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Autore: Glenda    04/01/2023    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Chiedere perdono.

A chi?

Non lo sapeva, ma sapeva che l’uomo che stava seduto al suo fianco era la ragione per cui desiderava farlo.

Aveva avuto paura: una paura feroce e profonda, un tipo di paura che non pensava di essere capace di provare. Le sue emozioni, positive o negative che fossero, non erano mai state abbastanza forti da fare male. Né, in realtà, abbastanza da fare bene. Le aveva addormentate vent’anni prima.

Noam aveva visto giusto: lui aveva smesso di respirare, lo aveva fatto per sentire meno dolore, per addomesticare il cuore e insegnargli ad obbedire. Per sopravvivere.

Ma mentre correva in macchina temendo di non fare in tempo, mentre immaginava quello che sarebbe accaduto a Noam se non avesse fatto in tempo, Adrian si era trovato tutto ad un tratto a sentire fin troppo bene ogni cosa.

A pensare di essere disposto a qualsiasi cosa, pur di salvare la vita del suo unico amico.

Ci era riuscito, e adesso stava respirando.

Forse era l’effetto dell’anestesia o forse il colpo alla testa, ma gli sembrava di non essere mai stato così in pace.

Avrebbe dovuto fare mente locale, rimettere insieme i pezzi, capire cosa fosse successo davvero e progettare la prossima mossa, invece la sua mente era vuota e ariosa, il cuore era leggero, leggeri anche i pensieri, era assolutamente e limpidamente sereno.

Perdono a chi.

A Noam, per non essere la brava persona che meritava di avere a fianco.

A se stesso, per aver pensato di non meritare di esserci, e invece l’esserci stato aveva fatto la differenza.

“Proteggere te è bello e facile” disse “È un istinto, è un desiderio. Mi rende felice farlo non solo perché siamo amici, ma anche perché vorrei essere come te. Avrei voluto essere te, tanti anni fa.”

Aveva davvero voglia di raccontare quella storia?

Di sprofondare ancora?

Noam aveva gli occhi stanchi e fissava con espressione colpevole il cerotto sulla sua tempia. Sembrava aver perso la sua capacità di riempire il silenzio di parole vaghe, era scosso e spaventato: doveva essere stato terribile per lui, rivivere il momento peggiore della sua vita.

Voleva raccontargli il momento peggiore della propria?

Sì, a lui sì, perché non si affronta la morte per una persona con cui non si è disposti a condividere il momento peggiore della propria vita. Perché Noam non doveva pensare mai più di non avere la sua fiducia.

“Hai ragione tu: c’è stato un giorno in cui ho smesso di respirare” cominciò “e forse questo è il momento più fuori luogo per mettere in piazza i fatti miei… ma vorrei che tu sapessi perché è successo.”

Noam si strofinò gli occhi col dorso della mano: si assestò sulla sedia e sforzò un esile sorriso.

“Ventiquattro ore di osservazione:” disse “abbiamo un sacco di tempo.”

Come accidenti faceva a sorridere in quel modo, nonostante qualcuno avesse appena cercato di ammazzarlo? Soave Dolbruk sempre, anche dopo che gli era esplosa accanto una bomba.

“Quando respiriamo” iniziò Adrian “c’è un momento, tra l’inspirazione e l’espirazione, in cui anche i polmoni si fermano. In quell’istante, tecnicamente non stiamo respirando, ma siamo vivi. Io mi sono fermato in quello spazio lì, ed è accaduto il giorno in cui un ragazzo è morto per colpa mia.”

Rivolse lo sguardo al soffitto, non voleva vedere come avrebbe reagito Noam, non voleva che qualcosa lo trattenesse dal raccontargli quella storia: era partito dalla fine per impedirsi di tornare indietro.

“Non sono sempre stato quello che conosci: non sono sempre stato – com’è che dici tu? - solido. Forse non lo sono nemmeno adesso, ma sono bravo ad apparire tale. C’è stato un tempo della mia vita, invece, in cui apparivo esattamente quel che ero: un ragazzino smarrito e insicuro, del tutto incapace di difendersi da solo. Non so se fossi più o meno felice, non posso valutarlo: ho perso l’abitudine a voltarmi indietro. Ero il figlio per bene di genitori per bene, abituato a chiedere per favore e a dire grazie, e da questa educazione non si sgarrava: farlo sarebbe stato un tradimento, ed io ero cresciuto sentendomi questa responsabilità dentro le ossa. Non ne faccio una colpa alla mia famiglia, erano brava gente, erano fatti così, si sentivano appagati e al caldo nelle loro piccole formalità, nella bella impressione che davano agli altri. E comunque, quel che si è, o che si diventa, non è mai davvero una questione di come si è stati cresciuti: probabilmente, nasciamo sicuri o insicuri a seconda di quale numeretto si è pescato dal sacco e si diventa per metà quel che cerchiamo di diventare, per l’altra metà quello a cui la vita ci costringe, come è accaduto a te, che sei nato persona di silenzi e sei diventato il leader davanti a cui stanno zitti gli altri. Non sono mai stato bravo a dire no – adesso sì, e forse tu, da questo punto di vista, sei la mia unica eccezione – non avevo idea di cosa volesse dire ribellarsi, aggredire, o anche solo proteggere se stessi. Davo sempre la precedenza a questo pensiero: cosa si aspettano gli altri da me? Cosa desiderano? Chi devo fare contento oggi? Ma quando da bambini non si mette se stessi al centro del mondo, significa che qualcosa è andato storto, e quel piccolo errore non smetterà di influenzare il tuo passaggio sulla terra, per quanto tu cerchi di correggerlo. Andare a scuola, fare sport, giocare coi miei coetanei per me era solo sofferenza: ogni ingiustizia che subivo – a volte, persino quelle che subivano gli altri - per me si trasformava in un dolore muto di fronte al quale non riuscivo nemmeno ad arrabbiarmi, mi bloccavo come un giocattolo rotto. Ma dovevo fare finta che tutto andasse bene, perché non volevo che qualcuno si accorgesse del difetto, di quell’errore impercettibile che faceva di me un diverso. Ora, tutti i bambini diversi prima o poi incontrano il proprio persecutore: il mio si chiamava Ròbul, un amico d’infanzia, figlio di amici dei miei, che frequentava la mia stessa scuola; era un ragazzo irruente e aggressivo, ma intelligente, allegro e pieno di vita, che riusciva sempre a trovarsi al centro dell'attenzione. Tutti pensavano che fossi fortunato ad essere suo amico, ed io fingevo di crederlo, mentre dentro lo detestavo: la sua stessa esistenza era il mio incubo. Non lo dissi mai ai miei genitori, non so cosa temessi, forse che loro non volessero intaccare la relazione con la famiglia di lui, forse che, semplicemente, si accorgessero che c’era un problema, che io potessi essere un problema. Perciò non lo allontanai mai, continuavo a frequentarlo fingendo indifferenza e ogni volta che sentivo crescere l’odio dentro di me mi convincevo che stavo facendo il mio dovere, il dovere di essere il bravo ragazzo di cui nessuno si sarebbe mai lamentato. In adolescenza, Ròbul assunse il ruolo di capobranco, a scuola e fuori; nessuno dei miei compagni osava mettersi contro di lui: ci chiedeva di fare cose – prove di coraggio o di forza, piccoli furti, umiliazioni, cattiverie – che non erano nulla di trascendentale se guardate con gli occhi di oggi, ma che allora mi parevano mostruose. Chi non ci stava ne prendeva di santa ragione, e io non potevo tornare ogni giorno a casa con una scusa diversa per nascondere un occhio nero. Lo disprezzavo e desideravo liberarmi di lui, ma il mio desiderio si scontrava contro la sua ferocia e la mia debolezza. Poi ci fu il viaggio d’istruzione a Bam, in un campo avventura ne parco naturale. Non volevo andarci, pensai anche di fingermi malato, sapevo cosa sarebbe successo; ma non ebbi il coraggio di fare neppure quello. La notte Ròbul decise che dovevamo uscire di nascosto nel bosco, sul sentiero che costeggiava il fiume: nessuno di noi osò rifiutare, sarebbe stato come rendersi il suo bersaglio per il resto dell’anno scolastico. O forse nessuno voleva farlo, forse a tutti stava bene così tranne a me: non lo saprò mai. Faceva un freddo terribile: sono stato tante volte in luoghi freddi, ho trascorso notti all’aperto per lavoro, fatto addestramenti sotto la neve, ma non ricordo di aver mai più provato un freddo come quello. Lungo il sentiero si apriva una voragine nera, sentivo il vento fischiare e l’acqua scorrere sul fondo, pensavo che stessimo rischiando di morire tutti per colpa di un imbecille, che eravamo anche noi degli imbecilli, eppure non tornavo indietro. Ad un tratto devo aver perso il passo, perché mi accorsi di essere rimasto solo, ma non avevo il coraggio di chiedere aiuto: l’idea che gli adulti sentissero e mi scoprissero mi sembrava peggiore che morire assiderato. Ad un tratto Ròbul tornò sui suoi passi e venne verso di me: rise e mi disse di muovere il culo, che se mi facevo beccare eravamo tutti fregati; gli andai dietro, mentre lui si divertiva a staccarmi di qualche metro ogni volta e poi tornarmi incontro per ripetermi che ero lento. Il giorno prima aveva piovuto, il terreno era sdrucciolevole e il sentiero franò sotto i suoi piedi. All’inizio sentii solo il rumore, poi lo sentii gridare: era rimasto appeso ad una radice, alle sue spalle solo oscurità e quel rumore di acque lontane. Tirava vento, un gelo che tagliava le dita. Ròbul gridò “Dammi la mano, tirami su!”, ed io mi chinai sulle ginocchia, e lo guardai dall’alto in basso mentre si teneva su con tutta la forza che aveva. Guardai le mie mani: rosse, screpolate, ferite da quel freddo impossibile. Lui disse: “Aiutami, Adrian!”, e aveva gli occhi spalancati, che non sembravano suoi, ed io ricordo di aver pensato che sì, avrei potuto farcela: che se mi fossi sporto un po’ potevo afferrarlo, che forse avevo la forza sufficiente per tirarlo su. E nello stesso momento pensai anche che non lo meritava, pensai che se fosse sprofondato laggiù, se fosse sparito per sempre, io sarei stato meglio. Tutti sarebbero stati meglio. La sua voce mi chiamò una volta ancora, poi sentii il boato del terreno che cede. Il mio braccio non si era allungato: ero rimasto immobile lì, curvo sull’orlo del baratro, a guardare il buio che lo inghiottiva. I soccorsi lo ritrovarono poche ore dopo, non ci fu niente da fare. Nessuno seppe mai come erano andate le cose: quella notte smisi di parlare, e non lo feci più per due anni. Mutismo da trauma, dissero gli psicologi: ma la ragione era un’altra, e la ragione è che se quello che senti è niente, allora è meglio che le parole facciano un passo indietro, che non ci provino nemmeno, a dare forma al niente, perché il niente è meglio lasciarlo in pace, è più buio di quel crepaccio, nel niente ci puoi solo sprofondare. Ho visto calare nella terra la bara di un ragazzo di 15 anni, un mio coetaneo, un mio compagno, senza avvertire nessuna tristezza, nessuno sgomento, nessun senso di colpa: solo vacuità. Non so se sono mai stato capace di provare sentimenti forti, tuttora mi chiedo se amassi davvero mio padre e mia madre o semplicemente fossi anche io assuefatto a quel posto al caldo da cui avevo paura di uscire. Comunque stessero le cose, da quel giorno le mie emozioni si sono addormentate, ed ho deciso che andava bene così, che dovevo trasformare questo dato di fatto in qualcosa che avesse un senso. Io non ho mai avuto stima dei poliziotti, dei militari, né di chiunque trovi sano o piacevole tenere un’arma in mano, ho sempre pensato che in polizia e nell’esercito si raccolgano le peggiori persone: superbi, frustrati, insicuri che sperano di sfuggire a se stessi, sadici, violenti, maniaci del controllo, e via e via. Ma ho deciso di entrarci, perché quel lavoro deve pur farlo qualcuno, e allora preferivo essere il migliore dei peggiori che sistemarmi in una vita tranquilla di cui non mi sentivo degno. In polizia ho resistito poco, per i motivi che ti ho appena elencato. Sono passato alla sicurezza privata: anche in quel caso, proteggere persone che reputavo pessime mi faceva sentire bene, era come una forma di espiazione, era costringermi ad imparare che non sta a me decidere chi merita o meno di essere salvato. Sentendomi sporco sono rimasto a galla: sono riuscito a sopravvivere anche non respirando. Poi ho conosciuto te. Ho accettato di farti da guardia del corpo animato dal pregiudizio che tutti gli uomini di potere fossero marci a qualche livello e volevo scoprire quanto e in che modo lo fossi tu, che sembravi gettare fumo negli occhi a tutti, che sembravi così finto ed improbabile. E tu hai…Tu hai stravolto ogni cosa, Noam. In pochissimo tempo sei riuscito a sabotare, pezzo dopo pezzo, il mio lavoro di una vita. Senza avere nemmeno una volta il dubbio che aprirti in quel modo con me potesse essere un pericolo, che io potessi tradirti, mi hai consegnato i momenti più tragici del tuo passato e nel farlo hai riportato a galla il mio: lo hai scoperchiato come si scoperchia una vecchia botola ed hai sollevato un sacco di polvere. Ci si soffoca, in tutta questa polvere… io ho creduto di soffocarci. Tu non hai idea di quanto mi faccia male il tuo senso di colpa: il senso di colpa di un uomo che quella mano l’ha allungata eccome, anche se ha fallito. L’ha allungata allora, ed altre mille volte, e soprattutto, lo avrebbe fatto al posto mio, quel giorno, a costo di precipitare anche lui. Ti invidio. Vorrei essere te. Ma non ne sono capace: io non sono capace di allungare una mano per salvare tutti, io non sono uno le cui mani, di fronte ad un’emergenza, si muovono da sole. Io non sono per niente istintivo, per niente votato al sacrificio, per niente eroico. Ma riesco ad esserlo per te. Così, in questo modo… io posso permettere a te di continuare ad essere ogni giorno, meravigliosamente arbràsk. Questo è respirare, Noam: ed è per questo che per te, io…”

Non sapeva come proseguisse quella frase: forse doveva lasciarla semplicemente lì, a galleggiare tra i suoni innaturali della strumentazione medica.

Sentì Noam alzarsi dalla sedia: durante tutto il tempo del suo racconto, Adrian non si era mai voltato a guardarlo. Prima che potesse farlo, sentì la sua mano posarglisi sulla testa.

“Stavolta sta a me.” sorrise “…Posso essere io, per una volta, quello solido?”

Lo diceva e gli tremavano le dita.

Eppure sì: certo che poteva.

Poteva prendersi tutta quella storia, il suo passato, quel braccio che non si era allungato in tempo, Ròbul, il nido sicuro in cui i suoi genitori si erano rinchiusi, le buone maniere, la solitudine, la sporcizia, l’apnea, la bomba.

Noam poteva prendersi tutto quanto, e non sarebbe mai sprofondato.

Era per questo che le sua mani potevano pure tremare.

  
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