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Autore: HuGmyShadoW    30/12/2022    0 recensioni
Non è patetico che a ventisette anni suonati e oltre dieci di successi mondiali alle spalle mi ritrovi solo, depresso e strafatto in uno squallido club tedesco? La risposta ovviamente è sì. E ora sono doppiamente depresso.
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Mentre porto il bicchiere alle labbra, avverto un curioso mix di sensazioni attanagliarmi lo stomaco in una morsa che sembra panico e, contemporaneamente, percepisco la morsa ghiacciata di due occhi puntati sulla mia nuca.
Mi giro, vagamente infastidito, e la vedo.
Una ragazza ha occupato il posto accanto al mio. Non me ne ero neanche accorto.
Avevo ragione però: mi sta fissando. I suoi occhi sono… be’, in realtà tutta la sua forma è indefinibile.
Sembra fatta di luci. E mi sorride.
Genere: Angst, Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Bill Kaulitz
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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BOY DON’T CRY


Il locale è piccolo, affollato, rumoroso, accecante di luci e di nebbia artificiale. Ai miei sensi anestetizzati sembra tutto ciò di cui potrei avere bisogno stasera.

Appoggiato al bancone del bar, osservo con pigra mestizia lo tsunami di corpi che si incastrano uno con l’altro, come una sorta di ingranaggi sballati fatti di braccia, capelli e sudore. Ballano al ritmo di bassi che tolgono il fiato e di stridori incomprensibili ed io, nella mia elevata bolla di niente, sono lieto di distanziarmene. Mi sembrano tutti così lontani…

Non dovrei essere qui questa notte. Una piccola parte di me, assurdamente lucida nonostante il cocktail di sostanze proibite che ho assunto con ineccepibile metodo nelle ultime due ore, mi sussurra che forse sarebbe più prudente tornare a casa, lavare via il tutto con una doccia e una dormita. Mi ritrovo a concordare. Ma un’altra parte di me, molto più bisognosa e disperata, mi richiede la vicinanza con altri, chiunque, affamata di un’umanità abbastanza avvolgente da scacciare quell’unica emozione in grado di trapelare oltre il muro di apatica nebbia.

Solitudine.

Già. Bill Kaulitz stasera si sente solo.

Sospiro fra me, lasciando che la testa troppo leggera si adagi sulle mie mani tremanti. Uno degli effetti collaterali, perfettamente trascurabile anche se un po’ fastidioso.

È una delle rare volte che siamo a Berlino, a casa, e la prima cosa che mi sono affrettato a fare è stato ricontattare Andreas per un po’ di stupefacenti. Sono un vero imbecille.

Magari è stata la nostalgia, o l’insidiosa realizzazione di non sentirmi veramente al mio posto nemmeno nella terra che mi ha cresciuto, ma nonostante fossi a casa – nella mia vera casa – circondato da amici e famiglia, ho sentito l’impellente bisogno di scappare nel primo club che avessi trovato sul mio cammino; e, cosa ancora peggiore, di seguirlo, quell’istinto, nell’esatto istante in cui si è presentato.

Scuoto la testa e mi sfrego gli occhi coi palmi, avvertendo il sollievo del buio premere contro le palpebre. Ormai sono qui, non ha senso farsi venire i sensi di colpa. Non che li percepirei nel mio stato attuale, comunque.

Un altro sospiro mi fuoriesce dalle labbra, inudibile e ignorato, mentre mi giro verso il bancone.

“Un gin tonic”, borbotto a occhi bassi, sperando di non dover alzare la voce per ripetermi.

Miracolosamente, la mia richiesta viene esaudita, e prima che abbia finito di contare le macchie di alcol sul piano in legno scheggiato, due barman mi servono due bicchieri pieni.

No. Batto velocemente le ciglia. No, sono io che ci vedo doppio. Scuoto ancora la testa per scacciare la sensazione di capogiro e un po’ a tentoni afferro il bicchiere (uno) davanti a me.

Il tintinnio del ghiaccio contro il vetro e la sua consistenza liscia e fredda sembrano risvegliarmi un po’ dal torpore. Purtroppo, insieme alla ritrovata lucidità, si accresce anche la mia solitudine. Non è patetico che a ventisette anni suonati e oltre dieci di successi mondiali alle spalle mi ritrovi solo, depresso e strafatto in uno squallido club tedesco? La risposta ovviamente è sì. E ora sono doppiamente depresso.

L’ennesimo sospiro lascia la mia gola annodata, svuotandomi delle ultime forze che ancora sostenevano questo guscio quasi vuoto che stasera non ho il diritto di chiamare corpo.

Patetico. Vorrei solo sparire.

Mentre porto il bicchiere alle labbra, avverto un curioso mix di sensazioni attanagliarmi lo stomaco in una morsa che sembra panico e, contemporaneamente, percepisco la morsa ghiacciata di due occhi puntati sulla mia nuca.

Mi giro, vagamente infastidito, e la vedo.

Una ragazza ha occupato il posto accanto al mio. Non me ne ero neanche accorto.

Avevo ragione però: mi sta fissando. I suoi occhi sono… be’, in realtà tutta la sua forma è indefinibile. Sembra fatta di luci. E mi sorride.

Aspetta, è impossibile che sia fatta di luci, giusto? Batto le palpebre ma lei è ancora lì, eterea e bellissima. Sicuramente sono i faretti del locale miscelati alle droghe a giocarmi qualche scherzo alla vista.

Mi scopro a sorriderle di rimando, forse perché vedere la curva morbida delle sue labbra che si rivolgono proprio a me mi sta infondendo dentro un calore nuovo dove prima c’era solo vuoto.

“Sei solo?”, mi chiede. Come mi aspettavo, anche la sua voce è una combinazione perfetta di inflessioni melodiose e tono ipnotico.

Scrollo mollemente le spalle. “Stasera sì. E tu?”

Il suo sorriso si allarga a scoprirle i denti bianchi e perfetti. Non risponde.

Poi torna seria. “Stai piangendo?”

“No”, rispondo, stupito. Forse mi ha visto mentre mi sfregavo gli occhi, anche se mi pare evidente l’assenza di lacrime sulle mie guance.

“Non piangere, ragazzo solitario”, riprende, mettendo un piccolo broncio preoccupato. “È una notte così meravigliosa”.

“Non sto piangendo”, sbotto, voltandomi dall’altra parte. Sono infastidito, ma anche stranamente a mio agio. Avverto questa sconosciuta inspiegabilmente familiare e la sua voce sembra guidarmi, ancora non so dove. È come se già mi conoscesse… cosa non impossibile, vista la mia maledetta fama mondiale, ma c’è dell’altro. Una sconosciuta non dovrebbe sapermi leggere dentro, né percepire le lacrime nascoste nel mio animo.

“Ci conosciamo?”, le chiedo infine, titubante.

Ancora una volta non risponde.

“Ti va di ballare?”, mi chiede, invece.

Esito. Il bicchiere pieno, sfocato nella mano tremante, mi invita a rimanermene ancorato al mio posto. Non mi fido delle mie doti da ballerino da strafatto, e men che meno da sobrio.

“Avanti, solo una canzone”, incita ancora la ragazza, alzandosi. “Senti quanto è bella questa”.

E devo ammettere che, sì, il dj ha finalmente recuperato un pezzo accettabile nel marasma di suoni inarticolati che mi ha massacrato le orecchie finora. Mi trovo trascinato nel ritmo e nella melodia crescente, mio malgrado, tanto che inizio a muovere un piede e poi l’altro.

È tutto ciò che serve alla sconosciuta di fronte a me per ridere di una risata inafferrabile, prendermi per mano e trascinarmi nella folla brulicante.

Schiacciato e spinto da tutte le parti, frustato da capelli e odore di sudore, ballo con questa ragazza senza nome che sembra ancora fatta di luci nell’abbraccio buio dei corpi che si muovono insieme. Ballo per quello che sembra un unico momento che si adatta ad un tempo interminabile, perso nel susseguirsi magistrale delle canzoni migliori che abbia mai sentito, e stavolta non mi respingono in un angolo della mia mente, bensì mi riempiono di calore e colori.

Ogni tanto sorrido alla ragazza e lei mi sorride di rimando, scuote la chioma cangiante, mi sfiora appena con le dita di riflessi. Balla come se fosse più naturale del respiro, eppure nonostante la mia goffaggine, siamo perfettamente sincronizzati, con i suoi passi precisi che si adattano ed accompagnano i miei.

Durante un lento, mi si avvicina e infila le mani nelle mie tasche per dondolare insieme, come due ragazzini alle prime armi. Io, invece, non ho il coraggio di toccarla o parlarle; è un momento così perfetto com’è che non mi serve sentirne la consistenza, mi basta viverlo.  Viverlo fino in fondo. E mi riscopro stupidamente felice.



Improvvisamente come era iniziata, la serata finisce. Le luci si riaccendono prepotenti, accecandomi, e mi ritrovo sbattuto contro la solida realtà della grigia Berlino. Strizzo gli occhi ai freddi fari a led sul soffitto che rischiarano a giorno il locale affollato ed immerso in un cicalio stanco, cercando di riabituarmi.

Quando abbasso lo sguardo, cerco la mia compagna di ballo, ma di lei non c’è traccia.

Un pungente senso di allarme e confusione mi pervade. Guardo in tutte le direzioni, allungo il collo sopra alla gente che si sposta all’uscita, inutilmente. Possibile che se ne sia andata così in fretta?

“Scusa”, dico fermando un ragazzo in jeans e maglietta fradicia, “hai visto la ragazza che stava con me?”

“Non saprei, com’è fatta?”, indaga gentilmente.

“Lei è… è…”.

Ammutolisco. Mi scopro a non saperla descrivere. Di che colore aveva i capelli? E gli occhi? Era alta o bassa? Com’era vestita? Non so dirlo. Perché non so dirlo?

Il ragazzo mi regala un sorriso di comprensione e scuotendo la testa mi lascia al mio sconcerto. Rimango impalato a cercare di ricordare qualcosa, un particolare, qualunque cosa, ma posso solo farmi risuonare in testa la melodia su cui abbiamo danzato, ancora e ancora.

Finalmente, mi scuoto abbastanza dalla mia apatia per seguire il flusso e uscire dal locale.

È mattina. L’alba appena sbocciata fa capolino con raggi di colori mozzafiato dall’oro al rosa dietro i palazzi scuri che circondano il locale. Respiro a fondo l’aria frizzante, cercando di schiarirmi le idee. 

Sono sicuro di aver ballato con qualcuno, lo so… lo so? E se…

Sovrappensiero, prendo il cellulare e subito mi aggrondo nello scorrere l’elenco quasi infinito di chiamate perse. Un brivido freddo e la paranoia di una qualche tragedia di cui sono all’oscuro mi artigliano lo stomaco mentre mi affretto a premere il tasto richiama.

“Bill?”

Risponde sempre al primo squillo. Non so come faccia.

“Tom? È successo qualcosa?”, chiedo, controllando a stento il panico.

“Stai bene? Non hai bevuto, vero? Dimmi che non hai bevuto!”

La sua concitazione mi sorprende. Che diavolo c’entra questo?

“Non mi dirai che mi ha cercato venticinque volte di seguito per sapere se mi sono ubriacato”, domando, perplesso.

“Certo che era per quello, idiota! Hai assunto quasi una farmacia intera con Andreas e poi te ne sei scappato via a locali, da solo! Hai idea di cosa sarebbe potuto succedere se avessi ingerito anche solo un po’ di alcol? Saresti potuto morire, deficiente!”

Boccheggio, senza fiato. Oddio. È vero. Ora mi ricordo.

Tom mi aveva inseguito fino alla macchina gridando qualcosa e io, in palla com’ero, non gli avevo dato retta.

Ripenso con un brivido al bicchiere colmo e pesante nella mia mano… non l’ho bevuto, vero?

Mi sforzo di ricordare per interminabili istanti di terrore e alla fine il sollievo mi invade.

No. Sono rimasto sobrio. Stavo per bere, ne avevo la più ferma intenzione, quando…

Quando quella ragazza mi ha fermato. Stavo per morire, e lei mi ha invitato a ballare. Mi ha salvato la vita.

Torno ad ascoltare la tirata di mio fratello, su come mi abbia cercato ovunque e fosse stato sul punto di allertare la polizia, ma mi trovo ad interromperlo subito.

“Tom, sto bene, non ho bevuto nulla e fra dieci minuti sarò a casa. Se mi aspetti poi ti racconto tutto, okay?”.

Chiudo la chiamata e senza soffermarmi a rifletterci troppo, mi avvio verso la macchina, sforzando ancora la memoria. Chi era quella ragazza?

Ricordo… ricordo solo che era come fatta di luci. Evanescente e mutabile, eppure una presenza così rassicurante, confortante come la strada del ritorno a casa.


Arrivo non so come alla mia auto, la apro e mi butto stancamente al posto del guidatore.

Le orecchie ancora mi ronzano per il volume assordante della discoteca, ma c’è troppo silenzio attorno a me, nella città ancora assopita.
Accendo la radio e lascio che la canzone di un’artista sconosciuto invada l’abitacolo. All’istante, il mio corpo si rilassa contro il sedile.
Sento che sto smaltendo gli ultimi effetti, eppure non sto male, anzi.

Cullato dalla melodia, mi ritrovo quasi in pace con me stesso. E finalmente realizzo che, al contrario di quanto mi hanno sempre lasciato pensare, è questo tutto ciò di cui ho davvero bisogno.

“Hai capito adesso?”

Apro gli occhi, sereno, e guardo la ragazza di luci accanto a me. Al chiarore caldo del mattino, i suoi toni ricordano quelli dell’alba che si alza oltre il finestrino dietro di lei.

Sorrido. “Grazie. Per tutto”.

Lei piega leggermente la testa e mi sfiora una mano. Non avverto il suo tocco, ma lo percepisco nel cuore.

“Io ci sarò sempre, ovunque, nell’aria”, sussurra a ritmo della canzone.

“Sì”, asserisco, chiudendo gli occhi. Sono così stanco. Mi appoggio all’indietro, lasciandomi pervadere dal giro di basso e chitarra e da quella voce così melodiosa da non sembrare nemmeno umana.

“Prenditi cura di te, ragazzo solitario. Sarò con te per salvarti ancora, fino alla fine”, sono le ultime parole che le sento pronunciare.

La canzone finisce. Apro gli occhi e guardo accanto a me. Lei è sparita, di nuovo.

Ma stavolta, so dove trovarla. So che anche una volta a casa, lei sarà con me. E so che non mi lascerà.

Perché la musica non ti lascia mai da solo.

La musica ti salva.  

Fino alla fine.


 

Note: one shot ispirata all'omonima canzone, terminata ormai nel lontano Aprile 2017, che mi ritrovo a pubblicare solo ora per un ritrovato slancio di passione per i "vecchi" Tokio Hotel. Magari è la volta buona che torno a scribacchiare qualcos'altro, chissà!
Hope you enjoyed e buon 2023. <3
 
   
 
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