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Autore: ArwenDurin    08/01/2023    0 recensioni
Sherlock Holmes nel suo lato più emotivo
Johnlock vittoriani, ispirati al canone.
Sherlock POV
"C’era un intimità che non aveva posto nell’epoca vittoriana, nemmeno tra due innamorati convenzionali a meno che non fossero ufficiosamente fidanzati, vi era una passionalità tale con il quale John Watson mi stringeva ed io mi aggrappavo a lui come l’appiglio di luce nell’oscurità che per me era, che tra due amici dello stesso sesso non era permesso nell’epoca nel quale vivevamo."
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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“The ways in which you talk to me
Have me wishin' I were gone
The ways that you say my name
Have me runnin' on and on

Oh, I'm cramping up
I'm cramping up

But you're cracking up
You're cracking up

I'm Mr. Loverman
And I miss my loverman
I'm Mr. Loverman
Oh, and I miss my lover”

 
Trascrivo qui di seguito i miei pensieri in un linguaggio propriamente da me inventato e che nessuno potrà davvero comprendere, poiché il codice è custodito nella mia mente: questo è un diario, è una confessione che farò soltanto su questa carta.
 
Ho sempre apprezzato il silenzio, per quanto talvolta possa esser fastidioso per la mia mente, che tende a elaborare e districarsi nei pensieri per non soggiogare al giogo della noia quando un caso non la occupa interamente, mi ritrovo spesso a cercarlo. Come un bambino che insegue con lo sguardo speranzoso un aquilone in cielo, è così che lo cerco e lo bramo, trovandolo in mezzo alla natura, appoggiato ad un albero quando il bisogno è meno pressante nel mio essere e posso circondarmi dei rilassanti rumori della terra, nella bellezza soave della campagna inglese.
E poi c’erano giorni come questi.
Giornate ove ogni qualsiasi singolo rumore persino dalla beltà della natura, al mio animo inquieto dava soltanto ancor più turbamento: un sole allegro, gli alberi e gli animali che seguivano i loro ritmi e la pace mi incupivano, dunque dovevo starmene in città anche se più di ogni altra cosa ero infastidito dalla mediocrità che potevo trovare nelle strade di Londra. Per quanto ben amata città da me così conosciuta e stimata, in giornate come quelle non potevo tollerare la normalità, più di quanto poco la tolleravano con meno tristezza mentale, i loro sorrisi di vita toccano i miei nervi, scuotendo la mia parvenza di calma e impassibilità, creando il rischio che mostrassi emozioni che dovrebbero essere sempre accudite e nascoste all’interno di me.
Ciò che il pubblico pretende di vedere quando pensa al grande investigatore Sherlock Holmes: l’immagine che dovevo mantenere.
Eppure mi ero ritrovato a percorrere le strade fredde di Londra di fine Novembre nel gelo soltanto per uno scopo, mi incamminai in quelle strade fin troppo rumorose per la mia persona quel giorno, ovvero per giungere al Dioneges Club.
Lì potevo esser solo senza esserlo davvero, circondato com’ero da così tanti gentiluomini immersi in lettura o contemplazione; avrei potuto con una certa facilità dedurre ognuno di loro e carpirne i segreti che nascondevano in quel silenzio ma… non era di mio interesse farlo, nonché non avrebbe avuto nessun senso pratico disturbare la loro privacy in quel momento.
Mi ero limitato a sedermi in una delle poltrone libere del club, fortunatamente proprio vicino al fuoco, in compagnia di sconosciuti che ero pur certo non avrebbero disturbato il mio silenzio. Potevo trarre beneficio dalla solitudine senza doverne toccare le angoscianti tenaglie che l’autentico isolamento avrebbe inflitto al mio essere, e senza spingere la mia mente in luoghi troppo irrazionali senza via di scampo.
Eppure guardando le fiamme danzanti del fuoco dinnanzi a me, con il suo calore che percepivo sulla pelle che sempre più si abituava al torpore di quel posto dopo il freddo subito, mi sentivo sempre più in sintonia con quell’elemento, potevo avvertirlo fremere e scoppiettare dentro il mio essere e bruciare le barriere che così meticolosamente avevo eretto soltanto per vederle sciogliersi sotto fiamme inestinguibili. Avevo sempre riconosciuto un potere nei sentimenti e quanto potessero essere letali se portati all’eccesso, da quale follia poteva essere catturato un uomo e commetterne in nome di questi, l’avevo visto così tante volte che la mia repulsione verso di essi era logicamente aumentata. Avevo definito l’amore come un fatto emotivo e quindi in netto contrasto con la ragione che seguivo al di sopra di tutto, ero così convinto che io potessi esserne immune, d’aver detto queste esatte parole proprio al mio unico amico.
Sospirai all’estremo fastidio che toccava il mio corpo, un fremito leggero che percorse le mie mani, per essere in balia di così trascinanti onde sentimentali… ma come potevo mentire a me stesso? Lasciavo che il mondo bevesse la menzogna di ciò credevano di vedere, ma non avrebbe giovato che lo facessi anche io.
Oltretutto la passione travalicava ad ogni mio respiro, spesso la esprimevo in malinconiche sonate al violino, all’esaltazione che provavo dinnanzi all’arte in special modo musicale nell’ascoltare le opere di Tchaikovsky  o Maler,oppure la più visibile (ed elementare quando si pensa alla mia persona) soddisfazione nel risolvere un caso piuttosto intricato, per quanto momentaneamente non ve n’era nemmeno uno all’orizzonte. Devo però esternare il fatto che nemmeno un caso dalla soluzione brillante poteva darmi pace in quell’istante, quando ogni ora pareva condurmi ad un ulteriore livello di disperazione.
Avevo negli anni imparato a celare qualsiasi stato d’animo scomodo o d’intralcio alla mia professione e alla mia persona, ma vi erano livelli da me poco esplorati e nel quale dunque ero inesperto come in ciò in cui ero piombato.
Soltanto una persona con molta probabilità, avrebbe visto dietro la maschera di apparente impassibilità che indossavo… e mio fratello frequentava spesso questo club, per quanto in rari casi mi aveva convocato nella sua stanza per parlare, l’unica che avesse tale prerogativa visto il totale silenzio che esigeva quel luogo.
Quando piombavo al Dioneges spesso era per qualche tormento dell’animo, soltanto in qualche occasione Mycroft aveva richiesto la mia presenza, vi ragionai alquanto su tale comportamento finché non fu chiaro che lo facesse in caso di estrema necessità, almeno dal suo punto di vista, poiché le pene per il condannato sono tutte di egual spessore.
Ero immobile a fissare le fiamme del fuoco danzare da non so quante ore, le osservavo districarsi alte senza remore o vergogne, libero di lambire il legno, e potevo quasi avvertirle dentro nel mio cuore… una sciocca associazione poetica, ma anche la più vicina a descrivere il mio stato d’animo che altre parole non avrebbero potuto.
Passione che voleva essere sprigionata, sentimento che voleva essere libero.
Sospirai e mi apparve il suo volto, la sua immagine in quel nuovo abito su misura, i suoi occhi dallo stesso colore del cielo, su cui mi ero proibito d’indugiare troppo lo sguardo per non perdermi completamente; quegli occhi che avevano condiviso l’emozione di un momento che poi taciuto non poteva che rimanere.
Sentì l’angoscia farsi strada in me, infidi morsi nel mio essere che reprimevo con un pesante sospiro, non era mio volere tornare nuovamente a quel sentimento che schiacciava ogni parte di me e che in quel silenzio, avrebbe potuto intrappolarmi in un acceso dolore ma era inevitabile.
Pensare che soltanto poche ore fa era il mio stato era una parvenza di tranquillità, poiché i pensieri erano annebbiati nel calore del caminetto familiare di Baker Street ed un giornale attirava la mia concentrazione.
E poi John Watson era entrato nella sala e ogni cosa perse d’importanza.
Era uscito con velocità dalla sua stanza e l’ansia consumava il suo corpo con movimenti veloci e sguardi apprensivi intorno a lui, il suo corpo era avvolto da un nuovo abito color crema, un taglio molto elegante e raffinato che dai recenti mesi avevano sempre più preso posto nel suo armadio e nella sua routine. Il fidanzamento con la signorina Mortsan l’aveva reso piuttosto attento che la qualità dei suoi abiti fosse più pregiata del solito, dedussi per quanto il mio buon amico non l’abbia mai espresso ad alta voce, che fosse perché voleva sentirsi all’altezza della donna aristocratica che presto sarebbe stata sua moglie.
Per quanto quel pensiero accompagnava le mie notti insonni e spesso quando ero sicuro che il mio amico dormisse profondamente oppure non fosse presente in casa, a suonare e composizioni notturne dove sopprimevo tutto ciò che sentivo, v’era un risvolto positivo.
John Watson in quei completi era davvero splendido, risaltavano il suo corpo e l’incarnato della sua pelle, coccolando e ricamando su una bellezza già presente, e rendendolo ancor più vigoroso.
Spesso mi ritrovavo a fissarlo quando quest’ultimo non se ne accorgeva, quando il mio amico si dava un ultimo sguardo allo specchio della sala prima di prepararsi alla serata; quante volte ho ringraziato quell’aggeggio di vanità, e maledetto per darmi tale spettacolo che poteva rimanere soltanto una visione, un riflesso intoccabile come lo era l’uomo dinnanzi.
In quel frangente mentre non potei trattenere il mio sguardo grigio che andò su di lui, notati cosa al suo completo mancasse, e cosa il mio amico cercasse con tanto ardimento.
«Qualche sera fa lei è stato a una partita di bridge.»
Watson mi rivolse lo sguardo.
«Non dubitavo che lo avrebbe capito anche se non ne ho fatto accenno.»
«In effetti, questo è uno dei segnali anche se lei non ne parla perché teme di annoiarmi, ma le assicuro che non è così, amico mio. Riguardo ai segni di cui parlavo, vi sono dei piccoli atteggiamenti che toccano sempre la vostra persona quando perdete una partita. Uno di questi nell’impeto di rabbia, è di lanciare con afflizione i guanti che portate in quella serata nell’aria e dunque nell’appartamento.  Questa volta erano finiti sotto la poltrona, ma provi a guardare nell’armadio dietro al divano alla sua sinistra.»
Li avevo raccolti giorni fa e dati alla nostra governate la signora Hudson, che li pulì con la cura che la caratterizzava, e avendoli dunque io presi avrei potuto subito restituirglierli ma fu uno schiocco sentimento a bloccarmi dal farlo, lo stesso che respinse l’idea di farmi alzare dalla poltrona per porgerglierli.
E poi avrebbe inavvertitamente creato un contatto, e come potevo resistere alla balia di ciò che sentivo se favorivo situazioni del genere?
Il mio amico eseguì e il suo volto fu colto da gioia, quel genere di sorriso capace di far sussultare un cuore stanco e aggrinzito come il mio.
«Oh mio caro Holmes, lei è sempre in grado di stupirmi!»
Esaminò i guanti e rendendosi conto del loro stato immacolato ne fu ancora più contento ma non fece domande, e prese a rivolgermi uno sguardo d’ammirazione che illuminava i suoi occhi accecando ogni altra luce nella stanza.
«Come farei senza di lei.»
Quella frase ebbe il poter di far abbassare il mio sguardo alla fitta che sentì nel mio essere, d’improvviso non riuscì nemmeno più a stare seduto e dovetti alzarmi, guardai fuori dalla finestra e mi presi il tempo che mi serviva, reprimendo e silenziando ogni sussulto che avrebbe potuto tradirmi. Dopodiché il mio sguardo ricadde sulla sua figura riflessa nello specchio della sala, soltanto che quella volta fu i suoi occhi che incontrai e non il riflesso del suo specchiarsi.
Cosa potrò mai essere io senza di te?
Sapevo dove si stava dirigendo, quasi ogni sera oramai il mio amico preferiva la compagnia di Mary Morstan a qualsiasi altra, e come dargli torto? Una dama tanto delicata e intelligente non poteva che attrarre l’attenzione e oltretutto le era dovuta, in quanto sua fidanzata e futura signora Watson.
Che diritto avevo io, uno sciocco e folle uomo disperso in proibiti desideri e ricordi, a provare quell’assurda gelosia?
John Watson non stava osservando la sua figura ma piuttosto era concentrato su di me, e come d’incanto mi spronò a fare qualche passo verso di lui, non potendo più fare a meno di creare un contatto, un ponte dove egli non avrebbe poggiato nessun piede, un’illusione di un tocco.
Allungai le mani e mi accorsi che tremavano leggermente, quando raggiunsero il suo cravattino, sistemandoglielo al meglio e più centrato, vidi le sue spalle irrigidirsi eppure i suoi occhi socchiudersi a quel momento. Era come ne fosse in balia, piuttosto che scocciato o imbarazzato come doveva essere, e scaturì fiducia e desiderio nella mia persona.
Oh Watson, mio pazzo amico, non dovresti darmi il tuo affetto.
«Ecco, così il suo completo è perfetto e le dona davvero.»
«La ringrazio.»
I nostri sguardi si incontrarono allo specchio, il suo brillante come due zaffiri  non voleva lasciarmi e l’espressione era tra le più sentite che potessero esserci, dolci pensieri avvolsero la mia mente a quella vicinanza… ma non potevo. Così mi distanziai per quanto ogni cellula del mio essere bramasse di non farlo.
«Mi rincresce lasciarla da solo anche questa sera, sarebbe mio desiderio che anche lei fosse presente qualche volta, a qualche cena ad esempio, ma lei stesso più volte ha rifiutato e poi…»
«Lo comprendo, e lei sa già la mia risposta come ha illustrato. Oltretutto non deve preoccuparsi, ho un impegno questa sera.»
Finsi un sorriso ma quando incontrai il suo sguardo, lo vidi cambiare in dolcezza e tristezza dovuta all’empatia nei miei riguardi, e di ciò che colse davvero dietro la falsa tranquillità che stavo mostrando, fu quel momento che feci sì che anche il nostro contatto visivo finì.
Il mio John mi conosceva così bene che sapeva leggermi senza che io dovessi esprimermi a parole.
«Holmes…»
«In effetti sarei quasi in ritardo, le auguro una buona serata, amico mio.»
Lo interruppi lasciandolo confuso mentre mi ricambiava il saluto e accennando un inchino gli voltai le spalle, uscendo poco dopo di fretta e furia dall’appartamento.
Non potevo lasciare che vedesse, né percepisse ciò che avrebbe rovinato la sua vita e la sua reputazione. Non potevo rovinare le sue nozze imminenti.
Che l’amarezza che sentivo nel mio essere tormentasse soltanto me, che i suoi artigli affondassero nei miei pensieri e nelle mie vene, che martoriasse la mia mente fino a ridurla a null’altro che un abisso di pensieri, tutto finché egli non sarebbe stato toccato dal dubbio o paura.
 
Sbattei le palpebre ritornando al camino del Dioneges e accorgendomi che i miei occhi si erano fatti acquosi, ricacciai indietro ogni sentore di sofferenza che voleva sopraffarmi.
D’improvviso un cameriere si avvicinò a me nella sua livrea bianca, indicandomi con un cenno di seguirlo.
Ah. Dunque deve apparire più grave del previsto.
Mi alzai e lo seguì, certo che mio fratello desiderava vedermi quella sera e mi ritrovai presto nella sua stanza privata. Era ampia, coperta di damasco rosso e con una grande finestra ovale a dare ampia visione del centro di Londra, come un quadro a cui egli poteva accedere senza doversi muovere dalla sua grande poltrona rossa, in effetti mio fratello era poco avvezzo al movimento.
«Sherlock, buonasera! Guarda un po’ cosa sono riuscito a procurarmi sta sera.»
Non si scomodò ad alzarsi ed io mi avvicinai quanto bastava per essergli dinnanzi e osservare la bottiglia costosa di Merlot aperta sul tavolino di vetro di fianco a lui.
«Mycroft.»
Ricambiai il saluto con un cenno del capo, portandomi le mani dietro la schiena e giocherellando con le dita, non ancora deciso a sedermi di fronte a lui.
«Qual è l’occasione?»
«Non sempre ne serve una.»
Annuì osservandolo, mio fratello non era di certo un soggetto facile da dedurre, era piuttosto in gamba a nascondere le sue emozioni dietro un volto impassibile, sorrisi mesti, e cordialità manipolatoria; e non fu di certo un caso il suo successo nella carriera governativa. Ma conoscevo la sua apprensione nei miei riguardi, o perlomeno quanto vi era il timore da parte sua che ricadessi in pessimi vizi, chiuso in una stanza in solitudine. In effetti, dopo momenti più acuti di disperazione e varie notti passate insonne, avevo pensato di fiondarmi in una soluzione al sette per cento e non esser presente nel mondo per qualche ora e qualche attimo, ma avrei rovinato il matrimonio del mio amico che sarebbe stato di lì a qualche giorno, e non potevo di certo permettermi di non essere lucido.
Mi porse il bicchiere dalle grandi mani e io l’accettai dopo qualche attimo, slacciando la presa ferrea che avevano assunto dietro la sua schiena, e sedendomi soltanto allora, annusando, degustando, e bevendo l’eccellente vino rosso che mi aveva offerto.
«Come sta il dottor Watson?»
Alzai leggermente le sopracciglia e osservai il suo viso studiarmi da cima a fondo, colse quel lieve attimo di debolezza all’immediata e sorrise brevemente.
«Oh Sherlock, vi sono soltanto due ragioni per il quale potresti trovarti qui, un caso andato in frantumi, o un protrarsi di un emozione, in questo caso un’amicizia nell’orlo del cambiamento.»
Non mostrai nulla, indossando la mia maschera di impassibilità con decisione e più concentrazione, visto il soggetto che avevo davanti, ma vi era ironia del fatto che nemmeno mio fratello potesse vedere quanto l’amicizia con John Watson fosse più profonda di qualsiasi altra che avrebbe toccato il mio essere e mi fece sorridere mestamente.
«Potresti chiederlo direttamente a lui. Si sposerà a breve, ma sono certo che lo sapevi già.»
«Legarsi a qualcuno porta sempre delle conseguenze, dovresti saperlo.»
Bevve un sorso di vino per nasconderlo, ma notai le sue sopracciglia crucciarsi. Dedurci finché uno dei due avrebbe prevalso, era un gioco che facevamo sin dalla tenera età, quando non eravamo ancora abbastanza allenati per provarci con estranei e dunque tentavamo tra di noi, imparando di certo la sottile arte dell’inganno.
«Ne sono consapevole, non manchi mai l’occasione di ripetermelo, caro fratello
Lo fissai bevendo un altro sorso di vino, nessun movimento, nessuna espressione, mi guardava a sua volta con piccoli occhi scuri e scandendo il silenzio tra noi.
Girò poi il vino nel bicchiere, chiuse gli occhi assaporandone l’odore e poi disse.
«Tornando a questo vino, è un Merlot ed è stato imbottigliato quasi quattro secoli fa e sono così rare le occasioni in cui ci vediamo che…»
«Cosa vuoi davvero sapere, Mycroft?»
Lo interruppi, troppo spossato per accettare dei preamboli.
Mio fratello rise, la risata stizzita che spesso faceva quando non rispettavo le buone maniere, e potendomi ritenere soddisfatto d’averlo provocato, sorrisi anche io e per davvero dopo parecchi giorni che non lo facevo.
«Ricordi il caso dei Brighton? Sarebbe ancora irrisolto se sei interessato, e potrebbe essere una distrazione, se così vuoi chiamarla.»
«Sembra alquanto banale, anche se presenta elementi insoliti.»
«Direi cristallino.»
«Pensavo che l’avessi risolto tu.»
Era ovvio che il caso aveva elementi interessanti, altrimenti non me lo avrebbe mai proposto, ma il fatto che fosse connesso ad affari governativi, che superavano di gran lunga la vita che l’impiegato aveva perso in circostanze sospette nei binari di un treno, non mi spronava nel volerlo risolvere.
«L’ho fatto nella mia mente, dunque mi serve qualcuno che vada… sul campo.»
Una smorfia colorò il suo viso a quella parola e bevve ancora finendo il bicchiere, e riempiendone un altro a gran velocità.
Mi stava proponendo quel caso per distrarmi ma anche per profitto personale, tipico di mio fratello.
«Non credo che ne avrò il tempo, sono impegnato e potrei esserlo ulteriormente.»
Mi guardò lasciando trapelare del nervosismo nel suo viso.
Un’altra ragione per cui non volevo quel caso era che mi sarei ritrovato sotto lo sguardo indagatore di Mycroft, una sottospecie di galoppino che per quanto libero di agire come meglio credevo, avrebbe dovuto rendere conto a lui. Oltretutto, non mi avrebbe distratto davvero quanto ne necessitavo, ma probabilmente mio fratello non se ne rendeva conto, se io comprendevo così poco le emozioni e sentimenti umani, per Mycroft era come leggere un libro scritto in una lingua sconosciuta che non aveva voglia di imparare.
«A fare cosa, di grazia? Pensare a come utilizzare le stanze nel tuo appartamento che presto saranno vuote? A disperderti in schiocchi sentimentalismi?»
Lo fissai senza remore, finendo il mio bicchiere di vino e poggiandolo sul tavolino.
«Ho un altro caso, e come detto, ci sarà a breve il matrimonio del mio amico che avrà tutta la mia attenzione.»
Mi alzai con rigidità, giocherellando con le dita più del necessario.
«A tal proposito devo ritirarmi ora, buona serata, Mycroft.»
«Buona serata Sherly, ricorda che il tuo accesso al Dioneges Club è illimitato.»
Lo disse senza guardarmi, piuttosto concentrando l’attenzione al paesaggio londinese, sporgendo il largo collo verso la finestra, e facendo stridere il panciotto di già troppo stretto.
Nascosi il sorriso che si formò nelle mie labbra e uscì dalla stanza, con lui che sorseggiava il vino, per quanto fui sicuro che mi seguì con lo sguardo per qualche tempo.
 
Mi bastò una veloce occhiata all’appartamento di Baker Street per dedurre che fossi in solitudine, poiché persino la governante era uscita quella sera, poteva intuirsi da vari fattori, il primo fra tutti il silenzio assordante tra quelle mura, poi il tappeto leggermente scostato all’entrata della casa, indizio di quanto la signora Hudson passava con la sua lunga gonna e spesso lasciava tale traccia.
Sospirai e salì i diciassette gradini verso il 221, non analizzai come mi sentissi al riguardo ma seppi che fu senz’altro un bene per il mio umore alterato e altalenante, che spesso riversavo con vergogna proprio verso la nostra governante.
Ero abituato a stare per conto mio, alla porta che si apriva in un silenzio assoluto, ma negli ultimi anni la solitudine poco aveva bussato alla mia soglia, e quei momenti erano diversi, oh, se lo erano.
Pensare a come utilizzare le stanze nel tuo appartamento che presto saranno vuote?
Le parole di mio fratello ripiombarono nella mia mente e osservando il mio appartamento vuoto alla penombra del camino sospirai, se Mycroft me lo avesse chiesto con chiara intenzione di volerlo sapere, avrei probabilmente inventato qualsiasi risposta piuttosto che ammettere che no, non ci avevo pensato, e che non intendevo farlo.
Quando passai davanti allo specchio ovale della sala ne fui nuovamente consapevole, e rividi i mio amico John Watson intento a specchiarsi proprio lì dinnanzi poche ore prima, l’abito color crema a calzargli a pennello, il suo sguardo azzurro e brillante che si posava su di me mentre mi avvicinavo. L’idea fulminea che mi era balenata alla mente quando allungai la mano verso di lui, si mostrò in tutta la sua ferocia, e nella mia mente non mi fermavo ad aggiustargli il cravattino ma piuttosto lo slegavo. Slacciavo poi il colletto per sfiorargli il collo nudo con le dita e poi con le labbra, mentre avrei visto gli occhi di Watson chiudersi accettando le mie attenzioni.
Ma davanti allo specchio vi ero soltanto io, con il viso più smunto del solito e gli occhi della tonalità più scura di grigio sul baratro della disperazione, e scacciai quell’immagine fantasiosa come si caccia un insetto, la chiusi nel mio palazzo mentale e la tenni lì celata persino a me stesso. Mi avvicinai al camino prendendo la pipa di onice, ovvero quella che spesso accompagnava i miei momenti più cupi, come il mio amico aveva giustamente compreso e riportato nei suoi racconti.
Mi sedetti poi nella mia poltrona accendendola e incontrando il mio sguardo con la vuota poltrona dinnanzi a me, uno spazio dove ballavano il riflesso del fuoco in piccole ombre.
Questo era il mio tormento, questa era la mia paura che accompagnava le mie notte di veglia, i miei silenzi prolungati, e il forte dolore che avviluppava il mio stomaco, invadendo la mia mente e stridendo senza pietà.
John Watson, il mio unico e solo amico, l’uomo che contro ogni probabilità aveva scostato da parte la mia venerata logica, facendomi disperdere nel cielo dei suoi occhi, quell’uomo si sarebbe sposato a giorni e io sarei rimasto da solo.
‘A me rimarrà la compagnia della cocaina.’ Così gli avevo risposto quando mi aveva annunciato il suo matrimonio, una risposta egoistica presa dalla folle gelosia dell’uomo patetico che ero. Ma furono il suo sguardo misto tra tristezza e preoccupazione, le sue spalle d’improvviso fattosi rigide, e la domanda inespressa nelle sue belle labbra a farmi decidere che da quel momento in avanti non avrei mai più avuto una reazione del genere.
Oltretutto non potevo negare un certo appagamento di sapere il mio amico felice con qualcuno che avrebbe potuto dargli quello che io non avrei mai, e di cui non era saggio nemmeno sussurrare nell’epoca nel quale vivevo.
Certo, avremmo risolto altri casi insieme, probabilmente avremmo anche passato del tempo assieme… ma quanto esattamente? Ero conscio che niente sarebbe stato più come prima, e che presto non avrei più avuto il piacere della sua compagnia ogni momento. Il sorriso dolce che mi rivolgeva a colazione alzando lo sguardo dal giornale mattutino, quello più acceso alle mie deduzioni e risoluzione dei casi, i suoi occhi che erano la prima visione delle mie giornate, e l’ultima delle mie serate, dove sarebbero stati?
Inspirai ed espirai il tabacco dalla mia pipa, gli occhi ancora incollati sulla poltrona che sentivo sempre più umidi eppure, non espressi quell’emozione che stava dilaniando dentro di me, non così esposto com’ero; era la poltrona di Watson, e in qualche recesso illogico e patetico di me, era come essere dinnanzi a lui. E come potevo spiegare che ogni suo passo verso il giorno più felice della sua vita per convinzione comune, era un passo nell’abisso per me?
Fu così che distaccai lo sguardo da essa e mi rannicchiai con le ginocchia sopra la mia poltrona, il viso tra le mie gambe dove spuntava soltanto la lunga pipa e il fumo che fuoriusciva, mi nascosi al mondo, al fuoco scoppiettante, al tè che ancora mi aspettava nel tavolino dinnanzi a me, mi celai a qualsiasi cosa, persino a me stesso.
In quel momento quasi al buio disperso nei miei sensi e nell’odore agrodolce del tabacco, mi concessi il tormento di potermi esprimere, di poter mostrare le mie emozioni e dunque ripensai a un momento intimo, un solo istante successo fra me e John Watson qualche mese fa. Lo avevo recluso nel mio palazzo mentale non potendo far altro che ignorare e celare…ma lo ricordavo, lo ricordavo così bene.
 
Era una sera come tante altre, per quanto il caso che stavamo affrontando ci aveva provato sia mentalmente che fisicamente, in effetti avevamo entrambi rischiato di non uscirne vivi e dopo un’accesa litigata con il mio amico sul mio poco interesse nel preservare la mia salute e non informarlo per tempo quando avevo idee folli del genere, come lui le aveva chiamate, eravamo rimasti in silenzio. Non osammo rivolgerci la parola per molte ore, ognuno seduto nella sua poltrona disperso in qualche riflessione.
La mia mente era completamente concentrata sul caso e sullo squalo dai denti aguzzi che stavamo affrontando, un criminale con una mente invidiabile se non disprezzassi l’uso che faceva dei suoi misfatti, vendendo e ricattando con informazioni qualsiasi preda gli capitasse a tiro, persone che l’epoca chiamava invertiti, oppure indecenze e scandali. Il fatto che persino io potevo essere uno di loro, accendeva la mia ira e motivava il mio essere a volerlo incastrare una volta per tutte, e di sicuro quello che successe tra me e il dottor Watson, avrebbe acceso i suoi piccoli e orripilanti occhietti pronto ad un nuovo affare.
La frustrazione di non aver ancora incastrato quell’uomo faceva da padrona in me, l’essere ad un punto morto delle indagini e il dover attendere i miei irregolari con qualche informazione valente al caso, mi rendeva impotente. Ciò si era mostrato in tutta la sua forza quando ero crollato sedendomi a terra, analizzando per l’ennesima volta e senza successo ulteriore, i fogli e appunti che avevo sotto gli occhi.
Ero con la schiena rivolta verso il mio amico e d’improvviso disperso nella concentrazione e nel bisogno, mi ero trovato appoggiato alla gamba di Watson senza nemmeno rendermene del tutto conto. Un verso di frustrazione fuoriuscì dalle mie labbra, facendo sì che qualche foglio venisse spazzato via dalla mia incompetenza, era una mia debolezza, e probabilmente sempre lo sarà, il fastidio che provavo quando non capivo, quando non ero abbastanza sveglio e brillante nonostante l’intelligenza magnifica a dire del mio amico. Sapevo di aver una mente sopra le righe convenzionali su molti aspetti, e questo non faceva che aumentare l’inadeguatezza che sentivo sguazzare in me.
Chiusi gli occhi esasperato ma potei percepire il mio amico muoversi, poggiare il libro che stava leggendo nel tavolo di fianco a lui, e con delicatezza portare una mano tra i miei capelli.
All’inizio fu delicato, una primordiale paura di rifiuto dovuta dell’inadeguatezza della situazione, eppure fu così naturale nello stato d’animo in cui entrambi ci trovavamo, e per me di certo, così normale. Una carezza sublime che accese i miei sensi, e mi avviluppò totalmente al punto che non potei evitare al mio corpo di andare contro la ragione, e sospirai di godimento a quelle dita magiche tra i miei scuri capelli. Watson a quel punto continuò con una vena di sicurezza in più nel suo tocco, aprì gli occhi ma socchiudendoli appena, inebriato e curioso di ciò che mi stava accadendo, la chimica del mio corpo che reagiva prontamente, il sangue che pompava con velocità insieme al mio cuore che pareva impazzito.
Ero familiare all’effetto che Watson aveva sulla mia persona, in effetti lo ero dalla prima volta che il mio sguardo ricadde sul sottoscritto, ed a parte le ovvie deduzioni che trassi sulla sua persona e professione di medico militare, fu la sconfinata bontà e astuzia che colsi nel suoi profondi occhi azzurri a colpirmi. Oltretutto non posso certo negare quanto fosse bello, non ero avvezzo ad interessarmi ad un tale argomento quale la bellezza così superficiale e soggettivo, né osservarla o prestargli attenzione per quanto potevo vederla, d’altronde non è sempre intorno a noi? In varie forme e pareri? Io ne ero immune verso il genere femminile se non per un giudizio meramente estetico ma anche in quei casi, fu davvero raro, ero piuttosto più consapevole al fascino quando si trattava di gentiluomini, e John Watson era bello. Il viso dolce e segnato dalle più intense emozioni che faceva vedere la sua natura focosa e passionale, il profilo greco e gli occhi dal colore del cielo che avevano il dono di leggere l’animo umano meglio di quanto credesse. Il portamento fiero e duro formato da anni nell’esercito eppure una gentilezza nell’animo sorprendente per chi aveva visto ciò che lui aveva vissuto, era ancora capace di assaporare la purezza nel mondo.
Era una creatura splendida e unica, che tanti strati di beltà possedeva.
In lui trapelava un senso di curiosità che espresse sin da subito con domande che spesso poneva, anche se spesso sottovalutate da menti mediocri, ma erano brillanti e spesso illuminanti nei casi che seguivamo.  Ed ero ben conscio che altrettanto presto il mio caro Watson, cominciò a porne sempre di più vedendo i risultati che avevano su di me, per risaltarmi e rendere la mia figura ancora più leggendaria nelle semplici deduzioni e osservazioni del comportamento umano che invece facevo.
Il mio amico aveva costruito la mia figura dotata di grande intelletto ma senza sentimenti, per quanto in quest’ultima mi impegnai di buon grado per darne l’impressione, ma non soltanto per mitizzarmi, bensì per protezione nei miei riguardi. Poiché era meglio credere che un bohemien fosse stravagante piuttosto che un uomo eccezionale ma comunque umano, vivesse con un altro uomo scapolo.
Egli era sempre attento alla mia persona e nulla chiedeva in cambio, null’altro che lasciarmi splendere, e come potevo io non cadere trappola di tanto affetto sconsiderato? Avevo tralasciato i ragionamenti tali che avrebbero condotto ad un pericolo… ma dopo quella sera mi fu piuttosto chiaro che non potevo fuggire da ciò che davvero provavo.
La frustrazione sembrò nascondersi impaurita da tutte le sensazioni che si erano risvegliate e presto un’impetuosa brama prese possesso di me, facendo sì che mi voltassi per incontrare il suo volto. I suoi occhi ricchi d’affetto erano ma anche accesi di una luce di passione che mai gli avevo visto, una tale bramosia da farmi quasi tremare, così simile a ciò che anche io avvertivo.
Fu quello a spingermi a desiderare più contatto, ad alzarmi e con follia sedermi sulle sue gambe, John Watson mi accolse immediatamente per quanto della confusione iniziale aveva toccato il suo volto, ci abbracciammo e in ciò vi erano le scuse di entrambi, la riappacificazione dopo un litigio.
Ma non fu soltanto questo, e non era la prima volta che io e il mio amico ci abbracciavamo, era successo dopo che ero tornato dalla mia presunta dipartita, e per quanto fu intenso, era diverso da quello che stavamo provando in quel momento.
C’era un intimità che non aveva posto nell’epoca vittoriana, nemmeno tra due innamorati convenzionali a meno che non fossero ufficiosamente fidanzati, vi era una passionalità tale con il quale John Watson mi stringeva ed io mi aggrappavo a lui come l’appiglio di luce nell’oscurità che per me era, che tra due amici dello stesso sesso non era permesso nell’epoca nel quale vivevamo.
Eppure restammo così per interminabili secondi, benedetti attimi che non ebbero bisogno di alcune parole, nemmeno quando nascosi il mio volto nel suo collo, sentendo le sue pulsazioni battere fortemente quanto le mie, e nemmeno quando rialzando il volto mi trovai vicino al suo.
Se mai fosse esistita un entità nel cielo, in quel momento chiesi perdono per i pensieri che furono nella mia mente, per lo sguardo più dolce e splendido che avessi mai visto posarsi su di me. Quegli occhi dove brillavano il calore più puro del fuoco acceso accanto a noi, erano su di me, e il desiderio prorompete di posare le mie labbra sulle sue fui sicuro che mi attraversò il volto, poiché le pupille di Watson già dilatate si allargarono ancora di più. Ero conscio dell’attrazione che il mio amico provava per me ma quella sera, fu più dirompente e disorientante, capace di rapire tutta la mia attenzione.
“Holmes.”
Il modo in cui lo disse, un tale ardore e bisogno da scuotere ogni parte di me fu il punto di non ritorno per far sì che poggiassi la fronte sulla sua.
“Watson.”
Fu allora che però dei passi si udirono sulle scale, riconobbi dalla cadenza la nostra governante e scambiandomi uno sguardo con il mio amico, sentì una morsa stringermi nel petto nella realizzazione che era tutto finito.
Piombai giù dalle sue gambe e la signora Hudson entrò nella stanza portandoci del tè caldo appena fatto, e dei deliziosi pasticcini ad accompagnarlo, ma che rimase tutto intoccabile per la mia persona.
 
Da quel momento non parlammo dell’accaduto, per quanto Watson qualche volta tentò di iniziare il discorso, lo dedussi dalla curva in avanti delle sue spalle come fosse pronto a un incontro di pugilato, i pugni chiusi per darsi forza e le pupille che brillavano di curiosità, ma deviai l’argomento tentando sempre di apparire impegnato. E forse pensò persino che mi dimenticai dell’accaduto, che lo chiusi nel mio palazzo mentale come qualcosa di poco conto… ed era meglio così, non perché mi importava il pensiero comune su tale argomento, né tantomeno che le mie inclinazioni fossero considerate devianti dall’Inghilterra, ma sapevo quale sarebbe stata la conseguenza legale.
Che mi odiasse, che pensasse che fossi una macchina senza sentimenti, per quanto il mio caro Watson poco credeva a quest’ultima affermazione, che credesse che non me ne importava.
Quando dunque annunciò il suo fidanzamento con Mary Morstan, logicamente fu la scelta migliore nonché mi sforzai di esser felice, ma dentro il mio essere sentivo ben altro: una lenta discesa nel buio e nella solitudine. Sarei almeno mai stato davvero felice per lui dopo il matrimonio?
Una lacrima uscì dai miei occhi e sfiorò la mia guancia a quelle memorie che saranno state lontane un giorno, ne lasciai sfuggire soltanto una ma che racchiudeva tutto il dolore che stavo tenendo nel mio essere e a cui nessuno, se non a me stesso, potevo mostrare.
D’improvviso un’idea mi balenò alla mente, e volli esprimere la mia emotività come spesso facevo con un metodo al quale dedicavo e ricavavo in egual misura, passione e intensità, ed era un piacere che posizionavo soltanto poco dopo la scienza della deduzione. Cosicché riemersi dal mio nascondiglio improvvisato, spensi la pipa, mi alzai e andai a prendere il mio violino, l’optimum per la mente, che spesso i compositori tedeschi che favorivo, conoscevano eccome l’effetto. Ed io con quello strumento tra le mani ero sincero e onesto nei miei sentimenti, era un confidente silenzioso a cui spesso avevo affidato le mie tribolazioni.
Di nuovo con il violino tra le mani, scontrai il mio sguardo con la poltrona che apparteneva a Watson, ora vuota e non potei evitare di sfiorarla con le dita con una supplica mentale, mentre poi mi ritrovai a stringere il violino come se volessi abbracciarlo.
Ti prego Watson, resta con me, rimani con me.
Quel pensiero irrazionale prese la mia mente prima che avessi il potere di frenarlo, scossi il capo e lo cacciai via, nello spazio del mio palazzo mentale occupato da inezie che sarebbero poi state cancellate, poiché questo senz’altro era… un pensiero egoistico e inutile.
Mi posizionai di fronte alla finestra e presi a suonare la Ciaccona di Bach*, sfuggì dalle mie dita con la stessa malinconia che ricopriva il mio essere, fuoriuscì in note strazianti e travolgenti che avvolsero l’appartamento e cullarono me in uno dei pochi modi in cui potevo esprimermi senza che nessuno potesse giudicare.
Chiusi gli occhi trafitto dalle note della melodia, rividi John Watson nella mia mente, ogni piccolo gesto e atteggiamento che formavano la sua persona, che lo rendevano chi era: gli occhi brillanti quanto leggeva uno di quegli schiocchi romanzi sentimentali, il leggero disappunto che mostrava contraendo le labbra quando una notizia sul giornale era piuttosto infima, e l’allegria che aleggiava nel suo volto ogni qual volta il Natale si avvicinava, facendo sì che la noia che sentivo al riguardo, venisse accantonata dalla sua luce. Quegli occhi ancora assonnati ma che si allargavano di fronte alla colazione preparata dalla nostra buona governante, e che con attenzione sempre mi osservavano con squisita empatia, comprendevano più di quanto avessero dovuto. E il sorriso che nascondeva sotto i baffi ad ogni mia deduzione o quando qualche ostinato cliente chiedeva un udienza soltanto con me, convinto che potessi fare a meno del mio Boswell, e io declinavo, impuntandomi di quanto John Watson fosse necessario per me.
Non hanno idea, nessuno di loro sa che tu sei il punto fisso della mia esistenza.
Ma come avrebbero potuto saperlo? La maggioranza di loro viveva in sintonia con quest’epoca, nei suoi impulsi e desideri, mentre io mi ero sempre sentito un uomo appartenente ad un’altra, un’era dove avrei potuto esprimermi ed essere libero, dove chissà quale sarebbe stato il rapporto tra me e Watson.
Soffocai un gemito in gola, continuando a suonare con impeto, senza interrompermi fino a non sentire più nessun suono, il rumore della vita di Londra fuori dalla finestra, il fuoco che scoppiettava… tutto svanì nella musica, compreso me stesso. Bramavo librarmi in quelle note, aprirmi ad essere onesto con il John Watson della mia mente, tenni gli occhi chiusi suonando ancora e ancora.
E fu così che iniziai a parlare, ad alta voce cosicché potessi udire io stesso la mia confessione oltre la melodia.
«Mi guardi mio caro Watson, osservi in quale stato miserevole io mi trovo, quanto patetico dovrò sembrarle, proprio io che più di ogni altro uomo venero la ragione, la logica, e il buon senso, io mi ritrovo a comportarmi come un folle in balia ad un’emanazione di Afrodite in persona. Mi guardi come impotente mi inginocchio al suo cospetto e vorrei poter mentire, ah come lo vorrei, che fosse soltanto una leggera fiamma che potrei spegnere con un soffio, e non un fuoco imponente che brucia i miei sensi ogni qualche volta mi è vicino. Mio John, è questo il segreto che cucito dovrà rimanere nelle mie labbra e che tu potrai udire soltanto qui nella mia mente, poiché non vi è altro modo, non c’è posto per noi in quest’epoca. Ti amo immensamente come non dovrei e totalmente come non potrei. Vorrei che restassi con me, non lasciarmi, non farlo. John, ah…come vorrei poter chiamare il tuo nome avvolto dall’estasi che sento soltanto nel guardarti, John...»
La musica andava attenuandosi quasi alla sua conclusione quando d’improvviso fui certo che più in solitudine non ero, e fui così assorto nella dichiarazione che stavo illegalmente professando, che me ne accorsi troppo tardi.  Terminai la prima parte della melodia Bach e tirai un sospiro aprendo gli occhi, il John Watson della mia mente, colui che negava il mio amore con uno sguardo ricco di compassione poiché non avrebbe rischiato la sua reputazione per un’attrazione, svanì e rimasi fermo per qualche istante nel danno che avevo causato.
Avevo paura a voltarmi, ed incontrare lo stesso sguardo di compassione nel mio amico, lo stesso scandalo… cosicché mi presi il mio tempo, sicuro che egli non avrebbe parlato poiché scosso da ciò che aveva udito. Mi accorsi di aver versato delle lacrime quando sentì le guance bagnate e le asciugai all’istante, cercando il più possibile di celare la mia tristezza, per quanto ero consapevole di ciò che avevo detto e che i segni di un pianto non si potevano di certo nascondere, non al mio Boswell.
Mi chiesi quanto di ciò che avevo espresso avesse davvero sentito e quando mi voltai incontrando il suo sguardo, capì che fosse lì da molto tempo, più di quanto avrebbe dovuto.
I suoi occhi avevano lo stesso riflesso che vidi quando ci scambiammo quell’intimo abbraccio, una luce così accecante che avrebbe potuto fuoriuscire da un istante all’altro, e le labbra che leggermente tremavano incapaci di esprimere un suono.
Era in stato di shock com’era comprensibile, ma non mi sarei aspettato altro che compassione e bontà nel suo volto poiché come detto, ero consapevole dell’attrazione che Watson provava per me, ma non di più e al contrario dei sentimenti che sempre sarebbero stati un inganno per la mia mente, le reazioni chimiche mi erano senz’altro più comprensibili e affini.
Ma non lessi attrazione quella sera, non vidi la negazione del mio amore che nella mia mente esso esponeva, non vi era ciò sul viso di John Watson. Quando fece un passo verso di me sospirando forte, vi fu ben altro nella sua postura ferma, nelle dita delle mani che continuava a muovere e nell’espressione, oh una mappa di emozioni: di sollievo, colpa, desiderio e rimpianto, e come scorreva il suo sguardo sul mio volto con disperata brama.
Il danno era dunque compiuto, e come potevo rimediare risparmiando al mio amico tutto ciò che avevo appena fatto?
«Holmes.»
Non avevo mai udito quel tono dalle sue labbra prima d’ora e fu ciò a spronarmi a voltargli le spalle, fu lì che mi chiesi se anch’egli potesse ricambiare con il stesso ardore il mio sentimento e avvertì il mio cuore battere con più forza nel petto a tale domanda. Ma fu anche una morsa dentro di me, non gli avrei mai augurato qualcosa di simile! E sarebbe stato oltremodo più complicato.
Sentì Watson fermarmi e non proferire ulteriore parola in attesa di me, e fu così che mi voltai nuovamente mostrando una indifferenza che non apparteneva di certo al mio essere in quell’istante, poggiai il violino a terra vicino alla finestra e diedi un’occhiata all’orologio sopra la mensola del camino che confermano i miei sospetti. Soltanto allora gli rivolsi i di nuovo la mia attenzione parlando prima che lo facesse lui di nuovo.
«Lei è tornato prima questa sera, di solito sosta più tempo con la sua fidanzata.»
Il tono atono della mia esclamazione, fu così in contrasto con la passionale dichiarazione d’amore che feci poco fa che sorpresi persino me stesso, Watson rimase immobile e per qualche secondo perso nei pensieri prima di rispondere.
Si concesse qualche attimo nell’osservarmi, e nella curva serrata che assunsero le sue labbra si poté intuire che mi stava concedendo la pietà che stavo chiedendo, non soffermandosi sulla cocente passione che così vergognosamente avevo espresso.
«Oh Holmes, sono io il più sciocco degli uomini! Mary ha la mia piena ammirazione e stima per l’incantevole donna dal gran cuore che è.»
Sbattei le palpebre e cominciai a pensare cosa mai potesse essere successo, ma lui riprese la parola prima che potessi proseguire oltre nel mio rimuginare.
«Mi dispiace aver causato sofferenza al suo animo, e non solo.»
Mi rivolse un’occhiata densa di significato che mi fece deglutire.
«La ragione per cui sono tornato prima questa sera è che non vi era motivo che rimanessi in sua compagnia, non ne ero più degno…»
«Watson, lei si sottovaluta come al suo solito, come può pensare…»
Lo interruppi sorpreso e affranto, per quanto non potei evitare la delusione che il discorso fosse passato su altrui pene d’amore, ma non era quello che volevo? Non era la cosa più logica da fare ignorare i miei deliri e concentrarci su qualcosa di più possibile?
«No Holmes, mi ascolti, la prego, deve farlo.»
Fu egli a riprendere la parola e il mio corpo si mosse in mantenente alla sua supplica, e al suo sguardo affranto, mi avvicinai a lui lo presi per le spalle, conducendolo alla sua poltrona e restando in piedi davanti a lui, non avendo la volontà di compiere ulteriori passi distanti.
«La ascolto.»
John Watson sospirò portandosi una mano al volto, si prese qualche attimo prima di parlare guardando il fuoco piuttosto che il mio volto, chiaramente a disagio.
«Erano parecchie settimane che la trovavo diversa, dispersa in qualche pensiero o tribolazione, in quanto suo fidanzato la cosa mi allarmò più del consueto ma lei fingeva sempre che non vi fosse nulla, fino a questa sera. È stata proprio Mary ad iniziare il discorso, mi disse che il nostro matrimonio non poteva più svolgersi, e io sconvolto la supplicai di parlarmi, le dissi che qualsiasi cosa fosse stata l’avrei sostenuta ma lei sorrideva con malinconia e mi disse ‘oh John, se solo potessi mettere a tacere questo mio dubbio, silenziare ciò che è chiaro alla mia mente, e seguire ciecamente il cuore ma non posso farlo.’ Allora mi ha guardato dicendo che era più che certa che il mio di cuore non fosse suo, non lo era mai stato.»
Mi paralizzai poiché lui non aveva celato sotto il tappeto ciò che avevo espresso con tanto ardore, ma era tutto connesso.
John Watson alzò lo sguardo al mio e sentì le mie membra  più calde, una trepidazione di emozioni: l’impulso di correre tra le sue braccia e l’istinto di conservazione di frenarmi, di fuggire, di interromperlo, di fermare il sangue che ribolliva dentro di me e la mia mente che ripensava e rimuginava sui nostri momenti condivisi. Su uno sguardo di troppo che avevamo condiviso, sulla dolcezza che spesso avevo trovato nel suo volto, sorrisi d’intesa e vicinanza spesso inopportuna. Non volevo guardare lo sguardo ricco della più alta adorazione che aveva in quel momento dinnanzi a me e così decisi di interrompere il contatto visivo, guardandomi attorno in preda alle più frastornanti sensazioni di paura e ansia. Mi sentì un completo imbecille alla realizzazione, proprio io che riconoscevo un architetto da un ingegnere dalla forma del pollice, mi ero sfatto sfuggire l’ovvio da sotto gli occhi. Ma come potevo pensare che un uomo così meraviglioso, dal cuore più grande e comprensivo al mondo, proprio colui che era l’uomo migliore che avessi mai conosciuto, potesse ricambiare tale sentimento?
«Avrei potuto negare e ci provai perfino, ma non potevo mentire, non a una donna tanto intelligente come Mary, non lo meritava e quando incontrai il suo sguardo capì di non poterlo fare. L’affetto sincero che provo per lei sarà sempre vivo ma non potevo amarla come desiderava, né come io credevo. E mi dispiace, mi dispiace così tanto… ma ora capisce, Holmes? Capisce perché sono stato un tale sciocco?»
Scattò in piedi d’improvviso animato di un energia e un fuoco che vedevo soltanto quando l’adrenalina di un caso lo avvolgeva, conoscevo quelle fiamme e mi inebriava sempre vederle.
«Pensavo che avesse dimenticato il piccolo momento che abbiamo vissuto, proprio qui, davanti a questo camino, io credevo che non le importasse, che non volesse più avere a che fare con simili inutilità per una mente logica come la sua… ma, lo vede? Non è lei quello patetico, sono io.»
«La smetta, la prego.»
Non potevo più udirlo incolparsi in quel modo, non quando era stato precisamente mio intento che pensasse proprio questo, e non dovevo ascoltarlo decantare tali speranze d’amore mettendolo così in pericolo. E fu così che in tale circostanza non potei far altro che indietreggiare davanti alla sua determinazione, distanziarmi dalla poltrona e da lui.
«Sherlock, non fuggire da me, non adesso te ne prego. Quello che ho sentito dalla tue stesse labbra è quello che voglio e che speravo ma che nemmeno osavo confessare a me stesso. Conosco la tua paura, ha frenato i miei intenti e i miei pensieri, ma ti supplico, non fuggire. Tu che hai il mio cuore e la mia anima, soltanto te che amo più di ogni mio respiro.»
John Watson fece qualche altro passo verso di me, gli occhi imploranti, il suo corpo che tremava mentre decantava ciò che poteva racchiudersi soltanto in un sogno. La confidenza con il quale ci stavamo parlando era inebriante e spaventosa allo stesso tempo, eppure gli risposi nello stesso modo.
«Taci, non sai cosa stai chiedendo. Non rammenti la legge inglese a tale circostanza? Non comprendi che è follia anche solo pensare di poter perdersi in una tale illusione? Non posso permetterlo, io non…»
La voce mi morì in gola e ne fuoriuscì un gemito strozzato mentre indietreggiai di nuovo di qualche passo, vidi una smorfia di dolore attraversargli il volto e poi strinse i pugni con forza, le sopracciglia crucciate, il viso duro e irremovibile.
«Quante volte ho infranto la legge per assecondarti? Quante volte non me ne davvero importato? Perché dovrebbe ora quando chiedo soltanto di seguire quello che sentiamo?»
«John, non vuoi…»
Lui mi guardò di nuovo con un tale e prepotente desiderio da farmi tremare, e Watson sembrò accorgersi della mia reazione, ragione per cui non tentò nuovamente di avvicinarsi a me ma piuttosto si fermò, spostando lo sguardo altrove nella stanza e deglutendo più volte.
«È quello che voglio Sherlock, più di qualsiasi altra cosa ed è ciò che più importa, mi offro a te, se vorrai , oh se solo tu vorrai. Terrò le tue mani e le bacerò, bacerò il tuo volto, e ti stringerò tra le mie braccia ogni volta che tu lo desidererai, non ti lascerò mai più andare e nulla si metterà tra noi. È una follia, oh sì lo è, ma io ti amo con tutto me stesso e non voglio più nasconderlo, non a te. Mostrati a me Sherlock, mostrami l’uomo che decantava amore con tale ardore di qualche attimo prima e non avere paura,  io sono qui con te, sono qui e ti ascolto. Voglio che tu mi chiami con amore come hai dichiarato di voler fare, fallo mio amato, e niente al mondo potrà separarmi da te.»
Si inginocchiò prostrato da quelle parole e incontrò il mio sguardo, una lacrima che solcava il suo volto carico di tutto quell’amore che accecava i sensi e la ragione, e io non potei fare a meno che ascoltarlo e guardarlo immobile, incapace di fare qualsiasi cosa.
«Questo ti offro se tu lo vorrai, ma non farò un altro passo se tu non lo desideri, rimarrò qui ad attendere proprio così e aspetterò il tuo permesso, una tua parola Sherlock, soltanto una tua parola.»
Avrei desiderato poter vivere la scena che avevo dinnanzi all’infuori di me, come uno spettatore qualunque ad uno spettacolo teatrale, magari persino irrompere in un mesto sorriso all’assurdità della situazione.
Ma ero io quello che lo stava vivendo, che aveva l’uomo che amava più di qualsiasi cosa, prostrato davanti a lui, con gli occhi umidi ancora bagnati d’emozione mentre lo fissavo immobile, riuscendo a malapena a trarre un respiro con il mio petto si contorceva, ed il sangue che con ferocia galoppava come il mio cuore.
Ogni cellula del mio corpo gridava di correre da lui, far sì che si alzasse perché non esisteva che John Watson fosse inginocchiato davanti a me, quando ero io quello che doveva farlo, implorando il suo perdono per il dolore che gli avevo causato, che gli stavo ancora causando e per la condanna che condivideva con me.
Ma ero bensì certo che se avessi chiesto a Watson di alzarsi non lo avrebbe fatto, lo potevo leggere nel suo essere, in ogni microespressione del suo volto, nella fermezza della sua posa e nella sua mano protesa verso di me, sotto quell’ardore bruciava il fuoco della determinazione e del coraggio.
Il mio John era così coraggioso, follemente coraggioso.
Ma io cosa potevo dargli in cambio? Come avrebbe mai potuto risplendere di felicità, mostrare la passione che dominava in lui, se avremmo sempre dovuto celare il nostro affetto? Guardarci le spalle ad ogni sguardo di troppo e sospiro condiviso?
Era questo che volevo davvero? Che patisse in silenzio una felicità che non avrebbe potuto assaporare? Non ne avevo il diritto, ed ogni cosa, qualsiasi cosa era sacrificabile per la sua felicità.
Fu così che deglutendo i miei sentimenti, le mie fragilità e ogni pensiero di folle passione che prendeva il mio essere, sospirai e abbassai lo sguardo afflitto, lasciando scivolare sul volto le lacrime che avevo così strettamente trattenuto fino a quel momento.
Sentì Watson sospirare, vidi con la coda dell’occhio la sua mano ritrarsi e il suo corpo alzarsi facendo qualche passo verso il camino, esitante lo sentì schiarirsi la gola più volte e poi lo vidi dirigersi verso la porta dell’appartamento.
«Lei è l’uomo più intelligente che conosca e dunque per tale ragione, non esternerò più quanto è successo, né farò più accenno alle sue parole dense d’ardore. Non la disturberò più.»
Il suo tono era fermo, così distante dall’uomo passionale che poco fa era inginocchiato dinnanzi a me, alzai lo sguardo con fatica e sbattei le palpebre alle ciglia umide di lacrime. Era la scelta più logica, la più saggia, eppure il pensiero non mi dava nessun tipo di conforto, ma piuttosto sentì la solitudine avviluppare le mie membra, io che rifiutato colui che più di ogni altro desideravo, per quanto non avevo altra scelta.
E vederlo voltato di spalle pronto ad andarsene, una figura afflitta quanto me, devastato nell’essere come si sentiva il sottoscritto, e con gli artigli della solitudine che stringevano il mio collo mi fece tremare. La fiammella della ragione sembrava annebbiata da qualcosa di così potente, così estremamente irremovibile, da scuotere ogni essere umano, da spingerlo a commettere le follie più assurde.
«John.»
Watson si fermò e voltò a mezzo il volto verso di me.
«John!»
Lo chiamai con tono più implorante, mentre altre lacrime bagnavano il mio volto senza vergogna e senza sosta, a quel punto lui si voltò e il suo viso si illuminò di un calore accecante quando mi vide. Presi a camminargli in contro e lui fece lo stesso così in brevi attimi fummo di nuovo vicini.
John Watson mi prese le mani tra le sue e bastò quel semplice contatto ad animare ogni parte di me, ad accendere il calore nel mio corpo più del camino di fianco a noi. Mi guardava con estrema tenerezza e io mi persi in quegli occhi azzurri dalla forza catturante del mare.
«Io ti amo, John, ti amo come solo un folle potrebbe fare per l’epoca in cui ci troviamo, Ah! Che pazzia stiamo commettendo! E mi dispiace doverti donare tale amore senza sicurezze, senza che tu possa viverlo davvero liberamente, come saresti propenso a fare.»
Lui mi sorrise con dolcezza e baciò le mani una e più volte, rendendo il mio sguardo ancora più annacquato.
«Il mio Sherlock, come potrei non volermi arrendere e gettare in qualsiasi corrente tu sarai! Condivido le tue paure, ma combatteremo insieme, è questo che voglio, è te che desidero nel mio animo e nel mio cuore. Io non ti lascerò solo, non affronterai più ciò in solitudine, mai più amore mio, mai più, te lo prometto.»
Con dolcezza avvicinò il suo volto al mio, e con le labbra baciò le mie lacrime, mentre io chiudevo gli occhi in balia delle sensazioni, godendone ogni istante e ogni attimo.
«Queste lacrime non bagneranno più il tuo volto se non per incontenibile gioia, questo tu meriti e questo mi impegnerò a darti. Io vivo l’amore Sherlock, lo vivo dal primo momento che mi sono reso conto di amarti e mi basta starti affianco e guardarti.»
Sussurrò l’intera frase sul mio volto e nelle mie mani che prese nuovamente a baciare, per poi incontrare il mio sguardo e oh, quegli occhi, se avessi avuto ancora dei rimasugli di incertezza sarebbero svaniti sotto quello sguardo devoto e ardente.
«Dimmi soltanto che tu mio Sherlock, ne sei sicuro, dillo di nuovo che è questo che vuoi. Dimmelo ancora.»
Le mie mani presero ad accarezzare il suo volto una e più volte, John Watson chiuse gli occhi beandosi di quelle carezze, sospirando come io stesso facevo ad ogni suo tocco. Poggiai poi la fronte sulla sua e posai un piccolo bacio.
«Sì John, lo voglio.»
E così lo avvolsi braccia con insistenza, lo abbracciai come volessi tenerlo sempre con me.
«Bramo stare con te più di quanto posso esprimere a parole.»
Lui sorrise, cominciando a scorrere il mio volto con insistenza e soffermando i suoi begli occhi sulle mie labbra. Le sue pupille si dilatarono ulteriormente facendomi vibrare lo stesso desiderio che dominava il suo essere, avvertì un tenue rossore sulle mie gote in un dubbio e decisi di comunicarglierlo.
«Voglio che tu sappia che è da molto tempo, anni per essere corretti, che non bacio qualcuno, l’ultimo e unico fu il mio compagno di università Victor Trevor, ti parlai di lui come mio unico amico prima di te ebbene le nostre effusioni furono più di questo anche se per lo più puritane e innocenti, dunque non mi vedrai esperto in quest’arte, dunque già da ora, uhm, vorrei scusarmi se non…»
Ma lui bloccò il mio discorso mettendomi un dito sulle labbra e poco dopo i nostri volti si avvicinarono ulteriormente, e John Watson portò le mani sul mio volto, deglutì e avvertì dell’ansia oltre che l’eccitazione e l’aspettativa.
«John.»
Il mio tono suonò sconosciuto persino alle mie orecchie ma lo chiamai come avevo sempre desiderato, come poco fa avevo espresso di voler fare… perciò non ci badai, non quando avevo il mio Watson così vicino a me e che voleva baciarmi, tantomeno quando un piccolo sorriso prese le sue labbra prima che le poggiasse sulle mie.
E oh, come potrei mai descrivere l’immensità che provai? I brividi d’estasi che invasero il mio corpo? In effetti non lo farò, nemmeno su questa carta poiché non troverei le parole per esprimere e la banalità di ciò che potrei dire sarebbe senz’altro troppa da sopportare.
Ciò che posso dire è come la mia mente si disperse in un solo nome:
John. John. John.
Mi baciò candidamente all’inizio, con tutta la dolcezza che potevo leggere in lui ogni giorno nei miei riguardi, ma presto esso fu avviluppato dalla passione e brama d’anni di silenzi e restrizioni, quando con braccia tremanti avvolsi il suo corpo, abbandonandomi a lui ed a noi. Mi fuoriuscì un gemito mentre carezzavo il suo volto chiedendo di più, e lui mi accontentò trasformando quel bacio nell’incendio che bruciò ogni parte di me.
Ci avvinghiammo stretti in un abbraccio appassionato continuando a baciarci per vari attimi finché per riprendere fiato, ci sedemmo dinnanzi al camino, non lasciandoci nemmeno un istante e piuttosto continuando a stringerci e scambiarci effusioni. Watson mi sussurrava parole di passione all’ orecchio, dinnanzi al fuoco che pian piano si stava affievolendo, ma il tempo non importava, nulla aveva importanza in quell’istante e nei successivi attivi che avrei passato con lui, se non essere tra le braccia e libero con colui che meglio mi conosceva al mondo.
L’unico che poteva vedere il volto emotivo di Sherlock Holmes, l’unico che poteva vedere oltre la maschera.
L’unico uomo che amo e sempre amerò.

*Il brano che Sherlock suona


Angolo Autrice:
Ciao a tuttə
È da un po’ che voglio scrivere un racconto di victorian Sherlock Holmes e dei victorian Johnlock e finalmente eccolo qui! L’ho concluso editing compreso, proprio nel periodo in cui Sherlock è libero dai diritti e ne colgo l’occasione per fargli di nuovo gli auguri!
Ed eccolo qui dunque uno Sherlock più emotivo e innamorato, che non nasconde a se stesso il profondo amore che sente per il suo John.
È un racconto che vedo molto intimo sia per Sherlock che per me😊
La canzone che ha dato nome anche al titolo, ha accompagnato la stesura di questo racconto e per quanto non di possibile ascolto nell’epoca vittoriana come il brano di Bach che Holmes suona, penso ci stia eccome come testo 😊
Grazie a chiunque leggerà e/o commenterà 😊

 
   
 
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