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Autore: Dorabella27    10/01/2023    7 recensioni
Torno al mio grande amore, a una delle famiglie più complicate, e ramificate, della storia: la gens Giulio-Claudia. E ho scelto un avvenimento molto particolare, nell'anno 12 a. C: la morte di Agrippa, che addolorò enormemente Augusto, e che portò a conseguenze dolorose per due membri della sua famiglia ...
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
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Una proposta da non rifiutare
 
Anno 741 ab Urbe condita
 
1 - Era stato un lutto freddo, in famiglia se ne erano resi conto tutti, quello per Agrippa.
E tutti avevano compreso quanto questa freddezza nel cordoglio dei   Quiriti avesse addolorato il princeps. Non se ne capacitava davvero, Augusto, che il suo amico e collaboratore di una vita, quello, che, solo e unico, egli aveva chiamato collega imperii mei, il vero artefice delle vittorie Nauloco e Azio (ma questo Augusto non l’avrebbe mai ammesso con anima viva), non avesse lasciato nella plebe di Roma un rimpianto pungente. Augusto in persona aveva pronunciato l’orazione funebre, nel corso della magnifica cerimonia, ed era stato evidente come la sua voce fosse rotta dalla commozione. Una commozione che pochi altri condividevano.
Giulia, durante le esequie del marito, e durante il recupero delle ceneri e dei frammenti di ossa di Agrippa, una volta spente le ultime braci del rogo funebre, nel corso della deprimente cerimonia dell’ossilegium, perché i suoi resti mortali venissero riposti in un’urna preziosa che avrebbe sfidato i secoli nel Mausoleo di Augusto, non aveva pensato ad altro che al momento in cui sarebbe tornata alle sue stanze.
Non era stato un cattivo marito, Agrippa, nonostante la differenza di età – oltre vent’anni - e di carattere con la giovane moglie. E lei gli era stata, a suo modo, affezionata. Ma l’amore, quello, era sempre stato tutto e solo per Iullo, il figlio di Antonio e Fulvia, cresciuto insieme a lei, in quella strana famiglia imbastita da Ottaviano, piena dei figli orfani dei suoi nemici, e da Tiberio e Druso, i figli di Livia, la sua inseparabile moglie e consigliera. A Iullo solo da poco suo padre, dopo lunghe riflessioni, aveva consentito di avviarsi alla carriera politica, e la pretura che egli aveva rivestito con onore l’anno prima aveva reso Giulia fiera e orgogliosa per le capacità che il suo amato aveva finalmente potuto dimostrare.
Giulia non avrebbe mai potuto sposare Iullo, lo sapeva bene: né, in fondo, le importava.
Anche Iullo era sposato.
Ma era sufficiente il pensiero che ora, una volta garantita una discendenza e dei nipoti al padre, avrebbe potuto restare vedova, senza l’assillo di dover generare un figlio maschio. E chissà, anche quello che aspettava e che sarebbe nato di lì a poche settimane, che non avrebbe mai conosciuto il padre, ma che si sarebbe fregiato del prestigio di essere nipote di Augusto e discendente del Divo Cesare, avrebbe potuto essere un maschio. Sì, ormai era sicura di poter vivere la sua vedovanza nella tranquillità, senza ritrovarsi fra i piedi un marito sgradito come l’imbelle Marcello, o come Agrippa, di cui avrebbe volentieri fatto a meno e che aveva sposato per obbedienza, per il puntiglio, se avesse avuto figli, come era stato, di surclassare Livia nel cuore del padre.
Anni prima, per Roma era circolata, fra le risate, la sua risposta maliziosa alla domanda audace che, nel corso di un banchetto, un convitato particolarmente brillo le aveva posto: come, nonostante l’indole vivace che tutti le riconoscevano, aveva sempre potuto essere sicura della paternità dei suoi figli? Lei, svuotando la sua coppa, aveva risposto, maliziosa, che la sua nave non attraccava mai a un nuovo porto, se non c’era già a bordo un passeggero.
La battuta, ne era certa, aveva fatto, sotto sotto, sorridere anche suo padre, alla quale la legava un profondo affetto. Tuttavia, esso era venuto meno una volta, soltanto una: quando Tiberio aveva fatto la spia – erano bambini, all’epoca – e aveva riferito al precettore, tramite il quale il gran segreto era giunto sino a Ottaviano, che Giulia e Iullo giocavano, quando erano liberi dalle noiose ore di studio, a interpretare Cleopatra e Antonio nella riproposizione infantile della battaglia di Azio, dalla quale la flotta egiziana usciva inopinatamente vincitrice.
Che cipiglio aveva montato suo padre!
Era stata, allora, sinceramente dispiaciuta per il dolore che gli aveva arrecato; e ancor più vivamente sdegnata per l’azione di Tiberio, con cui non c’era mai stata simpatia, e che, anzi, dal quel momento in poi, Giulia aveva iniziato a odiare cordialmente. E a nulla erano valsi, negli anni, a mitigare il suo disprezzo, il coraggio e le vittorie militari raccolte dal primogenito di Livia, la sua eloquenza di finissima marca, il suo fisico scultoreo, possente e ben allenato  - Giulia aveva da sempre un debole, a tutti noto, per la prestanza virile -, la sua innegabile cultura: per lei Tiberio restava lo spocchioso esponente di una gens, i Claudii, ormai in decadenza, un ipocrita che viveva abbarbicato alle glorie passato, e una spia della peggior specie, perennemente insoddisfatto e pertanto invidioso di chi, in quella grande domus sul Palatino, continuamente sottoposta a rimaneggiamenti e ristrutturazioni, aveva trovato un angolo di insospettata felicità.
Entrò nella sua stanza, ansiosa di togliersi l’apparato del lutto e di raggiungere Iullo, per farsi stringere in un abbraccio di cui sentiva di aver bisogno come dell’aria che respirava.
 Si bloccò sulla soglia: il padre la attendeva, leggendo con aria apparentemente composta, un volumen, seduto alla sua piccola, elegante scrivania.
“Padre!”, esclamò lei.
“Figlia mia!”, disse Augusto, levandosi, andando verso di lei e avvolgendola in un abbraccio delicato, quasi cauteloso. “Come ti senti?”
“Benissimo … cioè, benissimo quanto al corpo. Nell’animo, molto provata”, rispose lei, come annaspando.
Augusto mise il braccio di lei sotto il suo.
“È tardi per una passeggiata nel giardino?”.
La domanda era una proposta che non si poteva rifiutare. Giulia sorrise debolmente: “No, certo che no, caro padre”.
Al rientro nella sua stanza, il volto di Giulia era rigato da lacrime che le scorrevano silenziosamente lungo le guance. Ancora una volta, Livia aveva vinto.
 
2 -“Mi hai fatto chiamare, madre?”
“Vieni, vieni!”, rispose Livia, senza alzare lo sguardo dal lavoro di filatura. Quanto detestava, Tiberio, quell’ostentazione di virtù del buon tempo andato! Domum servavit, lanam fecit, pensò, beffardo; ma quanto altro aveva fatto sua madre, di quante strategie politiche era stata consigliera audace, quali trame aveva ordito dietro quell’aria da proba matrona intenta solo a custodire la casa, a filare, a tessere, a vegliare sulla famiglia e a sovrintendere ai lavori delle ancelle?
Tiberio si avvicinò alla madre. Livia, con un solo sguardo, senza una parola, fece alzare le ancelle, che, con un inchino reverente, si allontanavano e uscivano dalla stanza con passo leggero e frettoloso.
Madre e figlio restarono così: Livia concentrata sull’aspo, gli occhi, che da qualche tempo iniziavano a non vedere più molto bene da vicino, strizzati per meglio vedere il filo, e Tiberio, in piedi, a disagio, come sempre, di fronte all’imperscrutabilità di lei.
“Ti ho fatto chiamare”.
“Così è”.
“Per una questione importante, Tiberio, molto importante”.
“Naturalmente”.
O forse, pensò Tiberio in un sussulto di consapevolezza, era disagio quello che la sua ineffabile madre, un autentico Ulisse stolatus, provava e che adesso  cercava di nascondere, distogliendo deliberatamente il suo sguardo dal volto del figlio?
“Si tratta dei progetti del princeps”, proferì in tono solenne Livia. Una breve pausa. “E del tuo futuro”.
Una campagna militare, dunque?, pensò Tiberio. Era un valido, anzi, un ottimo generale, tutti lo sapevano; anche Augusto, il quale, tuttavia, sembrava frenato, nelle sue manifestazioni di apprezzamento, stima, finanche affetto, dal carattere difficile, chiuso e orgoglioso del primogenito della moglie.
“Del tuo matrimonio”, sputò Livia, sempre senza alzare gli occhi su Tiberio. Un brivido passò per la schiena di lui.
“Sono già sposato”, sussurrò, sentendosi cedere le ginocchia. Come era possibile che, dopo anni passati studiare per padroneggiare la retorica, sotto la guida dei più validi maestri del suo tempo, e nonostante la sua meritata fama di consumato oratore, Tiberio si sentisse così debole e sguarnito, quasi incapace di parlare, davanti a sua madre?
“Sposato? Non più”, rispose lei, levando gli occhi sul figlio. Le pupille di Livia, laghi scuri nel volto appena solcato dalle rughe, ma che non aveva ancora perso la delicata bellezza che aveva sedotto Ottaviano, quasi trent’anni prima, si fissarono in quelle del figlio.
Poi, solo una parola: “Giulia”.
“Mai!”, scoccò lui. “Non posso, lo sai!”.
Giulia era cresciuta con lui, e sempre si erano guardati con indifferenza mista a disprezzo: lei, la figlia del princeps, cresciuta senza madre, giacché Scribonia, il giorno stesso della sua nascita era stata ripudiata dal marito per la sua “insostenibile e vergognosa perversità”, così recitava l’atto di divorzio. Ma nella domus del padre subito dopo era entrata Livia, che guardava alla figlia del coniuge ora con fastidio, come si guarderebbe una estranea capitata per caso a occupare uno spazio che avrebbe potuto essere meglio destinato, oppure come a una potenziale risorsa per procurare ai suoi figli, soprattutto al primogenito, nelle cui vene scorreva il sangue nobilissimo dei Claudii, quella posizione cui lei, Livia, aveva sempre anelato.
Quando era morto Marcello, il cugino di Giulia, fattole sposare in fretta e furia e deceduto per una brutta affezione ai polmoni a poco più di vent'anni, Tiberio aveva tremato, sapendola vedova e pronta per un nuovo legame matrimoniale; ma poi, il marito che era stato procurato a Giulia, Agrippa, un uomo più vecchio di lei, ma robusto e forte, pieno di energie e di progetti, era stata la garanzia di un matrimonio duraturo e ricco di eredi, che erano nati, in effetti, con impeccabile regolarità: Agrippina, Gaio e Lucio Cesare, la piccola Giulia, detta Iuliola, e l’ultimogenito, che sarebbe venuto al mondo due mesi dopo la morte del padre, e che, se fosse stato un maschio, sarebbe stato chiamato, con ogni probabilità, Agrippa Postumo.
Per molti anni Tiberio aveva pensato che quella bolla felice di concordia e pace familiare che aveva trovato con la moglie Vipsania, figlia di Agrippa e della sua prima consorte, sarebbe durata in eterno: avevano un figlio, Druso, chiamato come l’amatissimo fratello di Tiberio, e presto ne sarebbe nato un secondo. Vipsania era gentile, mite, tenera d’animo, arrendevole, ma non debole di carattere, con quel marito ombroso e tetro, che sembrava tenere tutti a distanza e che tutti guardavano con un misto di reverenza e timore per l’innata alterigia dei Claudii che portava scritta sul volto.
 
“Sì che puoi. E devi”, lo corresse Livia.
Tiberio si riscosse dai pensieri in cui era piombato
“Ma Vipsania aspetta un bambino!”, fu la sua debole resistenza.
“Non è un problema”, rispose, noncurante, Livia, tornando a posare gli occhi sull’aspo.-
“Oh, lo so bene!”, rincarò, amaro, Tiberio. Livia alzò di scatto gli occhi sul figlio, con espressione adirata ed esterrefatta per cotanta audacia.
“Dunque qualcosa ti tocca ancora, vecchia serpe!”, pensò Tiberio, quasi con feroce soddisfazione, come se quella battuta mordace fosse la garanzia di una vittoria in una battaglia che, lo aveva capito subito, era persa in partenza.
“Tuo padre riceverà un grande dolore da questo tuo comportamento”, asserì lei, tranquilla, una volta ripreso il dominio di sé di sempre-
“Sì, mio padre ha ricevuto un grande dolore anche dal tuo comportamento”
“Non essere polemico, Tiberio. Sai che il priceps ti ama teneramente”!
“Se mai me ne fossi accorto, ora questa sua idea smentirebbe la mia impressione”.
“Insomma”, concluse Livia guardando il figlio con severità, “tu sposerai Giulia, e ne avrai un erede. Questo sarà molto conveniente anche perché devi consolidare la tua posizione in questa famiglia”.
“Sarà utile per me o per te?!”, chiese Tiberio, esasperato. “Quanto potrebbe essere prestigioso per te essere la nonna del successore di Augusto, e non solo la matrigna di sua madre?”. Ma Livia non disse più una parola, concentrata com’era, almeno apparentemente, sul suo lavoro.
Tiberio avrebbe voluto scuoterla, urlare, opporsi con tutte le sue forze. Ma sapeva che non sarebbe cambiato nulla. Che avrebbe ceduto, come sempre.
Le volse le spalle e uscì, sentendosi addosso tutto il peso dell’ecumene augustea, che lui stesso aveva contribuito a consolidare.
 
3 -  Era stata una splendida cerimonia: solenne, fastosa, ma elegante, dipanatasi sotto gli occhi di decine di spettatori cupidi, che poterono ammirare l’espressione nobilmente composta della sposa, e quella contegnosa e fredda, sul volto dai bei tratti regolari, dello sposo.
Nel frattempo, sul Palatino, Agrippa Postumo, un bambino sano e forte di ormai sei mesi, sotto gli occhi della balia, una robusta ragazza originaria della Cilicia, sgambettava felice nella culla, inconsapevole dei malumori che attraversavano come lampi forieri di tempesta l’animo della madre, inquieto sotto il viso dai tratti belli e impenetrabili. E intanto, più lontano, in una villa nella campagna attorno a Formia, Vipsania, reggendo fra le braccia il secondogenito, di poche settimane maggiore del figlioletto di Giulia, immaginava, camminando al fianco del nuovo marito Asinio Gallo-  un patrizio di antica nobiltà, cui non era parso vero di poter diventare quasi parente princeps - le tappe del rito, il cuore gonfio di pena per Tiberio, più che per sé stessa. Era stata allontanata da Roma, per non creare turbamento in Tiberio, lo sapeva bene, dopo che Livia aveva notato come, quand’egli la vedeva, anche da lontano, gli si riempissero gli occhi di lacrime; né la presenza del loro figlioletto Druso, rimasto a vivere col padre, poteva lenire il dolore di quell’uomo solo apparentemente estraneo ai sentimenti e al calore degli affetti.
Dopo la cerimonia e il banchetto, Giulia e Tiberio si trovarono faccia a faccia nella loro camera nuziale.
“Adesso sarete soddisfatti”, disse, amara, la novella sposa, mettendo mano alla complicata acconciatura che rialzava la sua statura di oltre un palmo, intenzionata a disfare con gesti nervosi quell’architettura di capelli e di crini posticci.
“Soddisfatto, io?!”, chiese Tiberio, scoraggiato.
“Certamente. Ora tu e tua madre avete raggiunto il vostro scopo”.
“Io non avevo nessuno scopo. Comunque non temere …”
“Temere? Che cosa avrei da temere?! Tutti quelli che amano me, odiano te!”, sibilò lei.
“Per esempio?”, chiese, tagliente, Tiberio.
“Per esempio mio padre!”, sbottò Giulia.
“Ah! Certo! E questo matrimonio?”
“È solo una decisione politica, un contentino a Livia. Mio padre mi adora!”, dichiarò, con sicurezza, Giulia.
“Ti adora?! Ma se ti venderebbe per acquistare una collana a Livia”, la derise Tiberio, cui, per la prima volta  - se ne rese conto mentre parlava - era venuto spontaneo chiamare la madre per nome.
“In ogni caso”, concluse Giulia, “non siamo obbligati a vivere come marito e moglie!”.
E per quella sera non vi furono altre parole.
 
L’Autrice ai lettori.
Torno anche io sulla famiglia allargata più interessante della storia antica, la gens Giulio-Claudia; il momento che mi ha sempre incuriosito, e intristito, è l’anno 12 a. C.: morto Agrippa, grande generale e braccio destro di Augusto, la figlia, Giulia, unica figlia naturale del princeps, in precedenza già vedova del giovane cugino Marcello (figlio di Ottavia, sorella di Ottaviano), e madre di vari figli, fra i quali Gaio e Lucio Cesare, che il nonno avrebbe adottato e scelto come eredi, venne fatta sposare a Tiberio. Questi, valoroso e abile generale  - se Augusto avesse scelto lui e non Varo per le operazioni militari in Germania, forse Roma si sarebbe risparmiata il disastro e il disonore di Teutoburgo – era il figlio primogenito di Livia, la seconda, onnipresente e onnipotente moglie di Augusto, colei che egli sposò, incinta del secondo figlio, il futuro Druso Maggiore, del marito Tiberio Claudio Nerone. I pettegolezzi fioccarono: addirittura, Svetonio riportava la battuta che circolava a Roma, secondo la quale ai mortali i figli nascono in dieci mesi (la gravidanza romana era conteggiata sui mesi lunari), ma agli dèi in tre. In effetti, molti sospettarono che Druso fosse in verità il figlio naturale del princeps. Come che sia, Tiberio fu sempre penalizzato dal suo carattere chiuso, introverso, orgoglioso; Augusto stesso lo adottò solo nel 4 d. C. Il matrimonio con Giulia, donna vivace, mondana ed esuberante, rimasta vedova di Agrippa, fu un disastro: i due erano troppo diversi, per inclinazione e temperamento, e si odiavano anzi cordialmente fin dall’infanzia, dato che erano cresciuti insieme. La casa del princeps sul Palatino era infatti una sorta di orfanotrofio, o di anticipazione delle famiglie allargate contemporanee: oltre a Giulia – dalla cui madre, Scribonia, Ottaviano aveva divorziato il giorno stesso della nascita della figlia, e Tiberio e Druso, figli di Livia, in essa crebbero Iullo Antonio, figlio di Marco Antonio e di Fulvia (già moglie e vedova del tribuno della plebe Clodio, il fratello della Lesbia catulliana, il politico intrigante, per intenderci, per il cui omicidio Cicerone difese senza successo Milone nel 52 a. C.). Inoltre, nella grande casa di Augusto sul Palatino furono educati gli altri figli di Antonio, fra i quali i gemelli avuti da Cleopatra, Alessandro Helios e Cleopatra Selene, futura regina di Mauritania e consorte di Giuba II. Per sposare Giulia, Tiberio venne costretto a divorziare dalla moglie Vipsania, che amava teneramente – tanto da non riuscire, dicono le fonti, a trattenere le lacrime quando la vedeva da lontano -, da cui aveva avuto un figlio, Druso, e che era incinta del secondogenito, mentre anche Giulia attendeva l’ultimo figlio di Agrippa. Questo, nato dopo la morte del padre, verrà chiamato Agrippa Postumo e verrà esiliato a Sorrento, venendo fatto uccidere nel 14 d. C., subito dopo il decesso del nonno, che si era, poco prima di morire, riconciliato con il nipote, in un viaggio che avrebbe dovuto rimanere segreto, ma la cui eco giunse alle orecchie della implacabile Livia. Costei, che Caligola definirà un “Ulisse in gonnella”, ovvero “Ulixes stolatus”, per tutta la vita brigò per fare ottenere al primogenito la successione al trono. Tiberio, succeduto ad Augusto, concesse alla madre l’onore del titolo di Augusta, ma cercò sempre di evitare di incontrarsi in privato con lei. Il carattere ombroso di Tiberio, che tante critiche gli ha procurato, unitamente a un trattamento crudele da parte di Tacito, grazie al quale è diventato il prototipo del tiranno ipocrita e crudele, non dovette certo migliorare con il matrimonio con Giulia: i due ebbero un figlioletto, nato forse prematuro e morto poco dopo la nascita ad Aquileia, e poi Tiberio si allontanò per circa sette anni, con il pretesto di andare a perfezionare lo studio della retorica a Rodi, centro assai rinomato nell’antichità. Da laggiù si trovò divorziato d’ordinanza, dopo la caduta in disgrazia di Giulia, ufficialmente per adulterio  - ma Lorenzo Braccesi, nella sua biografia della figlia di Augusto, adombra una motivazione ben diversa: una congiura, ordita con l’innamorato di sempre, Iullo Antonio.
La battuta spiritosa che attribuisco a Giulia è realmente riportata dalle fonti storiche; l’espressione “ecumene augustea” viene dal titolo un bellissimo saggio di G. Cresci Marrone (Roma, 1993), imprescindibile per chi si occupa di questo periodo storico; quanto al resto, in queste pagine trovate un po’ di Hamlet, un po’ della Regina Margot di Dumas (e del film di Chéreau, che, se non lo conoscete, vi consiglio di recuperare), e tanta fantasia.
Una vicenda dolorosa, quella di Tiberio e della sua storia familiare, che ci ricorda come la ragion di stato sia un padrone crudele, e che, spesso, chi si trova a occupare posizioni di grande prestigio, non ha nessuna libertà.
 
 
 
 
 
 
   
 
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