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Autore: Melisanna    12/01/2023    1 recensioni
[Jules Verne - Varie]
Non si era arreso subito a essere confinato sull’isola. Non credette, mai, neppure per un minuto, che sarebbero tornati a prenderlo. Lui non l’avrebbe fatto.
Per un uomo di mare, l’idea di essere imprigionato a terra, davanti a un panorama sempre uguale, con le stesse stelle ogni giorno sulla testa, senza il rollio del ponte sotto ai piedi e l’ululato del vento nelle orecchie, era inaccettabile.
Lui che aveva sempre convissuto a stretto contatto con altri venti, trenta uomini, dormendo e mangiando e morendo fianco a fianco, non poteva sopportare il pensiero di essere solo, completamente solo per il resto della vita.
Genere: Angst, Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Storia nata per la challenge Advent Calendar del gruppo Facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom
La parola chiave scelta era Remare.


Morire, sì, ma in mare.
 

Non si era arreso subito a essere confinato sull’isola. Non credette, mai, neppure per un minuto, che sarebbero tornati a prenderlo. Lui non l’avrebbe fatto.

Per un uomo di mare, l’idea di essere imprigionato a terra, davanti a un panorama sempre uguale, con le stesse stelle ogni giorno sulla testa, senza il rollio del ponte sotto ai piedi e l’ululato del vento nelle orecchie, era inaccettabile.

Lui che aveva sempre convissuto a stretto contatto con altri venti, trenta uomini, dormendo e mangiando e morendo fianco a fianco, non poteva sopportare il pensiero di essere solo, completamente solo per il resto della vita.

E senza neanche un libro tranne la Bibbia. Ayrton, nonostante tutto, era un uomo di fede, ma all’idea di leggere e rileggere le stesse pagine all’infinito, gli si formava un groppo nello stomaco. Tanto più che quelle pagine non avrebbero fatto altro che rimproverarlo per le sue azioni e deriderlo per la sua sorte e lui non era pronto a essere pentito.

No, non era pentito, aveva fatto ciò che era necessario per sfuggire al ruolo in cui la nascita e il fato l’avevano intrappolato. Era un marinaio abile, un uomo forte e intelligente e i suoi compagni lo amavano e lo rispettavano. Meritava più che essere il quartiermastro di un uomo ricco.

Non si era arreso subito a essere confinato sull’isola: avrebbe preferito una morte misericordiosa piuttosto che quella lenta, inumana tortura.

Che ironia che fosse la stessa sorte che lui stesso aveva decretato per Grant.

Così aveva dedicato ogni ora e ogni minuto che passava sveglio a costruire un’imbarcazione. Sapeva che le probabilità di imbattersi in una nave su quelle rotte era quasi zero e che gli sarebbe stato impossibile raggiungere la terraferma o un’isola abitata, ma persino quella debole speranza era preferibile all’essere privato della libertà e di ogni contatto umano.

Dopo due mesi di lavoro indefesso, era riuscito a realizzare una zattera con un basso parapetto e una singola, sparuta vela. Guardandola, piccola, fragile e ingovernabile che si apprestava a sfidare il mare aperto, la consapevolezza della follia del suo progetto l’aveva stordito.
Ma restare sull’isola era un’immagine ancora più spaventosa. Lo afferrava al petto e lo lasciava senza fiato. Morire di sete o affogato, per il calore spietato del sole o le zanne dei pescecani, ma morire in mare.

Sì, era preferibile morire in mare, con l’acqua come bara, piuttosto che sopravvivere su quello scoglio dimenticato da Dio, senza poter scegliere del proprio destino.

E poi… c’era sempre la speranza, la speranza di trovare un bastimento uscito dalle rotte commerciali per un fortunale, uno yacht che si fosse spinto più lontano di quanto altri facessero, alla ricerca di terre ancora inesplorate. In mare, c’era la speranza.

Non partì subito. Dedicò ancora giorni a raccogliere quante più provviste possibile e a riempire d’acqua tutto ciò che poteva adempiere al ruolo di contenitore. Fu lieto di trovare alcune palme da cocco ricche di frutti che avrebbero assolto al doppio compito di sfamarlo e dissetarlo e legò strettamente le noci intorno alla zattera, così che ne facilitassero il galleggiamento. Nella capanna di Grant trovò una canna da pesca e imbarcò anche quella, meglio mangiare pesce crudo che patire i morsi della fame.

Prese esche e acciarino e tutti i fiammiferi che trovò, per ogni evenienza e quante più cime e tessuto poteva, nel caso che la sua misera vela si strappasse. Scolpì due remi, per affrontare la bonaccia e carta, bussola e sestante, per poter tracciare le rotte.

Non prese la Bibbia, perché neanche un uomo come lui poteva pensare che Dio l’avrebbe assistito in quell’impresa.

E alla fine, all’alba del ventitreesimo giorno, con un cielo limpido e il vento a favore, si imbarcò e fece vela verso Nord-Ovest.

Il bel tempo durò tutto il giorno e la notte e ancora il giorno successivo, poi, la sera del secondo giorno, il vento cadde e Ayrton vide in lontananza addensarsi nubi di tempesta. Maledicendo la sua sorte, controllò che i suoi averi fossero assicurati il più strettamente possibile e afferrò i remi, sperando, contro ogni logica, di riuscire a sfuggire al maltempo.

Remò con tutta la forza di un uomo disperato, di un marinaio che sappia quanto una burrasca in mare aperto sia spietata con un’imbarcazione di fortuna, di un illuso che sogna di forgiare il proprio destino con le sue mani.

La sue spalle allenate spingevano in avanti la zattera con un moto costante, nonostante la difficoltà di governare un’imbarcazione così inadatta allo scopo, con il fondo piatto e una forma solo vagamente lanceolata. Ayrton, chino sui remi, guardava fisso davanti a sé, concedendosi di lanciare solo rare occhiate alle sue spalle alla tempesta in arrivo e ogni volta che la guardava e realizzava quanto assurda fosse la sua speranza, riprendeva a remare con ancora maggior vigore.

Mai, neanche una volta, pensò di provare a invertire la rotta e tornare verso l’isola.

Quando il tifone gli fu addosso, aveva i muscoli delle braccia quasi paralizzati per quello sforzo immane e i palmi delle mani, benché induriti dalla lavoro sulle navi, straziati dal legno ruvido dei remi. Ebbe appena il tempo di mollare i remi, che il mare trascinò subito via e afferrare la vela, legandola strettamente intorno all’albero, prima che i cavalloni cominciassero a scaraventarsi la zattera l’un l’altro.

Ayrton strinse l’albero e pregò, senza nessuna speranza di essere ascoltato.

Il vento gli afferrò i capelli e i vestiti, mentre il cielo e il mare gli rovesciavano addosso la loro furia. Nelle tenebre, sballottato da ogni parte, perse quasi subito il senso della direzione. Tutto ciò che l’ancorava alla realtà era la sensazione del legno sotto le dita.

Poi uno schianto e l’albero cedette sotto gli assalti del vento. Ayrton fu sbalzato  fuori dalla zattera, l’albero gli passò davanti e lui ci si aggrappò disperatamente, finché un’onda più violenta delle altre non li separò. Ebbe un’ultima visione di uno squarcio di cielo limpido fra le nubi, poi le acque si richiusero sopra di lui.

Troppo stremato, non tentò neppure di nuotare e si perse nel nero intorno a lui, mentre l’acqua gli riempiva la gola e i polmoni.

Almeno sarebbe morto in mare.

Mentre perdeva coscienza ebbe la percezione di qualcosa di rigido e metallico che lo stringeva, incongrua  e paradossale nell’inferno liquido in cui stava sprofondando, poi il mare lo accolse.

Contro ogni sua aspettativa, riaprì gli occhi, sputando acqua.

Il mondo intorno a lui era lucente e alieno e per qualche momento si chiese se si trovasse nell’oltretomba, ma il dolore in ogni parte del corpo, l’arsura che lo tormentava, il peso che gli torturava i polmoni erano sensazioni troppo fisiche, troppo materiali, perché si fosse separato dal suo corpo mortale.

Tentò di alzarsi, ma era troppo debole e ricadde fra quelli che realizzò essere cuscini. Avvertì un dolore acuto e si accorse di essere attaccato a macchine la cui funzione gli era sconosciuta, tramite aghi che gli si infilavano delle vene dell’avambraccio. Istintivamente li strappò via e un fiotto di sangue gli sgorgò dal braccio.

Qualcosa ronzò.

Metà di una delle pareti scorse sull’altra e apparve una figura terrificante. Un essere di più di due metri, con un corpo di legno e metallo, tubi al posto del giunture e vetro specchiato in luogo del viso, accompagnato da lugubri stridii e un profondo soffio di mantici.

Di Ayrton si potevano dire molte cose, ma non che fosse un codardo. La sua prima reazione fu guardarsi intorno, afferrare la bottiglia che trovò al fianco del letto e frapporla fra sé e la creatura, nonostante riuscisse a malapena a stringerla.

– Vi siete ripreso, se avete l’ardire di minacciarmi nella mia stessa casa – le parole furono pronunciate da una voce bassa e gradevole, totalmente incongruente con l’aspetto della creatura.

– Cosa siete? – Sibilò Ayrton, la voce gracchiante a causa della gola sofferente – Siete umano?

– Alcuni direbbero di no, ma sì, io mi ritengo ancora umano. E direi che per voi è tempo di tornare sulla terra ferma, Ben Joyce.

– Non chiamatemi così.

– Preferite Ayrton? E sia. Vi riporto alla vostra isola, Ayrton – e così dicendo la creatura – l’uomo? – lo prese tra le braccia. Ayrton si dibatté debolmente, cercando di liberarsi, ma era troppo debilitato, per resistere alla sua stretta.

In braccio all’altro, attraversò corridoi rivestiti di legni lucidi e pregiati, illuminati da bulbi luminosi con finestre rotonde che si aprivano nell’oscurità. Per un attimo Ayrton credette di aver visto pesci nuotare al di là del vetro, ma era un’ipotesi così inconcepibile che si convinse di essersi sbagliato.

Il suo ospite misterioso lo depose all’interno di una sfera di metallo, con un singolo oblò, un gran numero di leve e pulsanti e due sedili ricoperti di pelle. L’uomo armeggiò con quella che pareva una plancia e in qualche modo si mossero. La capsula ruotò e scorse lateralmente e poi Ayrton udì un clangore metallico e subito dopo riconobbe la leggerezza che si prova sott’acqua.

– Dove siamo?

– È meglio per voi non saperlo – rispose l’uomo senza voltarsi.

Ayrton si sollevò faticosamente e scrutò l’oscurità fuori dall’oblò, tagliata da due fasci di luce che provenivano dalla sfera, ma non c’era niente che potesse aiutarlo ad orientarsi, solo acqua e scogli e banchi di pesci, immersi in tenebre verd’azzurre.

Non seppe per quanto continuò il loro viaggio, solo che a un certo punto la sfera s’innalzò in verticale e quando si arrestò, Ayrton fu accolto dal familiare rollio delle onde.

Poco dopo si arrestarono e la porta della capsula si aprì sotto le mani del suo compagno. Venne di nuovo sollevato e portato attraverso quella che riconobbe come l’isola dove era stato abbandonato.

L’uomo lo depose nella capanna di Grant – Vi porterò altri attrezzi al posto di quelli che avete così scioccamente sprecato e acqua e cibo per sopravvivere finché non vi sarete ripreso. Addio, Ayrton.

Con le forze che gli restavano, gli afferrò un braccio – Chi siete? Mostratemi il vostro viso, che sappia almeno chi ringraziare nelle mie preghiere.

L’uomo parve tentennare – Non do molto valore alle vostre preghiere. Né a quelle di chiunque altro, se per questo – ristette per un attimo in silenzio, poi le mani metalliche si alzarono a sollevare la sfera che aveva al posto del capo e scoprirono un volto inusuale, esotico, ma non di meno umano.

L’uomo, che ora Ayrton realizzava non raggiungere il metro e novanta senza il suo casco, aveva un volto bruno e aquilino, con un naso grifagno e ardenti occhi neri, ombreggiati da ciglia folte e lunghe come quelle di una donna. Le rughe profonde che aveva incise intorno agli occhi e sulla fronte e il grigio nella lunga barba e fra i capelli facevano pensare che fosse maggiore di Ayrton di almeno una ventina d’anni.

Ayrton lo fissò con stupore – Come vi chiamate? – sussurrò

– In passato alcuni mi hanno chiamato Nemo.

– Non lasciatemi solo, Nemo. Non da solo.

L’uomo lo scrutò con i suoi occhi penetranti e Ayrton rabbrividì sotto quello sguardo intenso e sagace.

– Tornerò. Forse. Se ve ne dimostrerete degno.

– Vi troverò.

– Non cercatemi, se sperate di rivedermi.

– Vi prego – mormorò ancora Ayrton, mentre Nemo si voltava, sfuggendo alla sua presa.

Sulla soglia si arrestò e si voltò un’ultima volta – Non deludetemi Ayrton – abbassò le lunghe ciglia sugli occhi ardenti, uscendo dalla capanna – In fondo, anche io mi sento solo.


 
  
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