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Autore: Roberto Turati    30/12/2022    0 recensioni
Una storia che dedico a Maya Patch, mia amica e mentore.
 
Per capire del tutto questa storia del mio AU, è meglio se leggete la storia di Maya, prima di questa.
Mentre la tribù dei Difensori si sta ancora riprendendo dall'assedio dei Teschi Rossi, Aurora attende con impazienza il ritorno di Lex da Ragnarok per poter continuare ad indagare con lui sugli indizi sparsi per l'Isola. Tuttavia, fa una scoperta inaspettata: rinviene un antico oggetto portato nel mondo delle Arche da un'altra dimensione. Studiandolo, scopre il luogo d'origine del suo defunto proprietario: ARK, l'isola preistorica.
 
Aurora e Lex vi si perderanno loro malgrado. Saranno in grado di trovare un modo per ritornare sulle Arche, nonostante tutti gli ostacoli che ARK riserva per loro?
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
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Aurora sentì delle grida in lontananza. Le sembravano molto distanti, ma nell’oscurità non riusciva a capirlo. A dirla tutta, non riusciva nemmeno a comprendere se fosse sveglia o se stesse sognando. Ci fu un breve silenzio e la ragazza si sentì scivolare di nuovo nel sonno. Poi, però, udì un grido ancora più forte e, stavolta, era molto vicino. La voce straziata le fece venire la pelle d’oca e Aurora spalancò gli occhi di colpo, piena di angoscia. La prima cosa che vide fu pietra; un mare grigio, duro e gelido in cui si sentiva galleggiare. Ebbe l’istinto di nuotare ma, appena mosse gli arti, si graffiò i gomiti e le ginocchia contro la superficie ruvida. La rossa alzò la testa con fatica e capì di essere sdraiata sulla roccia. Era ancora buio e Aurora dové stringere gli occhi per mettere a fuoco le immagini. Quando la sua vista si abituò all’ambiente poco illuminato, distinse delle sbarre di legno tutt’intorno a lei.

“Una gabbia?” pensò, stupita.

La sorpresa le diede l’impulso di mettersi seduta. Quando si sollevò, si ritrovò a guardare un muro di roccia frastagliata e umida. Non c’erano né muschio né funghi sulla parete: era un luogo spoglio e privo di vita. Il suo disagio cresceva ogni secondo di più. Si rese conto allora che lì si gelava: non ricordava di aver mai avuto così tanto freddo. Si raggomitolò e si strinse le ginocchia contro il petto, in preda al tremore. All’inizio si sentì del tutto disorientata e non capiva come fosse arrivata lì. Ma le bastò sforzarsi di ripercorrere la sua giornata per ricordare tutto: la carovana, il guado, l’imboscata; la botta in testa. Appena ci ripensò, avvertì una fitta pulsante sulla nuca e si portò la mano sul punto dolente. Tastò del tessuto ruvido e il dolore aumentò all’improvviso; immaginò che l’avessero fasciata. All’improvviso, sentì una voce bianca dietro di sé:

«Non c’è due senza tre!»

Confusa, Aurora si rigirò sul sedere e si voltò dall’altra parte. Quando vide cosa stava succedendo, sussultò per la paura: Lex era proprio lì, davanti alla gabbia in cui era rinchiusa, seduto a ridosso della parete opposta con mani e piedi legati. Accanto a lui, una bambina gli stava strattonando un dente con una pinza; grugniva e tremava per lo sforzo di tirare. Lex emetteva gemiti insensati e gridava; aveva la bocca e il mento sporchi di sangue. Alla fine, la bambina gli strappò un molare e rischiò di perdere l’equilibrio nel farlo. Lex emise lo stesso urlo che aveva scosso Aurora dal sonno, cosa che fece rabbrividire la rossa più di quanto non stesse facendo già per il freddo. La bambina si rigirò il dente fra le dita e lo contemplò come un trofeo, con un sorriso beffardo:

«Un altro braccialetto per me! Ehi, guarda che belli: non c’è neanche una carie! Ma perché quei babbei non possono rapire stranieri puliti come te più spesso? Butto sempre metà dei denti perché sono tutti marci»

Lex rantolò e sputò sangue accantò a sé. Si leccò le labbra e ansimò, per poi sollevare lo sguardo e fissare la bimba con uno sguardo perplesso. La sua piccola aguzzina era distratta a giocherellare coi tre molari che gli aveva strappato, quindi il biondo si guardò in giro. Quando il suo sguardo incrociò quello di Aurora, tirò un sospiro di sollievo e le annuì, come per rassicurarla che stava bene. O meglio, la rossa sperava che intendesse quello e che fosse proprio così. Aurora gattonò fino alle sbarre di legno e cercò di dare un’occhiata in giro: era chiaro che si trovavano in una caverna. Una spelonca larga, ma bassa e poco estesa. L’uscita era ad appena una decina di metri e il fondo era ancora più vicino.

La grotta era piena di sacchi e tavoli con attrezzi da lavoro e strumenti affilati, incrostati di sangue rappreso e schegge di legno. Ma la cosa che saltava all’occhio era un gruppo di altre gabbie identiche alla sua; alcune erano vuote, altre erano occupate da persone impaurite o dallo sguardo pieno di odio. Aurora avrebbe voluto richiamare la loro attenzione, ma non aveva il coraggio di attirare quella della piccola torturatrice, dunque si limitò a osservarli uno a uno. Notò subito un dettaglio che accomunava tutti: nessuno degli ostaggi era arkiano. C’erano varie etnie di qualunque età, ma erano tutti gente da altre parti del mondo. Nessuno badava a lei: gli sguardi di tutti erano puntati sull’aguzzina.

“Un momento, ma è una bambina!” pensò Aurora di colpo.

Come aveva potuto sembrarle normale, all’inizio? Non si era resa conto che la pazza che aveva appena cavato i denti a Lex con una pinza non poteva avere più di undici anni. La paura e l’angoscia la pervasero: che razza di marmaglia era quella? Se una bambina frequentava i quattro assalitori che li avevano catturati, com’erano tutti gli altri? Anzi, quanti ce n’erano, in totale? Tutte quelle domande non fecero che accrescere il suo panico e il cuore iniziò a martellarle nel petto.

«E quattro!»

Di nuovo, la bambina afferrò un molare di Lex, tirò con la pinza, lo fece urlare di dolore e strappò il dente. Il biondo sputò altro sangue, ma poi ridacchiò. L’aguzzina corrugò la fronte e lo fulminò con lo sguardo:

«Non dirmi che ti piace, perché se è così mi fai davvero pena»

Lex le rivolse uno sguardo divertito e mormorò:

«Mi hai tolto i denti del giudizio»

«Sì, e allora?»

«Be’, grazie: era da anni che mi davano fastidio. Comunque, sei una pessima dentista»

La torturatrice trasalì, diventò rossa dalla rabbia e alzò la pinza, pronta a colpirlo in testa. Aurora stava per gridarle di fermarsi, quando nella caverna fecero eco dei passi e la piccola si bloccò. Tutti i prigionieri volsero gli sguardi all’uscita della grotta, sgomenti. Preoccupata, Aurora guardò a sinistra e vide che stavano arrivando tre uomini. Nessuno di loro era uno degli assalitori della carovana. L’uomo a sinistra era basso e tarchiato, di mezza età, una cicatrice gli spaccava il sopracciglio destro e aveva il naso rotto. L’uomo a destra era giovane, forse un coetaneo di Lex; era magro, aveva i capelli arruffati e occhiaie gonfie.

L’individuo al centro era il più minaccioso, ma al contempo dava ad Aurora un senso di regalità, in un certo senso. Indossava un sontuoso mantello in pelle di rettile e vestiti con ricami variopinti. Aveva un aspetto affascinante: alto e in forma, con una barba curata, i capelli rasati sulle tempie che scendevano fino al collo sulla nuca. Tuttavia, la sua espressione la metteva a disagio: quello sguardo era colmo di disprezzo, quasi disgusto. Il trio si fermò tra Lex e la gabbia di Aurora. La bambina buttò la pinza sul tavolo e nascose le mani coi denti dietro la schiena. L’uomo a destra sospirò a occhi chiusi, si pizzicò il naso e la prese in disparte. Aurora li sentì discutere a bassa voce, ma poco importava. L’uomo col mantello guardò prima Lex, poi lei, quindi si rivolse al compare:

«Sono questi due?»

L’uomo basso annuì.

«Sei sicuro di quello che dice Oirebit?»

«Ho controllato di persona: i loro polsi non mentono»

«Voglio proprio vedere. Inizia a radunare gli ostaggi nella fossa»

Dal tono e dal portamento, Aurora dedusse che l’uomo col mantello dovesse essere il capo di quella marmaglia. L’altro sconosciuto rispose con un cenno del capo e iniziò ad aprire le gabbie e fare avanti e indietro per la grotta per scortare fuori gli altri prigionieri, che si lasciavano accompagnare con lo sguardo chino. Intanto, per timore, Aurora strisciò indietro fino alla parete della gabbia e si raggomitolò. Osservò il capo accucciarsi davanti a Lex e chiedergli:

«Mi dicono che tu e la tua amica avete degli innesti, come quelli di tutti noi Arkiani»

Tacque per qualche istante, per poi voltarsi e chiedere ad Aurora:

«È vero o no? Fammi vedere»

Senza fiatare, Aurora si sbrigò a tendere il braccio e mettere in mostra il polso sinistro. Il piccolo rombo azzurro al centro dell’innesto emanava un lieve riflesso nell’oscurità; l’Arkiano lo contemplò per un lungo attimo, quindi scosse la testa e fece un’espressione oltraggiata:

«Cos’è questo affronto? Che razza di insulto alla mia gente è mai questo, eh? Ora siete così arroganti da voler copiare quello che rende unici i figli di ARK? Cercate di mescolarvi con noi, come se ci somigliaste! Volete far credere alle tribù di essere loro amici, così prenderete il sopravvento non appena abbasseranno la guardia!»

Più parlava, più alzava la voce e il suo tono si scaldava. Si rialzò in piedi coi pugni stretti e si girava di continuo tra i due sopravvissuti, sempre più adirato:

«È a questo che siamo arrivati?! Non c’è limite alla vostra superbia! Per la dea, forse il tempo sta davvero per scadere! E io che pensavo che i fratelli Braddock fossero il punto di svolta!»

Lex reclinò il capo e lo interruppe:

«I fratelli Braddock; siete voi che rubate il loro petrolio. Perché lo fate?»

Lo sconosciuto lo fulminò con lo sguardo:

«Ciò che stiamo preparando salverà l’isola e i suoi abitanti, come lo faremo non è affar vostro. Piuttosto, dove avete preso quegli innesti? A chi li avete strappati? Avete ucciso due Arkiani e vi siete cuciti i loro innesti nella carne, non è così?!»

«No»

«Bugiardo! In che altro modo potreste averli presi, eh? Solo i figli di ARK nascono con l’innesto! È questo che ci distingue da voi!»

«Evita di chiedercelo: non crederai mai alla verità»

Lo sconosciuto si passò la mano tra i capelli e fece una risatina beffarda:

«Capisco: cerchi di incuriosirmi, solo per il gusto di raccontarmi qualche idiozia. Non te lo concedo»

Detto questo, sputò in faccia a Lex. Il biondo chiuse gli occhi e arricciò il naso, disgustato. L’uomo basso tornò in quel momento e disse al capo che mancavano solo quei due. Quest’ultimo annuì:

«Bene, porta anche loro a lavorare»

L’uomo basso afferrò Lex per un braccio e lo aiutò ad alzarsi. Fatto ciò, lo accompagnò fuori dalla caverna a spintoni. Nel frattempo, il capo rimaneva in silenzio e fissava Aurora; la rossa era impietrita e non riusciva a distogliere lo sguardo da lui, nonostante il disagio di cui la colmava quell’espressione sprezzante. Alla fine, fu il suo turno: arrivò l’altro uomo e aprì la porta della gabbia. Le fece cenno di uscire. Aurora obbedì in silenzio e, per quanto fosse curiosa di saperlo, non osò chiedere cosa fosse la fossa di cui parlavano: tanto l’avrebbe scoperto di lì a poco, meglio evitare di provocarli.

«Fermo lì!»

La voce della bambina risuonò per la grotta e tutti e tre si voltarono, perplessi. L’aguzzina li fissava coi pugni sui fianchi e un’espressione indispettita:

«Dove pensi di andare con la rossa, Oilum?»

L’uomo basso allargò le braccia:

«Secondo te?»

«Mi avete promesso di lasciarmi qualcuno per provare i miei nuovi giocattoli!»

Aurora trasalì e sudò freddo: se quella marmocchia si divertiva a strappare denti con la pinza, cosa avrebbero mai potuto essere i suoi “giocattoli”? Suo malgrado, si ritrovò a sperare di essere ancora destinata alla fossa. Almeno sarebbe stata vicina a Lex. Il giovane smilzo si parò davanti alla ragazzina, a braccia conserte e con un’espressione seccata:

«Aramat, ti sembra questo il modo di parlare in presenza del capo?»

Lei alzò gli occhi al cielo e sbuffò:

«Datti una calmata, padre! Le promesse si mantengono! Me lo ripeti sempre fino alla nausea, ma quando sono gli altri a farle a me possono fare finta di niente?»

«Non va bene che ti promettano di lasciarti fare del male alle persone! Anzi, non va bene per niente che tu lo voglia fare! Enab, diglielo anche tu! Siamo sempre stati d’accordo che mia figlia si prenda cura dei prigionieri, non che li faccia a pezzi!»

Il capo si mise le mani dietro la schiena e annuì, comprensivo:

«Capisco la tua preoccupazione, Onaizit. Ma mi sembra infondata: prima eravamo in guerra, adesso stiamo punendo gli stranieri. Tua figlia ha compreso che per sanare ARK ci vuole durezza»

Il ragazzo sbarrò gli occhi:

«Ma capo, così non mi aiuti a educarla: non sono certo cose che…»

Aramat lo interruppe e gli puntò il dito contro:

«Zitto, tu! Il capo ha parlato, la rossa è mia»

Enab si avvolse nel mantello e sentenziò:

«Così sia. Vado a fare un bel discorso ai nostri nuovi lavoratori»

Il capo e Oilum si allontanarono. Onaizit fece per dire qualcosa, ma tacque e sospirò. Aurora era terrorizzata: la bambina iniziò a ridacchiare e squadrarla dalla testa ai piedi e la rossa suppose che stesse immaginando tutte le atroci torture che avrebbe potuto infliggerle. Aramat si diresse ai tavoli da lavoro e iniziò a rovistare in mezzo agli attrezzi, mentre suo padre la osservava con uno sguardo rassegnato e deluso. Poi si voltò verso Aurora e la sopravvissuta ebbe la sensazione che avesse pietà di lei. Così, disposta a tutto per salvarsi, gli rivolse uno sguardo supplichevole e gli chiese di fare qualcosa col labiale. Onaizit sembrò indeciso per qualche istante, ma poi si schiarì la voce e chiamò la bambina:

«Aramat?»

«Che vuoi, padre?»

«Non ti stai dimenticando qualcosa?»

«No. Tutti i pezzi del rivolta-organi sono al loro posto, li ho controllati prima»

«Allora te lo ricordo io: hai cambiato la paglia e le torce nell’incubatrice?»

La piccola Aramat sobbalzò e le cadde il coltello di pietra che aveva appena raccolto. Si voltò piano piano, con uno sguardo mortificato, e fece un sorrisetto complice:

«Chi lo sa? Quassù la paglia fresca e quella marcia sono identiche, con questa nebbia e questo freddo!»

«Allora ti converrà dare un’occhiata, così ti passa il dubbio. Non vuoi che il tesoro del capo vada in malora, o sbaglio?»

«Certo che no!»

«Brava. Ora vado a sistemare il deposito; mi raccomando, quando torno voglio che tu abbia già finito»

Le fece segno che la teneva d’occhio e uscì dalla grotta. Ci fu un lungo silenzio carico di tensione, in cui Aurora e Aramat si fissarono con le labbra serrate. Alla fine la bambina sbuffò e ammise:

«L’ultima cosa che volevo fare oggi era cambiare la paglia a quello stupido uovo»

Quelle parole fecero vedere un barlume di speranza ad Aurora, che si affrettò a usare l’argomento a suo favore:

«Un uovo? Avete delle uova da incubare?»

«No, solo uno: è di Anitteb, la distruttrice del capo. Per lui è proprio una fissa, sai? Come se fosse suo figlio o qualcosa del genere»

«Oh, non mi dire! Da dove veniamo io e il mio amico, faccio la stalliera. La mia specialità sono i cuccioli. Che ne dici se mi prendo cura io del vostro uovo?»

La piccola Aramat reclinò il capo, con aria diffidente:

«Lo faresti?»

«Certo! Adoro i piccoli. Pensa che mi prendo sempre più turni che posso per passare del tempo con loro! Che ne dici? Io faccio questo lavoro al tuo posto e tu non mi torturi: ti servo tutta intera, per badare all’uovo»

La bambina si strofinò il mento; sembrava tentata. Alla fine, fece un sorriso soddisfatto e annuì:

«Ci sto! Anzi, se sei davvero così brava, lo dirò al capo e gli chiederò di nominarti stalliera»

Aurora fece la falsa modesta:

«Addirittura? Non devi»

«Figurati: tanto il capo mi accontenta sempre. Forza, seguimi»

Aurora seguì la bambina fuori dalla grotta. Una volta che furono fuori, fu travolta da un vento gelido e rabbrividì. Il terreno era innevato e non si vedeva a un palmo dal naso: c’era una nebbia fittissima che copriva tutto. Si intravedevano solo sagome di grossi pini e luci offuscate di fiaccole. Nell’aria vibrava uno strano ronzio, come se l’atmosfera fosse carica di elettricità.

«Benvenuta sull’Isola Arcana, rossa! Fa freschino, eh?» ridacchiò Aramat.

«Eh, sì!»

«Sbrighiamoci, allora: la distruttrice attende»

Lex approfittò della breve camminata per guardarsi intorno e studiare la situazione il più possibile. Non era certo facile, con quella foschia, il freddo che gli penetrava nelle ossa, la fretta impostagli dal suo carceriere e la preoccupazione per Aurora che lo distraeva. Se non altro, era un ambiente a lui familiare: conosceva quella montagna avvolta da nebbia e fulmini, ci era stato nelle sue visite all’Arca delle Isole dei Cristalli. Per un attimo, si chiese se anche quella versione fosse infestata da scheletri non morti delle bestie arkiane. Ma di quello si sarebbe preoccupato dopo: ora doveva pensare a esaminare la base dei nuovi nemici. Dedusse che, per volersi nascondere così bene, la banda di Enab doveva avere in mente qualcosa di grosso. Oilum lo portò alla fossa di cui si era parlato: era un’ampia cavità dai bordi irregolari e profonda un paio di metri.

«Salta giù» ordinò Oilum.

Lex si concesse una battuta per provocarlo:

«Cos’è, un’arena della morte?»

L’Arkiano ridacchiò e rispose:

«Lasciamo certi lussi ai Teschi Ridenti. Ora salta o ti ci butto io»

Il biondo sospirò e obbedì. Atterrò sulla neve fresca e un brivido più intenso degli altri lo scosse fino alle radici dei capelli. Come avrebbe voluto una bella pelliccia di rinoceronte lanoso, in quel momento! Coi denti che gli battevano, si strofinò le braccia e fece qualche passo avanti. Non appena la nebbia nella cavità si diradò grazie a una folata di vento, Lex si accorse di non essere solo: c’erano altri prigionieri lì. Alcuni erano sconosciuti, altri erano quelli rinchiusi nella caverna con lui e Aurora. Gli ostaggi si stringevano gli uni agli altri come uccellini in inverno e si sussurravano domande e congetture all’orecchio.

Il sopravvissuto decise di dare un’occhiata migliore alla fossa e ne fece un giro; cercava comunque di muoversi di continuo per ignorare il freddo. Notò subito diversi barili unti di petrolio, fasci di stoppa impilati in giro e corde. Incuriosito, si avvicinò a uno dei barili e guardò dentro: era pieno fino all’orlo. Controllò il fianco dei barili e vide che portavano tutti il cognome dei fratelli Braddock scritto in bianco, proprio come quelli che avrebbe dovuto consegnare la carovana alle Rocce Nere. Stava per indagare oltre, quando sentì una voce familiare:

«Ehi, eccolo lì! Biondo! Siamo noi!»

Lex si voltò e, alla successiva dispersione della nebbia, vide Bartolomeu che agitava il braccio, circondato dagli altri compagni di carovana. Mancavano solo i balenieri. Il sopravvissuto si avvicinò al gruppetto, separato dal resto degli ostaggi.

«E così siamo davvero tutti qui» commentò Aziz.

«Mi fa piacere che stiate bene» affermò Lex.

«Alcuni più degli altri» mormorò Ikko.

«Avete capito chi sono questi tipi? O cosa vogliono fare?»

Tereroa allargò le braccia e rispose:

«Ci siamo fatti una mezza idea. Il loro capo parla tutto il tempo di “punire gli stranieri” o cose del genere»

«E il petrolio che rubano?»

Bartolomeu fece spallucce:

«E chi lo sa? Non vogliono venderlo, lo tengono qui assieme a noi e basta. Forse…»

Il marinaio portoghese fu interrotto da Oilum, che apparve sul bordo della fossa e si schiarì la voce. Tutti gli ostaggi si voltarono subito verso di lui e cadde il silenzio. L’Arkiano basso e tozzo camminò lungo il margine della cavità fino al lato opposto, quindi salì su una sorta di palco di legno allestito accanto alla fossa. Una volta lì, annunciò:

«Stranieri, tra poco vi spiegherò cosa farete per il resto delle vostre vite sventurate, ma prima il nostro prode comandante vuole aiutarvi a capire meglio il nostro progetto. A chi parla, mozzerò la lingua»

Dopo quella minaccia, scese dal palco, vi rimase accanto e attese a braccia incrociate. Lex capì che quella era l’occasione per cercare di cogliere informazioni utili sulla situazione, quindi si preparò con le orecchie aperte. Udì dei passi e dal banco di nebbia, come un attore che entra in scena in mezzo al fumo, apparve Enab, avvolto nel suo mantello squamoso. Il capo della banda si portò i pugni ai fianchi e osservò la folla di prigionieri con un sorriso compiaciuto. Dopodiché, si aprì il mantello e iniziò a parlare:

«Metterò subito in chiaro una cosa: non meritate le spiegazioni che sto per darvi. Dovreste solo stare zitti, fare come vi dico e aspettare di diventare inutili. Ma io sono migliore di così; sono migliore di ciascuno di voi. Per questo vi concederò questa minuscola considerazione. Dunque, se vi state chiedendo perché siete stati portati qui con la forza, il motivo è che lavorate per i fratelli Braddock, quei viscidi e luridi approfittatori che ogni giorno che passa cercano di mettere piede in ogni spiraglio della società delle tribù. Sarebbe giusto uccidervi subito solo per questo, ma credo nelle punizioni costruttive. Invece, se vi chiedete cosa dovete fare per noi e perché, eccovi ciò che vi è dato sapere: vi daremo dei recipienti di vimini. Prendete il petrolio dai barili, riempiteci quei recipienti e tappateli con la stoppa. Quando finite, radunateli tutti nelle casse e i miei uomini faranno il resto. È così semplice. Sapete farlo, vero?»

Lex si guardò intorno: nessuno fiatava. Enab fece spallucce:

«Lo prendo come un sì. Se siete davvero così impacciati da non esserne in grado, imitate i compagni. Quello che state facendo qui oggi salverà l’isola da voi! Ricordatevi queste parole»

Finito il discorso, il capo della banda si riavvolse nel mantello e scese dal palco. Oilum si stirò e sbadigliò, per poi battere le mani ed esortare la folla:

«Forza, al lavoro! Avete sentito le istruzioni»

I prigionieri si sbrigarono a cercare i materiali occorrenti in mezzo alla nebbia e si misero al lavoro. Lex decise di aggregarsi ai carovanieri, nella speranza di poter ragionare su quel poco che Enab aveva fatto trasparire sul suo progetto e possibili modi per escogitare un piano di fuga. Lui e Aurora si erano cacciati in qualcosa di troppo grosso: dopo questo, Jonas poteva scordarsi di usarli come garzoni. Sarebbero fuggiti da lì, avrebbero preso la sfera dalla villa dei fratelli Braddock e sarebbero tornati sull’Isola. Ma una cosa per volta. Mentre riempiva coppette di vimini di petrolio e cercava di ignorare la puzza di quella sostanza viscosa, il biondo chiese a bassa voce:

«Uno di voi è riuscito a dare un’occhiata migliore a questo posto?»

Ikko annuì e rispose:

«Io sì, ma per poco»

«Cos’hai visto?»

«Questo posto è circondato da spuntoni. Mi sono svegliato lungo il perimetro: hanno recinti pieni di bestie, sul confine. Ero ancora sulla schiena del coccodrillo»

«Quanti mostri hanno?» domandò Aziz.

Bartolomeu fece una sommessa risata sconsolata:

«Che importa? Di certo troppi per ribellarci»

Tereroa si intromise e rivelò:

«Ho sentito alcuni di loro parlare di una “distruttrice” e di un uovo da tenere caldo»

«E allora?» chiese il Portoghese.

«Ne parlano molto e con timore. Dev’essere qualcosa a cui tengono tanto. Magari possiamo farci qualcosa? Il capo ci tiene davvero, a quanto ho capito»

Lex serrò le labbra e, dopo aver coperto l’ennesimo recipiente con la stoppa, commentò:

«Anche se fosse, ci vorrebbe qualcuno che impari bene com’è fatto questo posto. Finché ci sorvegliano così, è impossibile. Dovremmo vedere se…»

All’improvviso, la voce di Oilum tuonò dai margini della fossa:

«Ehi! Cos’è questo bisbigliare? Risparmiate il fiato e lavorate! Vedrete come starete caldi, poi»

Il gruppo si zittì subito e si voltò verso la sentinella, con sguardi irritati. Lex e gli altri si scambiarono un’occhiata di intesa e ricominciarono a versare petrolio nei recipienti in silenzio. Il sopravvissuto tenne d’occhio Oilum e attese che andasse a controllare l’angolo della fossa più lontano da loro. Stava per riprendere la discussione, quando sentì qualcuno schiarirsi la voce dietro di sé:

«Se avete intenzione di fuggire, potrebbe interessarvi ciò che ho da dirvi»

Lex sbarrò gli occhi, stupefatto: aveva riconosciuto quella voce. Quando si voltò, si ritrovò davanti proprio John Dahkeya in persona; lo stesso con cui aveva avuto il piacere di conversare giorni prima nel deserto. L’Apache lo guardò negli occhi e lo riconobbe a sua volta, quindi sorrise e affermò:

«Mi era parso di vedere un viso familiare tra la folla. Mi spiace che abbiano preso anche te, Lex»

«E questo chi è? Com’è che vi conoscete?» domandò Bartolomeu, confuso.

Il sopravvissuto ignorò la domanda e chiese a Dahkeya:

«Tu che ci fai qui?»

«Era da mesi che cercavo di scoprire chi fossero gli Arkiani che rapivano naufraghi e rubavano petrolio in tutta l’isola. Quando ho trovato questa base, mi hanno scoperto e preso»

«Ehi, ti ho fatto una domanda» insisté Bartolomeu.

«Mi chiamo John Dahkeya e, come ho già detto, so come aiutarvi. Ma dovremo collaborare, perché il mio piano funzioni»

«Non dire altro. Che dobbiamo fare?» domandò Aziz.

Il nativo americano scosse con forza le mani per staccarsi le gocce di petrolio di dosso e rispose:

«La mia compagna è alla mia ricerca, con una bestia in grado di seminare abbastanza caos da permetterci di scappare. Ma non ci troverà mai con questa nebbia, quindi ci servirà un segnale, qualcosa che le permetta di trovarci»

«Come un fuoco d’artificio?» chiese Ikko.

«Sarebbe meglio qualcosa che si veda di continuo, per guidarla meglio. In ogni caso, saremo scoperti subito, quindi dovremo prepararci per tutto. Dobbiamo sapere come agire senza farci notare troppo presto e come tenere impegnati questi banditi mentre la aspettiamo»

Lex mise l’ultimo recipiente nella cassetta che stavano riempiendo, si offrì di trasportarla e la sollevò, per poi annuire:

«Dovremo studiare la situazione nei minimi dettagli. Finché non conosciamo questo posto a menadito, dovremo fare finta di niente e pensare a come esplorare la base»

«Giusto. A proposito, dov’è la tua amica coi capelli rossi? Anche lei è qui con te?»

«Sì. Eravamo insieme nella grotta, non so perché non l’hanno portata qui»

A quel punto, si allontanò dal gruppetto con la cassa. Si unì alla fila di prigionieri con le cassette piene e adagiò la sua sulla catasta che si stava formando poco alla volta. Oilum torreggiava proprio sopra di loro, a braccia conserte e con uno sguardo vigile. Lex indugiò un attimo per fissarlo, prima di andarsene. Tuttavia, mentre si avviava verso i suoi compagni, sentì la vocetta di quell’odiosa bambina:

«Ehi, chiattone, senti qua»

Incuriosito, si voltò per assistere alla scena. Oilum era trasalito ed era diventato paonazzo:

«Devi smettere di chiamarmi così, mocciosa! Tuo padre non si decide mai a insegnarti il rispetto?»

La piccola Aramat scoppiò a ridere:

«Ahahaha! Rispetto? Lui? Ma se ha paura persino di me!»

«Che vuoi?»

«Sono venuta ad avvisarti che la rossa non lavorerà qui»

«Perché no?»

«Ho scoperto che è una brava stalliera. D’ora in poi baderà lei all’uovo di Anitteb: il capo è già d’accordo»

Oilum si accigliò:

«Enab permette a una straniera di avvicinarsi all’uovo?»

«Eh, sì: è brava. Il capo ha detto che se non ci crea problemi, le affiderà anche i recinti, così voialtri avrete più tempo per il resto dei vostri compiti»

L’uomo tarchiato fece spallucce:

«Molto bene. Grazie dell’avviso. Ora sparisci»

«Volentieri»

Fu allora che Lex ebbe un’illuminazione. Forse avevano appena trovato la soluzione al problema di esplorare la base. Avevano appena trovato la spia perfetta, non doveva fare altro che aspettare di rivedere Aurora e dirle del piano di fuga. Quando tornò dagli altri, aveva ancora il sorriso sulle labbra. I carovanieri lo notarono e John gli chiese:

«Hai un’idea?»

Lex annuì, speranzoso:

«Sì. So chi mandare a esplorare la base. Ora, cosa pensi di fare per il segnale?»

QUALCHE MINUTO PRIMA…

Aurora seguì la piccola Aramat fino a una piccola baracca di legno da cui proveniva il crepitio di un fuoco; la ragazza poteva intravedere la luce tremolante attraverso le assi. Questo la rese ancora più contenta di aver colto quell’occasione: sarebbe stata al caldo anche lei. La bambina tolse l’asse di legno che bloccava la porta della baracca, aprì e si fece seguire all’interno. Aurora entrò e vide subito un imponente uovo grosso quanto lei al centro della stanza. Il pavimento era cosparso di ciuffi di paglia e c’erano delle torce a ogni angolo della baracca. La bambina disse:

«Ecco la fissazione del capo. Volevi prendertene cura? Datti una mossa»

Mentre Aramat chiudeva la porta, la sopravvissuta iniziò a osservare meglio l’interno della stanza e com’era sistemato l’uovo. Le condizioni di quell’incubatrice erano terribili, persino penose. Con sincero disappunto, si rivolse all’aguzzina a occhi spalancati:

«Il vostro capo tiene così tanto a quest’uovo?»

La bambina annuì con forza:

«Altroché! Lo considera il suo tesoro personale. Pensa che Oirebit ha dovuto insistere per convincerlo a farci sistemare quassù, perché non voleva che la sua Anitteb deponesse l’uovo al freddo»

«Allora perché lo tenete così male?»

Aramat sobbalzò e andò nel panico:

«Eh?! Che vuoi dire?!»

«Potrebbe morire, così! Perché le torce sono così lontane? E che senso ha mettere la paglia intorno all’uovo? Deve starci sopra: anche quella serve a fare calore. E ce n’è così poca! Per non parlare dell’incubatrice: è di legno. Sarebbe molto meglio una struttura di terracotta, così l’ambiente rimane secco e si scalda ancora di più. Non ci avete mai pensato?»

La bambina rimase lì impalata per una manciata di secondi, in preda ai sudori freddi. Aurora credé di essersi lasciata trasportare troppo, abituata com’era a lavorare nella stalla, e si affrettò a rassicurarla:

«Certo, capisco che per voi dev’essere difficile trovare dell’argilla da queste parti, quello non è colpa vostra»

Aramat fu come ringalluzzita da quella giustificazione e ritrovò la sfrontatezza:

«Ehi, provaci tu a vivere nascosta in mezzo alla nebbia, a congelarti le dita! Be’, visto che sei così esperta, che idee hai?»

Aurora si portò le mani ai fianchi e serrò le labbra, decisa a farsi valere nel suo campo:

«Se avete della paglia di scorta, portamela. Intanto faccio quello che posso»

La bambina annuì e uscì di corsa. Un attimo dopo, però, tornò indietro e rinchiuse Aurora nella baracca. La rossa si strofinò le mani per scaldarle e si mise al lavoro. La paglia sparsa sulle assi di legno era inutilizzabile: era umida, gelida e puzzolente. La raccolse tutta e la ammucchiò in un angolo, visto che non poteva uscire per buttarla via. Fatto ciò, sfilò le aste delle torce dal pavimento e le spostò intorno all’uovo: le dispose in cerchio vicino al guscio, così che ricevesse subito il calore delle fiamme. Si convinse di poter fare ancora qualcosa; si accorse di un sacco a ridosso del muro, accanto alla porta. Conteneva sassi, ramoscelli e pietre focaie. Con un sorriso, allestì un falò accanto all’uovo e provò ad accenderlo. Non fu facile perché, proprio come la paglia, il legno era inumidito dalla nebbia e le scintille non attecchivano. Ma la ragazza insisté e, dopo una dozzina di tentativi ed essersi schiacciata un dito per ben due volte, riuscì ad accendere il fuoco. Fece un passo indietro per ammirare la sua opera: adesso l’uovo era circondato da fonti di calore e la stanza iniziava a intiepidirsi.

“Dovrò giusto tenere la porta socchiusa per il fumo” pensò.

Poco dopo, sentì l’asse che veniva tolta e Aramat aprì la porta con una spallata. Trasportava a fatica un grosso sacco pieno, da cui sporgevano delle spighe gialle. Lo depositò con uno sbuffo affaticato e lo aprì.

«Così va bene?» chiese, ansiosa.

Aurora diede una prima occhiata alla paglia: era dorata e sembrava rigida, come il grano seccato sotto il sole. Ne afferrò una manciata e se la rigirò tra le mani: era asciutta, si spezzava con facilità e profumava ancora di erba.

«Perfetta»

«Oh, meno male! Eh? Che hai fatto? Da dove viene quel fuoco?»

«Tengo l’uovo il più al caldo possibile, come si dovrebbe fare. Ora gli aggiungo lo strato morbido»

Aurora spostò un paio di torce per darsi spazio, fece rotolare l’uovo fuori dal cerchio e iniziò ad ammucchiare paglia al suo interno; la dispose a forma di nido. Partì con una rozza base fatta di pezzi grossi e duri e, poco alla volta, accumulò strati sempre più fitti e soffici, fino a creare una vera e propria culla. Si sdraiò accanto al “nido” per controllare di averlo reso abbastanza grande, quindi riportò l’uovo nel cerchio. Si accovacciò, fece appello a tutta la sua delicatezza e lo afferrò dal basso, per poi sollevarlo appena appena da terra e posarlo sul suo nuovo giaciglio. Ricompose il cerchio di torce, si scrollò le schegge di legno dai vestiti e sorrise:

«Ecco fatto! Ora non soffre più il freddo. Dovrò cambiare paglia come minimo una volta al giorno e alimentare il fuoco di continuo. Per il resto, bisogna solo aspettare»

La piccola Aramat si avvicinò al falò, si accucciò e tese le mani per scaldarsele. Intanto, si voltò verso Aurora e si lasciò sfuggire un’espressione ammirata:

«Caspita, rossa, portarti qui è stata un’idea fantastica! La sai così lunga anche con le bestie adulte?»

«Certo! La mia specialità sono i cuccioli, però sì, so badare anche alle cavalcature. Le striglio, le nutro e tutto il resto»

Aramat scattò in piedi e squittì:

«Oh, sì! Allora posso farti vedere le bestie che ho rattoppato! Puoi pensare anche a loro e vedere le modifiche che ho fatto!»

Aurora era sorpresa: in quell’attimo fuggente, Aramat le era sembrata una bambina normale, tenera e pura, entusiasta di poter mostrare le sue cose ai grandi; sotto la pazza che staccava denti e godeva nel torturare i prigionieri, restava uguale ai suoi coetanei. La sopravvissuta ridacchiò:

«Se dici che posso, volentieri»

«Guai al capo se non te lo permette! Anzi, ora corro a dirglielo»

Sfrecciò di corsa fuori dalla baracca. Aurora badò di uscire a sua volta, per timore che la rinchiudesse di nuovo. La bambina esitò un secondo, si voltò e le chiese:

«Ah, giusto: se vuoi conoscere la futura madre, è lì dietro. Ti conviene farla abituare al tuo odore»

Detto ciò, corse via e scomparve nella nebbia. Incuriosita, Aurora girò intorno all’incubatrice. Dapprima, vide solo le punte acuminate di una barriera di spuntoni di legno; doveva essere il limite della base dei banditi. La rossa seguì il perimetro di qualche passo e si trovò davanti a una staccionata. Tuttavia, la nebbia era così fitta che non riusciva a capire cosa ospitasse il recinto. Si appoggiò allo steccato e si sporse in avanti; a poco a poco, intravide un’enorme massa scura nella foschia. Poco dopo, il vento cambiò direzione e la nebbia prese a diradarsi. Così la sagoma informe prese le sembianze di una testa lunga e stretta, un piccolo occhio e due arcate di denti appuntiti. Aurora ebbe un tuffo al cuore: era un giganotosauro sdraiato.

«Oh!» sobbalzò.

Appena si lasciò sfuggire l’esclamazione, l’occhietto si aprì e la pupilla si fissò su di lei. Aurora andò nel panico e indietreggiò fino a sbattere contro la parete dell’incubatrice alle sue spalle. Era incredibile: perché dovunque andasse, si trovava di fronte i giganotosauri? Ormai era come una maledizione! Per giunta, quella era la seconda femmina con un piccolo che le capitava, da quando era in quel mondo. Rimase immobile, col cuore in gola e la bocca secca. Anitteb sollevò il muso da terra con pigrizia e annusò l’aria. Avvicinò la punta del muso a lei ed emise un sommesso gorgoglio, facendo pulsare la gola. Aurora non ne era sicura, ma le sembrò di avvertire una sorta di diffidenza in quel verso. Magari ad Anitteb non piaceva vedere una sconosciuta vicino al suo uovo? D’istinto, la sopravvissuta si accucciò piano piano, sfregando la schiena contro il legno della baracca; si strinse le ginocchia al petto e cercò di farsi piccola piccola: voleva far capire in qualche modo a quel mostro che era sottomessa.

«Una volta mi è bastata» sussurrò.

Dopo un’ultima annusata, il giganotosauro scoprì i denti e adagiò di nuovo la testa al suolo, per poi richiudere l’occhio. Non appena il contatto visivo si interruppe, Aurora osò rilasciare tutta la tensione e tirò un profondo sospiro di sollievo. Il cuore le batteva ancora forte e lei si accorse solo ora di essere madida di sudore: il freddo era diventato ancora più intenso. Doveva tornare subito al caldo, o si sarebbe presa il peggior malanno della sua vita. Si alzò e si avvolse le braccia intorno al petto. Stava per avviarsi, quando sentì dei passi alla propria destra. Si voltò e vide Aramat ed Enab in persona emergere dalla nebbia:

«Una creatura maestosa, non è vero?» domandò lui.

Aurora non riuscì a rispondere, se non con un versetto sarcastico. Lo sguardo di Aramat guizzava di continuo da lei al capo della banda, colmo di speranza e di aspettativa. Il giganotosauro riconobbe la voce del padrone e sollevò di nuovo la testa. Gli avvicinò la punta del muso e la sollevò, con uno sbuffo. Enab ridacchiò e prese a grattarle la punta del mento.

«Oh, povera Anitteb! Sei così fredda, tutta sola, senza prede da massacrare! Vuoi fare un giro, bella? Vuoi fare una strage? Non si può, sei troppo vistosa! Presto, cara, presto»

Nel vedere quella scena, Aurora ebbe la tentazione di ridacchiare: era abbastanza divertente. Ma d’altro canto non voleva farsi sentire: temeva che Enab si sarebbe arrabbiato, soprattutto visto quanto disprezzava lei e Lex in particolare. Quando ne ebbe abbastanza, il giganotosauro ritrasse la testa e tornò a dormire. Enab si mise le mani dietro la schiena e osservò Aurora, incuriosito:

«E così, abbiamo una stalliera di professione»

La rossa annuì in silenzio. Enab si grattò la barba e proseguì:

«Il solo pensiero di affidare un compito così delicato e importante a una straniera mi fa rabbrividire, ma Aramat ha proprio tessuto le tue lodi e ci serve davvero qualcuno che tenga le bestie in buono stato in questo posto da incubo. Non vedo perché dovrei fare lo schizzinoso per niente. D’ora in poi sarai la balia dell’uovo della mia Anitteb e terrai in ordine gli altri recinti, così gli altri saranno tutti più liberi di gestire il resto. Vedi di non sprecare questo privilegio, perché non capiterà mai più. Hai domande?»

«Dov’è il mio amico?»

«Sta facendo quello che dovresti fare anche tu se non fossi così preziosa, ti basti sapere questo. Ora sai cosa fare, perciò non perdere altro tempo. Ma mi raccomando: passo tre volte al giorno a controllare come sta il piccolo. Se trovo anche solo una crepa sull’uovo, non ti concederò il lusso di morire. Sono stato chiaro?»

«Chiarissimo»

«Ottimo. Aramat ti farà vedere le nostre cavalcature, dall’altra parte della base»

Enab si congedò e si allontanò. Quando non sentirono più il rumore dei suoi passi, Aramat gettò le braccia in alto e festeggiò:

«Sì! Sei la stalliera! Vieni, rossa, ti faccio vedere i miei lavori alle bestie!»

Senza darle neanche il tempo di fiatare, la bambina le afferrò la mano e iniziò a trascinarla con sé attraverso la base, senza badare a quando Aurora inciampava o alle sue richieste di rallentare.

Dopo tante ore di lavoro ripetitivo e alienante, Oilum annunciò che la giornata era finita e, allo stesso modo in cui li aveva portati alla fossa, iniziò a portare via i prigionieri uno alla volta. Gli ostaggi, spossati e impiastrati di petrolio da capo a piedi, aspettavano in fila indiana nel buco, in attesa del loro turno. Lex e Dahkeya fecero apposta a mettersi in fondo, in modo da avere tutto il tempo per rivedere insieme le basi del piano di fuga. John sussurrò, alle spalle di Lex:

«Ricapitoliamo: cosa dirai alla tua amica?»

«Di imparare a conoscere il più possibile questo posto»

«Per fare cosa?»

«Così deciderà qual è il punto migliore da cui lanciare il segnale»

«Glielo consegnerai subito?»

«Non ancora: non vorrei che glielo trovassero addosso prima del tempo. Prima le dico di ambientarsi, poi tutto il resto»

«Sai già come spiegarle tutto senza farti notare?»

«Non ti preoccupare, ho trovato una soluzione. La più silenziosa che mi è venuta in mente»

«Molto bene. Per ora dovrebbe funzionare»

«Se la caverà»

«Quei carovanieri che sono venuti qui con te saranno pronti per il diversivo, mentre aspettiamo Raia?»

«Hanno accettato di fare la loro parte. Stanno già spargendo la voce: più siamo, meglio è»

«Bene, benissimo»

Erano arrivati a metà fila. Nell’attesa, Lex si infilò la mano nelle braghe e tirò fuori un lembo che aveva strappato dalla sua veste. Lo dispiegò e lesse il messaggio che ci aveva scritto sopra: sintetiche istruzioni per Aurora. Le aveva scritte con un polpastrello intriso di petrolio, ma aveva dovuto piegare lo straccio e metterlo via in fretta e furia per non farsi scoprire da Oilum. Voleva controllare che si leggesse bene tutto. Alcune lettere si erano deformate un po’, ma tutto sommato gli parve che le spiegazioni si capissero quanto bastava. Sollevato, Lex ripiegò il lembo di tessuto e se lo nascose ancora nei pantaloni. In quel momento, sentì Dahkeya sospirare con malinconia, dietro di lui. Pensò che l’Apache potesse essersi ricordato di una possibile falla nel piano, quindi volle accertarsi:

«Qualcosa non va?» gli chiese.

«Oh, non è niente. Ho solo ricordato i miei vecchi piani di fuga dalle prigioni di contea, quando ero nella banda di Doc Russo. La prigionia mi è molto più familiare di quanto mi aspettassi»

Lex non poté fare a meno di sorridere: sapeva esattamente di cosa stava parlando John. Aveva letto tutti gli accenni alla sua vita da rapinatore nel diario della sua controparte di Terra Bruciata. Era quantomai bizzarro sentire quelle stesse allusioni da un altro Dahkeya. Chissà se da qualche parte c’era anche un altro Rockwell? O un’altra Helena, magari? Le sue fantasie furono interrotte da un colpo di tosse irritato di Oilum: toccava a lui. Senza fiatare, il biondo si issò fuori dalla fossa e chinò il capo per comunicare che era pronto. Per un attimo, temé una perquisizione, ma il loro sorvegliante si limitò a spingerlo e ordinargli di camminare.

“Meno male che danno per scontato che non proviamo a scappare” pensò.

Come all’andata, fu indirizzato a spintoni alla destinazione. Tornarono alla caverna e Lex fu riportato in gabbia, assieme agli altri prigionieri. Aurora era già lì, rannicchiata nella sua gabbia con uno sguardo angosciato. Il volto della rossa si rasserenò quando vide che Lex era tornato e lo salutò in silenzio, con un sorriso sollevato. Lex ricambiò il saluto e attese che Oilum se ne andasse. Per sicurezza, cercò di dare un’occhiata all’interno della grotta per quanto possibile; non gli parve che ci fosse la bambina pazza o il suo giovane padre. Quindi non perse tempo e si sfilò il messaggio dalle braghe.

Aurora gli lanciò un’occhiata perplessa ed era sul punto di fargli una domanda. Lex la fermò portandosi l’indice davanti alla bocca e le mostrò che stava per lanciarle lo straccio appallottolato. Aurora capì e si preparò, col braccio teso fuori dalle sbarre di legno. Lex le gettò il lembo e le disse col labiale di leggerne il contenuto. Incuriosita, la ragazza srotolò il messaggio e lo lesse; man mano che i suoi occhi scorrevano lungo le righe, il suo sguardo passò da confuso a stupito, infine divenne determinato. Fissò il suo compagno di disavventure, alzò il pollice e annuì con convinzione. Il biondo rispose col gesto dell’OK e Aurora si nascose il messaggio nella scollatura. Fu allora che il sopravvissuto, a scanso di equivoci, si azzardò a bisbigliarle:

«Se qualcosa va storto, cerca qualcosa da usare per prendere tempo. Qualunque cosa possa fare da merce di scambio o su cui si possa fare leva»

La rossa ci rifletté per qualche secondo, dopodiché le si illuminarono gli occhi e fece un sorrisetto malizioso:

«So già cosa posso usare»

«Bene»

In quel momento, udirono i passi di Oilum e si affrettarono a voltarsi dall’altra parte. Lex si girò verso l’uscita della caverna a braccia conserte e rimase impassibile finché l’uomo tarchiato andò via. I preparativi del piano di Dahkeya erano stati iniziati; adesso spettava ad Aurora garantire la riuscita dell’evasione. Lex si pentì giusto di non averle chiesto di cercare di capire meglio chi fossero quegli Arkiani xenofobi, ora che ci pensava; d’altro canto, però, restava un argomento per dopo. Sempre che fossero riusciti a lasciare l’Isola Arcana.

   
 
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