedere se stesso dall’esterno.

Un poliziotto gli si era parato davanti: lo aveva ignorato, che si levasse di mezzo, lui aveva fretta, suo padre stava per uccidere, suo padre stava per morire, cosa ci faceva quell’imbecille sulla sua strada? Gli aveva dato una spallata per passare, quello aveva reagito, l’aveva colpito… ma Noam conosceva tutti, lì: era ancora il leader di FDL, un leader non ufficiale ma indiscusso, nessuno poteva aggredirlo senza che qualcun altro intervenisse.

E qualcuno intervenne, infatti, non ne vedeva l’ora: in pochi attimi scoppiò la rissa…

Lui aveva continuato a correre, era entrato nella galleria, Fidòr lo aveva visto, aveva gridato con le mani.

Vattene, allontanati, via da qui… Gli stessi gesti disperati di Adrian.

E poi il mondo era esploso alle spalle di Fidòr Dolbruk, e lui aveva fatto in tempo a incrociare i suoi occhi, a vedere le sue labbra muoversi.

A sentire la sua ultima parola.

Noam.

 

***

 

“Signor Dolbruk! Coraggio, venga con me!”

Qualcuno lo stava conducendo da qualche parte, non vedeva niente, un fischio acuto gli trapanava le orecchie, era senza fiato.

Dov’era la mano di Adrian che un attimo prima gli stringeva il polso?

No, il polso glielo aveva lasciato, lo aveva spinto avanti, aveva detto corri, poi c’era stata l’esplosione.

Dov’era Adrian?

Noam gridò il suo nome, una volta, due, tre… ma non riusciva a sentire la sua stessa voce.

Erano le orecchie a non funzionare, o il suono a non uscire?

Sentiva le sirene della polizia, le sirene delle ambulanze, e tutto era ovattato, lontanissimo.

“Si calmi, va tutto bene, è al sicuro!”

Qualcuno lo sosteneva, gli parlava con gentilezza, chi era? Non riconosceva quella voce.

Dov’era Adrian?

Perché nessuno gli rispondeva?

Stava gridando?

Era certo di aver aperto la bocca per farlo, una volta, due, tre… sempre la stessa parola, la sola parola che riusciva a pronunciare.

Adrian.

Adrian.

Adrian.

 

***

 

Quando Noam aprì gli occhi, si trovò a fissare un soffitto azzurrino in una timida luce serale. La prima sensazione che gli venne incontro fu un odore che veniva dal passato e gli fece comprendere dove si trovava. L’ospedale di Mòrask: ci era stato una sola volta, da ragazzo, quando era precipitato da un albero durante le vacanze a casa di Vòrkne; frattura della tibia, aveva dovuto finire sotto i ferri perché l’osso tornasse dritto, e i suoi genitori si erano così arrabbiati che, anziché stargli accanto a consolarlo, lo avevano lasciato da solo per tutti i giorni di degenza.

Il ricordo sfumò in fretta, e il presente tornò ad affacciarsi ai suoi pensieri.

L’esplosione.

Adrian.

Balzò a sedere e la stanza cominciò a girargli intorno: si portò le mani alla testa come se quel gesto potesse fermare il movimento.

“Non così. Piano.”

Alzò lo sguardo lentamente, quasi seguendo quel consiglio, e lo spostò nella direzione della voce. Sulla porta c’era un giovanotto in camice, paffuto e rotondo, con un sorriso simpatico sulle labbra.

“Come sta?”

Noam aveva una sola domanda annodata in gola, ma era troppo stordito per parlare: guardò invece verso la finestra, come per cercare di orientarsi nel tempo. Buio, ma questo non diceva granché in pieno inverno.

L’altro interpretò quello sguardo.

“Ha dormito diverse ore. I soccorritori hanno dovuto somministrarle un farmaco perché lei era in pieno attacco di panico… le è capitato altre volte?”

Noam sollevò le sopracciglia, sempre più smarrito: la situazione gli sembrava onirica. Era appena esplosa una bomba o no? Di cosa stavano parlando?

“No, credo di no… o forse… si, qualcosa, una volta… ma che importa?”

L’uomo lo guardò con dolcezza, prese uno sgabello e si sedette al suo capezzale: un medico, a vedere quello che c’era scritto sulla targhetta cucita sulla tasca del camice. Molto giovane, però. Noam pensò fugacemente a Alma. Un giorno anche lei avrebbe potuto trovarsi in una situazione così, a sorridere ad un paziente confuso che desiderava solo una risposta confortnate alla domanda difficile che non riusciva a formulare.

“Ehi,” lo apostrofò affabilmente “siete tutti vivi, quindi stia tranquillo. Sono qui per occuparmi di lei e darle le rassicurazioni di cui ha bisogno.”

Noam si morse il labbro.

“Adrian… ” mormorò soltanto.

Lo sguardo del medico si fece serio, ma senza essere reticente o allarmante.

“La bomba era posizionata sotto il palco, a quanto attualmente si sa. Dalle deposizioni dei primi testimoni, il signor Vesna ha spinto a terra lei ed ha cercato di farle da scudo. Non ha riportato ferite gravi, ma ha dovuto subire un piccolo intervento. Inoltre, cadendo ha battuto la testa, perciò deve rimanere 24 ore in osservazione per sospetto trauma cranico.” incrociò gli occhi spaventati di Noam e accennò un sorriso “Lei è stato molto fortunato. Fortunato a non essere ancora salito su quel palco, e fortunato che il suo collega l’abbia allontanata in tempo: quei pochi metri hanno fatto la differenza.”

Il medico non lo disse, ma il resoconto parlava chiaro.

Doveva ad Adrian la vita.

“Posso vederlo?”

L’altro annuì.

“Prima le misuro polso e pressione e mi accerto che lei sia in grado di reggersi in piedi. Poi l’accompagno.”

 

***

 

Il ronzio inquietante dei macchinari, il silenzio asettico, le piccole luci al neon erano per Noam repertorio da film: non avrebbe mai immaginato di trovarsi a paragonare quell’immaginario alla realtà e trovarlo, tutto sommato, così poco differente.

Quel luogo, del resto, era più simile ad un set cinematografico che ad un ospedale: l’ala dove erano stati ricoverati entrambi era stata svuotata, c’erano solo il medico col sorriso cordiale e diversi poliziotti in tenuta d’assalto, posizionati all’ingresso e di pattuglia lungo il corridoio.

L’atmosfera era surreale e inquietante, come surreale e inquietante era la consapevolezza di essere appena sopravvissuto ad un attentato, attentato in cui una delle persone che gli erano più care al mondo aveva rischiato la vita al posto suo.

Si avvicinò al letto in cui giaceva Adrian, il dottore gli batté delicatamente una mano sulla spalla e li lasciò soli.

Lui sembrava dormire, aveva il volto pallido ma disteso e un grosso cerotto sul lato destro della fronte. Quando avvertì il movimento della sedia che veniva spostata, aprì gli occhi.

“Ciao, stai bene?” sussurrò con una voce così velata che non sembrava sua.

Noam affondò la testa tra le mani e non riuscì a rispondere.

Avrebbe potuto essere morto. Avrebbero potuto essere morti entrambi.

“Noam…?”

“Mi dispiace…”

“Ti dispiace? Per una volta che la cazzata non l’hai fatta tu?”

Nonostante quel tono debolissimo, c’era un sorriso nascosto tra le sue parole, ma Noam si sentiva soffocare. Avrebbe voluto piangere. Tremare. Urlare. Invece rimaneva paralizzato.

“Ehi, che hai? Ci è andata di lusso, siamo vivi e nessuno si è fatto male.”

“Tu, tu ti sei fatto male!”

“Un paio di punti qua e là non è farsi male. Contano più o meno come una sassata in fronte, e a Mòrask le sassate si danno via come i confetti.

“Trauma cranico. Intervento. Sei bianco come uno straccio…”

“Noam.”

“… preferivo toccasse a me.”

“Lo so. E io no. Non puoi essere sempre tu quello che si butta tra le fiamme e lascia gli altri a guardare.”

Lasciare gli altri a guardare.

Lasciare gli altri con quella domanda difficile annodata in gola.

“Sono felice di essere riuscito a proteggerti,” proseguì Adrian, e la sua voce era dolce e placida “perché un mondo dove tu ci sei è molto migliore di un mondo in cui non ci sei. È il mio modo di chiedere perdono.”

“Chiedere… perdono, Adrian?”

“Esatto. Chiedere perdono.”

 

  
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