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Autore: Melisanna    11/01/2023    3 recensioni
Il sentiero sporgeva su un costone che precipitava ripido per oltre cinquecento metri. Alberto si attardò a guardare il paesaggio. Lo sguardo correva libero attraverso tutto il fondovalle, sopra la Dora e fino a Saint-Barthelemy, oltre scorgeva la punta del Grand Combin, a sinistra, in lontananza, les Grandes Jorasses e, infine, ancora più a sinistra, si innalzava in tutta la sua possanza la catena del Monte Bianco.
Era una delle viste che Alberto preferiva di tutta la Valle.
– Che fai? Ammiri Sua Maestà?
Ivan, poco più avanti, si era fermato per aspettarlo.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia è stata scritta per la challenge What's in the Stocking proposta dalla pagina Facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom per Noa Colore, usando il prompt da lei proposto: “Era una bella mattina di fine novembre. Nella notte aveva nevicato un poco, ma il terreno era coperto di un velo fresco non più alto di tre dita. Al buio, subito dopo laudi, avevamo ascoltato la messa in un villaggio a valle. Poi ci eravamo messi in viaggio verso le montagne, allo spuntar del sole.” - Il nome della rosa

Quando ho cominciato a buttare giù questa storia ho scoperto che queste parole aspettavano solo di venire scritte, anche se mi sono costate molta fatica e molto dolore. E' una storia che che parla delle mie montagne e di persone che amo, anche se Ivan e Alberto sono personaggi inventati. Spero possa piacervi.

 

Ritorno a Les Laures


 
Era partito quando l’alba iniziava appena a ritagliare di luce i profili delle montagne contro il cielo scuro. Adesso i ghiacciai del Rosa si imporporavano, mentre il l’azzurro e l’oro avevano occupato il posto del nero nel cielo notturno. L’aria era fresca, odorosa di conifere e terra umida. I primi trilli degli uccelli infrangevano il silenzio.

Parcheggiò la macchina a una curva della strada, in una piazzola ricoperta di aghi di pino. Aperta la portiera si mise a sedere di traverso sul sedile e scambiò i mocassini usurati con i solidi scarponi arancioni. Mentre intrecciava i lacci intorno al collo del piede, Ivan, che non dovendo guidare si era fatto trovare sotto casa con già gli scarponi indosso, lo guardava, in piedi accanto alla portiera.

– Stai stringendo troppo – commentò col suo accento duro e chiuso, che Alberto aveva imparato a trovare musicale e familiare – lasciali un po’ più lenti o stasera sarai indolenzito. Così – infilò un dito bruno e calloso dietro la linguetta dei suoi scarponi di cuoio. – Vedi? Devi esserci un po’ di gioco.

Annuì – Lo so, me lo hai detto mille volte.

– Eppure non impari mai, com’è possibile? Non ho mai avuto un allievo altrettanto testone – la voce di Ivan era severa come sempre, ma Alberto era sicuro che se avesse alzato lo sguardo, avrebbe scorto una scintilla di risata nei suoi occhi azzurri. In tanti anni, aveva imparato a riconoscere i suoi scherzi, sotto la scorza di cui li avvolgeva.

– È che mi diverto a fartelo ripetere – ribatté allentando i lacci e legandoli con un nodo di sicurezza. Allacciò anche l’altro e si alzò in piedi. – Prendo i bastoncini. Ne vuoi un paio?

Ivan indicò con un cenno della testa il bastone di legno appoggiato contro il fianco della macchina – Sono a posto così.

Alberto aprì il bagagliaio, indossò un altro pile sopra quello che aveva già indosso e la giacca a vento, si mise lo zaino sulle spalle e afferrò i bastoncini.

– Allora, hai finito con tutti i preparativi o no?

Alberto si infilò gli occhiali scuri e si sistemò il collo di tessuto tecnico intorno alle orecchie e sulla fronte – Ma se sei tu a farmi sempre una testa tanta sull’affrontare la montagna preparato.

– Devi mica prepararti qui… On-y va? – indicò con la punta del bastone lo sterrato che si biforcava dalla strada principale.

Alberto annuì – Faccio partire il Garmin – accese il contachilometri e lo raggiunse.

Lo sterrato proseguiva per un paio di chilometri in mezzo a prati di erba alta. La stagione era ancora agli inizi e la fioritura era nel suo massimo splendore. Il fragile viola delle campanelle, il bianco delle margherite, l’azzurro delicato dei fiordalisi e il cupo rosso delle nigritelle esplodevano contro il verde pallido dei prati.

Camminavano in fila indiana, Ivan a fare strada, Alberto che lo seguiva qualche passo indietro. Ogni tanto Ivan allungava il bastone a indicare un fiore o l’altro – Un giglio martagone, sono belli, nèh? Un semprevivo, se fai attenzione a raccoglierli li puoi ripiantare. Ne ho un vaso a casa, fa un sacco di figlioletti, ogni tanto li devo regalare, ché non so più dove metterli. Quella è un’orchidea, non sembra nèh? Senti che profumo, sa di vaniglia.

Alberto lo ascoltava in silenzio, ogni tanto cavava il cellulare dalla tasca e scattava una foto.

– La prima volta che sono salito alle Laures avevo quattordici anni. Sono venuto su con Franco. Matti eravamo. Siamo partiti direttamente dalla valle e siamo tornati che era quasi notte. Niente abbigliamento tecnico e tutte le tue diavolerie – indicò il Garmin con la punta del bastone – Ti pare che ce l’avevamo? È vero che ora è più comodo, eh. Mica è un male avere degli scarponi che non pesano sei chili l’uno…

Alberto sbuffò – Parli come se avessi ottantant'anni…

– Rispetto a te, è come se li avessi! Sei venuto in Valle la prima volta che avevi ventidue anni. Non sapevi neanche allacciarti gli scarponi.

– E a sentir te non so allacciarli neanche adesso…

Ivan gli gettò uno sguardo beffardo da sopra la spalla – Sarai sempre un ragazzino di città. Uno di quei milanesi che vengono a sciare la domenica.

– Ora non offendiamo! Milanese no! Da Lucca son trecento chilometri!

– A sud di Pont Saint-Martin c’est tout du même.

Alberto si lasciò sfuggire un sorriso. Ivan l’aveva accompagnato a trovare la sua famiglia a Lucca in più di un’occasione e avevano visitato tutta la Toscana e tutto ciò che si trovava sul percorso, ma fingere di ritenere privo di qualsiasi interesse tutto ciò che si trovasse fuori dalla Valle era uno scherzo privato a cui non rinunciava.

Lo sterrato si addentrò nel bosco e la pendenza cominciò a farsi maggiore. Alberto si sfilò gli occhiali per vedere meglio nella penombra umida delle conifere. Il terreno soffice era coperto da un tappeto di aghi rossi che cedevano sotto i loro passi. Camminare era piacevole.
Alberto avanzava a testa bassa, attento alle rocce traditrici che spuntavano dalla terra scura, mentre ascoltava il chiacchiericcio continuo di Ivan – ci voleva ben più di quella salita per spezzare il suo fiato –. Nei mesi peggiori della malattia, una tosse secca e astiosa, che lo lasciava boccheggiante, gli aveva squassato il petto a ogni respiro. Era una tosse che nessuna cura sembrava calmare, che tormentava quel corpo diventato così fragile, così minuto, afferrandolo e scuotendolo come un vento di tempesta una betulla solitaria. Adesso Alberto tendeva l’orecchio per cogliere fischi o raucedine, ma non ve n’era traccia nel ritmo profondo e regolare del suo respiro. Era un miracolo che quasi gli faceva venire le lacrime agli occhi dalla gratitudine.

– Ti ricordi la prima volta che ti ho portato alle Laures? Ho dovuto prestarti tutto io, di tuo avevi solo gli scarponi.

– E chi se lo scorda! Sei un pazzo sadico. Mi hai fatto fare tutto il giro dei laghi. Sono tornato giù che ero distrutto.

Ivan ridacchiò – Ed è colpa mia? Mi avevi detto che eri allenato, che ce la potevi fare…

– Che ti aspettavi che dicessi? A sentir te sembrava una passeggiata. Eri tu quello esperto, avresti dovuto capirlo che non ero abituato.

– Va là, che stai facendo un sacco di scene. Sei tornato sulle tue gambe, mi sembra. Anche se mi è toccato metterti a letto. E non hai
camminato per tre giorni.

– Vantati, eh? Una guardia non dovrebbe preoccuparsi della sicurezza?

Ivan si strinse nelle spalle – Dei camosci.

Diceva “camósci” con la o chiusa. Ad Alberto era sempre piaciuto. Sembrava parlasse di qualche animale mitologico invece che dei timidi erbivori di montagna che aveva visto tanto spesso sui cornicioni durante i loro trekking.

– E dei dahu?

– Ah no, le guardie forestali non si occupano dei dahu. Se la cavano benissimo da soli. L’unico problema è quando si trovano la strada sbarrata, perché non riescono a tornare indietro. Allora vanno presi e portati oltre l’ostacolo. È una faticaccia, ma qualcuno deve pur farlo.

– E perché non possono tornare indietro? – chiese Alberto, nonostante conoscesse perfettamente la risposta, per il solo piacere di sentirsi raccontare la storia un’altra volta.

– Perché i dahu hanno le zampe a monte più corte di quelle a valle, per poter correre sui fianchi delle montagne. Però, capisci, così devono avanzare sempre nella stessa direzione, per tutta la vita. Pensa, se due dahu si incontrano faccia a faccia e si piacciono, non potranno mai combinare niente! Perché hanno le zampe corte sul fianco opposto, capito? E se si imbattono in un lupo, possono mica fare dietro-front e scappare… – Ivan scosse la testa, rattristato dalla sfortunata sorte dei dahu.

– Mi piacerebbe vederlo un dahu, una volta

– Aguzza gli occhi e chissà che non ti capiti.

 Alberto faceva attenzione a mettere un passo dopo l’altro, accompagnandolo al movimento delle braccia. Era un po’ che non saliva in montagna e rompere il fiato gli stava risultando più faticoso del solito, ma non l’avrebbe mai ammesso. Tra un po’ sarebbe andata meglio, l’inizio era sempre il momento peggiore. La voce di Ivan, invece, non si spezzò mai. Ma lui passava tutti i giorni sui crinali, Alberto aveva da tempo accettato che, nonostante tutto il suo allenamento, non sarebbe mai riuscito a replicare la naturalezza con cui Ivan si inerpicava per i pendii più erti.

Ivan non aveva mai smesso di salire in montagna, fino a che non era stato confinato a letto. Sembrava incapace di vivere con i piedi a fondovalle. E anche per lui era diventato lo stesso. Aveva smesso di fare trekking solo quando aveva smesso Ivan, per poter passare più tempo con lui. Prima nella sua camera da letto, guardando i monti fuori dalla finestra e programmando le gite che avrebbero fatto appena si fosse ripreso – per prima cosa sarebbero saliti alle Laures, come sempre, era ovvio – e poi nella stanza in ospedale, tra l’odore di antisettico e malattia, in quella luce bianca e artificiale, quando avevano iniziato a discutere di cosa avrebbero fatto se Ivan, in montagna, non avesse potuto tornarci mai.

Gli alberi iniziarono a farsi più radi. Mentre erano nel bosco, il sole era salito alto nel cielo e ardeva bianco.

– Aspetta – ansimò Alberto – Mi devo spogliare, sto lessando.

Ivan si fermò, poco più avanti e si voltò a guardarlo, eretto, appoggiato al suo bastone di noce intagliato, mentre si sfilava la giacca vento e il secondo pile e li riponeva nello zaino. Ne approfittò per tirare fuori la borraccia e bere a lunghi sorsi – Vuoi bere?

Ivan scosse il capo – Sto bene così, poi ho la mia – picchiettò con le dita sulla borraccia di acciaio che portava al fianco.

Fuori dal bosco, il sentiero si faceva più ripido e dissestato, sotto i piedi non più il morbido hummus nero, ma terra dura e polverosa. Gli alberi erano quasi scomparsi, solo qualche abete contorto faceva di tanto in tanto la sua comparsa a fianco del sentiero, circondato da cespugli di rododendro, fioriti di rosa intenso. Ivan camminava davanti a lui a lunghi passi regolari, guardandosi attorno, le spalle abbronzate che tendevano la maglietta bianca. Durante la malattia si era come prosciugato, le scapole e la spina che sporgevano dolorosamente e il braccio destro aveva perso completamente il tono muscolare, fino a diventare sottile come quello di un bambino, con le articolazioni grottescamente rigonfie.

Adesso era di nuovo come Alberto lo ricordava ai tempi del loro primo incontro: asciutto e scattante, con la muscolatura proporzionata costruita non dalla palestra, ma da una vita all’aria aperta e camminava davanti a lui con il suo solito passo elastico.

Stralci di nuvole correvano rapidi sopra le loro teste, accendendo e spegnendo i colori intorno a loro: in vetta avrebbero trovato vento.
Il sentiero sporgeva su un costone che precipitava ripido per oltre cinquecento metri. Alberto si attardò a guardare il paesaggio. Lo sguardo correva libero attraverso tutto il fondovalle, sopra la Dora e fino a Saint-Barthelemy, oltre scorgeva la punta del Grand Combin, a sinistra, in lontananza, les Grandes Jorasses e, infine, ancora più a sinistra, si innalzava in tutta la sua possanza la catena del Monte Bianco.
Era una delle viste che Alberto preferiva di tutta la Valle.

– Che fai? Ammiri Sua Maestà?

Ivan, poco più avanti, si era fermato per aspettarlo e indicava con il bastone il Monte Bianco.

– Con un cielo così limpido sarebbe un’eresia non farlo.

Un sorriso increspò le labbra di Ivan. Era sempre stato orgoglioso del Bianco come se fosse stato lui con le sue mani a costruirlo e a posizionarlo dove si trovava – Dalla cresta lo vedrai meglio. Avanti.

Alberto si voltò verso di lui, sorridendo di rimando: il sorriso di Ivan era contagioso. Soprattutto quando parlava delle montagne. Ivan lo lasciò avvicinare di qualche passo, poi, prima che riuscisse a raggiungerlo, riprese a camminare del suo passo instancabile.

– Mi manca Black, è un peccato non averlo portato con noi – Black era il grande Pastore Tedesco di Ivan, che lo aveva accompagnato per anni nelle sue ricognizioni in montagna durante il suo lavoro da guardia. Ivan aveva sempre avuto cani da quando Alberto lo conosceva, sempre Pastori Tedeschi, sempre chiamati Black.

– È troppo anziano per queste scarpinate, ormai – Alberto aveva lasciato Black in giardino, con una ciotola d’acqua fresca e una di croccatini ed era certo che il vecchio cane avrebbe passato la giornata a crogiolarsi al sole, attività che era diventata la sua preferita col passare degli anni.

Ivan si strinse nelle spalle – Hai ragione, il tempo passa anche per lui, povera bestia.

– Passa per tutti, tranne che per te.

Ivan gli scoccò un’occhiata divertita da sopra le spalle – Ma va’, guarda che rughe – corrugò la fronte esagerando i pochi segni che i suoi cinquantacinque anni gli avevano impresso sul viso.

– Sta zitto, che è meglio! Ti prendono sempre per il più giovane. E sì che mi passi sei anni.

Nemmeno la malattia sembrava aver avuto il potere di far dimostrare ad Ivan la sua età, nonostante gli avesse scavato il viso e arrossato le palpebre. I suoi occhi azzurri avevano continuato a splendere con la stessa vivacità, benché asciutti e doloranti e quasi ciechi e la sua pelle era rimasta liscia e bruna come quando usciva in montagna tutti i giorni. Persino tra i suoi capelli biondi, quando erano ricresciuti, non c’era traccia di bianco.

Il sentiero cominciò a inerpicarsi lungo il fianco scoperto della montagna, lasciandoli inermi sotto i raggi del sole spietato, mentre la pendenza aumentava sempre di più. Alberto si concentrò sui i propri passi, sui piedi che cercavano un appoggio e poi spingevano in alto, sulle braccia che si davano alternativamente la spinta con i bastoncini, sul respiro che gli sfuggiva dalle labbra, trattenuto e silenzioso.
In alto, il fischio di un falco infranse il silenzio. Alberto alzò lo sguardo per osservarlo volare in ampi cerchi sopra le loro teste e poi abbattersi in picchiata. Altri fischi fecero eco dal basso, rapidi e allarmati.

– Povera marmotta – commentò Ivan, che aveva rallentato lasciando che Alberto lo affiancasse.

– Dici che l’ha presa?

Ivan si fece ombra agli occhi con una mano – Quando non tornano subito su, vuol dire che hanno preso qualcosa.

Entrambi fissarono il cielo azzurro sopra il crinale, finché il falco non riapparve, stringendo qualcosa fra gli artigli, poi Ivan abbassò la testa e riprese a camminare e Alberto si affrettò a seguirlo.

Contro l'erba, che si era fatta più bassa, spiccavano a ciuffi genzianelle di uno sfacciato blu oltremare. I tornanti erano sempre più stretti e la pendenza sempre maggiore. Il sentiero era meno battuto e più difficile da seguire, si biforcava in più rivoli e si riuniva più volte e in moli punti era quasi cancellato. Alberto aveva smesso di guardarsi intorno e persino Ivan taceva, impegnato a camminare. Alberto aveva appuntato lo sguardo sui talloni ingrigiti dei suoi scarponi di cuoio e cercava di tenere il suo ritmo con i passi. Ogni tanto gettava un'occhiata verso l'alto, cercando di calcolare quanto mancasse al passo.

– Non guardare in su, lo sai che le montagne mentono: troverai sempre un altro colle, oltre quello che vedi – Ivan si era voltato a guardarlo.

– Lo so, me lo hai detto mille volte.

– Eppure non impari mai.

Alberto abbozzò un sorriso. 

Il sentiero fece un'altra curva e si trovarono in mezzo a una pietraia. Continuarono ad avanzare facendo attenzione a dove mettevano i piedi. Alberto calpestò un sasso instabile e quello gli sfuggì da sotto i piedi, facendolo inciampare e rotolando fino a valle.

– Fa attenzione, controlla sempre che l’appoggio sia buono, prima di metterci il peso, queste pietraie sono traditrici. Ti sei fatto male?

Alberto scosse il capo e controllò che lo scarpone non si fosse allentato. Era andata bene, poteva procurarsi una storta e farsi i mille e passa metri dislivello a ritorno con una caviglia dolorante non sarebbe stata una passeggiata.

– Ti ricordi di quella volta che ti sei rotto una caviglia sul Col Fenêtre? Mi è toccato fasciarti stretto e aiutarti nei passaggi più difficili e ci abbiamo messo più del doppio che all’andata a rientrare… E sì che eravamo dei ragazzini all’epoca.

Alberto se ne ricordava fin troppo bene, quando erano arrivati alla macchina aveva la caviglia gonfia come una pallone e faticava a reggersi in piedi, grondava di sudore e detestava Ivan per non avergli permesso di chiamare il soccorso alpino. Era stato pronto a giurare di non salire mai più su una montagna. Ma poi Ivan si era fermato a un bar sulla strada e con una panache in mano e il ghiaccio sulla caviglia, l’evento aveva preso tutt’altre sfumature. Era diventato una di quelle avventure da raccontare per far ridere gli amici. Anche se per quell’estate i trekking erano finiti e la caviglia gli era sempre rimasta un po’ debole.

Ma se fosse successo adesso sarebbe stato diverso. Era meglio che  guardasse bene dove metteva i piedi. Troppe cose erano cambiate.

Avanzarono ancora per un po’ nella pietraia, poi Ivan si fermò e si guardò intorno, schermandosi dal sole con una mano. Alberto seguì la linea del suo sguardo e scorse una croce stagliarsi contro il cielo, in lontananza.

– Siamo finiti un po’ troppo a destra. Ci conviene tagliare e riallacciarci al sentiero più in su – col bastone tracciò una linea orizzontale nell’aria – Là, si scorge la traccia.

Alberto aguzzò la vista e annuì.

Attraversarono la pietraia prudentemente, Alberto tastava il terreno davanti a sé con i bastoncini prima di fare una passo, per non mettere di nuovo un piede in fallo e finalmente tornarono su un terreno meno dissestato, su cui cresceva di nuovo erba.

– Guarda – indicò Ivan. – Una stella alpina. Ci siamo quasi.

L’ultimo tratto di sentiero si inerpicava in strette volute fino alla croce di ferro che vigilava sul passo. Alberto arrivò in cima e ristette sul crinale. Davanti a lui si apriva la vista delle Laures, duecento metri più in basso, con il lago di un blu profondo, su cui si riflettevano le nuvole e le cime circostanti, la superficie fremente per il vento che soffiava da quella parte del crinale. Sulla sponda sinistra del lago, Alberto poteva scorgere il Bivacco.

Alberto lasciò lo sguardo correre sulle montagne davanti a se, austere e taglianti, ammantate di nevi.

– Ci facciamo l’Emilius, che dici? Se non sei troppo stanco… – suggerì sornione Ivan al suo fianco.

Alberto sorrise e scosse la testa – No, oggi, no.

Poi si sedette su un masso e iniziò a piangere.

– Suvvia, non vale la pena fare tutta questa scena. Non c’è ragione di essere tristi. Ho deciso io quando andare. A me andava bene così.

– Ma a me no – mormorò Alberto tra i sigulti – A me non andava bene. Perché non sei restato? Almeno un altro po’.

– Sai che non potevo.

– Lo so. Me lo hai detto mille volte.

– Eppure non impari mai.

– Non voglio imparare. Voglio che ci sia tu a ripetermelo sempre – Alberto affondò il viso fra le mani, premendo i palmi contro gli occhi.

– Coraggio, fa’ quello per cui sei venuto.

Alberto annuì fra le dita. Inghiottì a fatica e inspirò profondamente cercando di fermare i singhiozzi. Poi si strofinò il viso con le mani e si diede a frugare nello zaino. Ne cavò un piccolo involto di carta da pacchi e un contenitore cilindrico da quello.

Mentre gettava le ceneri nel vento oltre il crinale, Ivan lo osservò con approvazione, poi sì voltò, oltrepassò il passo e sparì fra le montagne.
 
 

 
  
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