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Autore: LaserGar    17/01/2023    0 recensioni
Yunix Braviery ha 16 anni. Dopo aver perso la memoria in circostanze ignote, il ragazzo, completamente solo, si è ritrovato a vagare in un mondo dominato dai Quirk, alla ricerca di una sistemazione stabile. La sua unica certezza è di aver commesso un crimine terribile, perciò mantiene un profilo basso, cercando di non avere contatti con nessuno. Dopo due mesi di vagabondaggio giunge alla sua meta che spera ponga fine alla sua 'fuga' intercontinentale: lo stato/città indipendente di Temigor, nella punta meridionale dell'isola del Kyushu. La città in questione, chiamata Kotetsu dai Giapponesi, per l'acciaio speciale che vi si ricava all'interno, è una metropoli ricca di persone provenienti da ogni dove. L'HG è l'accademia per eroi della città, capace di rivaleggiare contro lo U.A, per il titolo di scuola migliore per eroi. Nel frattempo, un cimelio del passato rinvenuto nella giungla sudamericana rischia di far sprofondare nel caos non solo Temigor, ma tutta la società degli Heroes. Yunix non sa ancora cosa l'aspetta quando si ritroverà faccia a faccia con il suo futuro e ovviamente il suo passato.
Genere: Azione, Fantasy, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Shoujo-ai | Personaggi: Altri, Katsuki Bakugou, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Una Strada per il Futuro - Parte Quarta: Oh Vittoriosa! 


Chiazze rosse tappezzavano il viso terreo del villain, più propenso al dialogo ormai, piuttosto che a sprecare tempo a fare il gradasso. La cosa non le fece né caldo, né freddo. Se fosse stato in lui, avrebbe fatto lo stesso.
«Tchhh... c- c-... che cazzo di male, augh... non... non scherziamo, donzella! Con quale coraggio ti definisci una Hero, sporca...» tacque, annichilito dal suo sguardo, cosciente del pericolo.
Il suo respiro era inquieto, irregolare, qualcosa gli ostruiva la carotide. Rivoli di capelli celesti gli coprivano gli occhi, visibili tra le fessure di ciò che rimaneva della sua maschera. Si reggeva in piedi a fatica e tracce di sangue macchiavano le scarpe di camoscio, rubate con tutte le probabilità. Avrebbero fatto un figurone sulla mensola dei trofei di papà. Poteva recapitarglieli, sempre se avesse mai considerato l’idea di riaprire i ponti con lui... già, era più probabile l’annessione del Giappone e con un bel margine.
Intanto, seppur in quelle condizioni pietose, il villain aveva il coraggio di affrontarla a viso aperto, folle. Non che avrebbe preferito il contrario. Insomma, la faccenda così si profilava il doppio più interessante e lei aveva tutto il giorno libero.

Nell'immediato circondario, indipendentemente dalle loro azioni, la polvere bianca si levava sempre più, li costringeva al confronto, spandeva per la via immergendo tutti nella coltre sanguinaria, in cui si poteva essere solo predatori o prede. Il rumore dello scontro attorno a loro era un coro guerrafondaio, la caricava, la faceva sentire forte, potente, inarrestabile. Vide sé stessa negli occhi ansiosi del nemico, le mani chiuse attorno all’asta di bambù, serrate come se impugnassero uno spadone lungo sei metri. Non era sazia, neanche un po’. Tutt’al più contava sul fatto quell’uomo fosse solo l’antipasto e che il piatto principale si sarebbe presentato presto. Sentiva i muggiti del generale, che si faceva strada tra gli altri partecipanti per arrivare al suo compare di cella, ma nell’ipotetico caso in cui fosse riuscito a raggiungerla in tempo, avrebbe impartito pure a lui una lezione. No, non c’era motivo di rendergli la vita difficile, questione di secondi o minuti, il generale aveva le ore contate. Optò per farlo penare però: la morte doveva guadagnarsela.

«Avanti! Non permettetegli di arrivare al Coffe Bean Love! Non intende ucciderci, perciò abbiamo un vantaggio! Io mi occupo del furfante pusillanime che tiene in ostaggio il professore, voi fate la vostra parte!» Sentì i passi dei ragazzi che la oltrepassavano. Andavano a combattere per lei. Sollevò l’arma in segno di minaccia, spazzando via ogni illusione di salvezza che il povero disgraziato poteva essersi creato nella sua testolina. Tutta la sua spavalderia aveva lasciato il posto a un angustiato, vile, sguardo, che non la sottovalutava più, e a ragion veduta. «Il vostro piano procede a gonfie vele, eh?»
«Stai zitta. Non sminuire il genio manifesto di Armday, donzella».
«Oh, non mi permetterei mai, semmai il contrario. Colgo solo qualche falla qua e là, come, tanto per dirne una, la sciocca presunzione che ci saremmo fatti da parte e vi avremmo steso il tappeto rosso sotto i piedi. Criminali fa rima con animali, Ahrima, e io non tremo di paura di fronte a quattro lupacchiotti spelacchiati che si atteggiano da duri, men che meno se ho i mezzi per riportarli allo zoo a cui appartengono. Insomma, assassino, cosa si prova ad essere nei panni delle tue vittime, una volta tanto?» lo beffeggiò, accorciando la distanza che li separava, a poco a poco, cibandosi della sua rinnovata paura. «Pensavi che ci saremmo pisciati addosso dalla paura? Che non avremmo alzato un dito su di te o sul tuo amichetto Kurd perché siete dei senpai?  Ah, povera creatura. Sbagliato, sbagliato, sbagliato!» Piegò la testa all’indietro, per scacciare i capelli dalla fronte, incurvando le labbra, come se avesse raggiunto l’illuminazione. «Profondamente sbagliato!»

Senza neanche guardarlo, gli occhi rivolti all’intelaiatura di ferro, sferrò un colpo di rovescio così improvviso che Ahrima non riuscì a difendersi. Lo fece tentennare, tremare di dolore, ma con un grugnito astioso il villain restò saldo in piedi. Un segno rosso gli copriva entrambe le braccia: nel giro di qualche ora sarebbero diventati lividi e la ragazza era solo all’inizio. «Ferirmi non ha alcun tipo di senso, puttanella. Non vedi che sono disarmato?» tentò lui, mantenendo una parvenza di sfida nel timbro delle parole.
Asia gli assestò un pugno sul viso.
«È questo che dicevano le tue vittime prima che spegnessi via il fuoco che le animava?»
L’uomo bestemmiò irato, la voce quieta messa a dura prova, poi tentò di colpirla, ma lei schivò.
«Dannata HG, l’avevo detto ad Armday che non fuggire subito mi avrebbe portato solo guai...»
Lei lo ignorò e lo incalzò ancora con l’asta, inflessibile, aprendogli una ferita sulla guancia.
«Hai provato ad attaccare Vartimor alle spalle, mentre Tekken mi tratteneva, lo neghi forse? Tu non intendi cambiare, una volta che sarai uscito. Fai la parte dell’ergastolano riformato solo per convenienza, sii sincero con me e ammettilo, oppure... preferisci negare?» la calma con cui lo mise alla prova rasentava l’equilibrio totale di tutti i suoi sensi, ma nelle sue vene scorreva sangue nero. Sangue che chiedeva a gran voce vendetta.
Abbatté il bastone sul suo naso, facendolo grugnire di dolore.
«Sei piuttosto resistente, per essere uno scarto della società, ma sono fiduciosa che riuscirò a ripagarti per le malefatte registrate sulla tua ignominiosa schedina». L’uomo teneva a freno la lingua ora, ma continuava a tenerle testa, che ingenuo. «Da bravo, fatti estirpare come si conviene a uno della tua razza!» esclamò menando un sferzata devastante sulle costole, dato che ora con le braccia si schermava il viso.

Un’esperta conoscitrice dello Shaolin poteva colpire in ogni punto scoperto del corpo dell’avversario, senza perdere secondi preziosi a scegliere dove far arrivare l’attacco, questo era il bello dei lunghi bastoni kun, che compensavano il basso potenziale offensivo con una considerevole versatilità. “Con il bambù non è la stessa cosa, ma... sono convinta che riuscirai a ridurlo a una chiazza di sangue anche così, Shiena’q”.
Continuò a incalzarlo, diminuendo il tempo tra una mazzata e l’altra.
«Non importa tunk cosa copri, tunk ci sarà sempre tunk un frammento di pelle indifeso tunk su cui scaricare tunk tutta la mia furia!» L’uomo sputò sangue, le braccia levate per proteggersi. «Ahrima! Lo senti il peso delle tue vittime riempirti i polmoni adesso? Non sfuggirai mai a questa violenza! Sei scaduto da tempo in quella cella, sei più rancido del latte andato a male!»

Le mosse a segno iniziarono a fare effetto. Il villain fu accecato prima a un occhio, poi cadde in ginocchio, poi rialzandosi barcollò pericolosamente all’indietro, ma un colpo alla tempia gli ruppe la guardia, permettendole di calciarlo contro la parete del bar, e lei ancora non gli diede tregua, anzi approfittò del momento per trascinarlo in un vortice di furia omicida. Una tromba d’aria di colpi, che lo fecero guaire come un molosso alle frustate dei padroni.
«Sei solo... una...»
La ragazza concluse la sfuriata con un attacco pesante, che spezzò in due il diadema nero sulla sua fronte e lo fece ululare di dolore. L’uomo avvenente arretrò fino a che non fu spalle al muro, il respiro spezzato. La ragazza avanzò con una giravolta, sfoderando un sorriso trionfante.
«Dillo! Vai fino in fondo e scoprirò se la feccia perisce allo stesso modo delle persone normali! Dillo! Ne vuoi ancora!?»

Gli occhi sporchi dell’uomo luccicarono.
«La vera domanda...» rivoli di saliva misto sangue sgorgavano dalla sua bocca, «è se tu sei ne vuoi ancora, piccolo mostro...»
La ragazza gli mise il bastone alla gola, festante.
«Boss! Ma se speri di conquistarti la salvezza con l’adulazione, allora ti conviene cambiare approccio, in men che non si dica».
«Non puoi più nasconderlo, donzella...» Il villain sembrava al limite, il volto simile a quello di uno scheletro. «A te piace... a te piace colpirmi... guardati, dimmi se non ho ragione, cazzo!»
Asia vide il suo viso farsi smunto e al contempo tramutarsi in una smorfia divertita.
«Taci! Non è così!» L’uomo inarcò le sopracciglia, reggendosi a malapena in piedi.
«Sei una sadica... una come te non potrebbe mai professarsi eroina... non diventerai mai...»
«Taci!»
Il suo autocontrollo veniva meno, lo sentiva scemare nel vento di guerra.
«Sadica... matta da legare!»
«TACI!»
La canna di bambù sembrò reagire al furore. Roteò fra i suoi pugni contratti come l’ago di una bussola.
«Non vedi l’ora di farlo... fallo allora, fallo!» gridò Ahrima, terrorizzato.

Asia ringhiò come una tigre, sentendo la canna di bambù spezzarsi tra le dita.
«Non sai quello che chiedi!» I suoi occhi erano colmi di brace, vulcani in eruzione.
«Lo faresti comunque, sadica, pazza, sporca puttana!»
Il villain si mosse per saltarle addosso, spinto dalla forza della disperazione.
«Ora mi aggredisci? Pessima idea! Pessima, pessima, pessima, PESSIMA! Ti rendi conto che così non mi lasci scelta!?»
Il villain inciampò sui suoi passi, e Asia capì che non stava affatto cercando di attaccarla, lui era spaventato da lei, lui stava correndo da Armday. Lo acciuffò, per il mantello.
«Ehi, ehi, ehi, ehi! Dove credi di andare con questo cosplay da quattro soldi?» Non riuscì a reprimere un sorriso. «Non sapevo fossi un polletto!»
Lo sbatté contro il muro, ponendogli l’arma di nuovo alla gola.

«Per favore...» sputò sangue lui, il fiato mozzato. «Cazzo... Siamo pari adesso... io... il tuo professore... capisci che era solo questione di affari? È solo stordito! Si riprenderà, sì... Merito forse la morte?»

La mente della ragazza era lucida, come la prima volta che aveva varcato le porte del dojo. La sua risposta fu quieta e ponderata come la bonaccia. Immacolata, perfetta, concisa. La pronunciò con il sorriso sulle labbra.

«Sì, la meriti».

Agì. Non pensò a nulla. Agì e basta. Una repentina serie di stoccate, colpi così forti da aprire buchi nel torace, nella pancia, sul bel viso.
«ORA FAMMI IL FAVORE DI CHIUDERE QUELLA FOGNA DI BOCCA!»
L’uomo sussultava, preda inerme della scarica di attacchi frontali, letali come i proiettili di una mini-gun.
“Ti ha provocato lui! È come se si fosse ammazzato da solo! Non è vero, Asia? Non hai colpe per questo, no, certo che no. Lui e la sua boccaccia...”
S’interruppe per prendere fiato, e per contemplare la sua opera, ma un movimento imprevisto nella mano guantata dell’uomo la costrinse a cambiare i suoi piani.
«Cosa credi di fare?» ridirezionò l’asta e gli bacchettò forte le dita, al modo di un’intransigente insegnante del Novecento, gliele spezzò e il contenuto rotolò ai suoi piedi.
«A-ha!»

La realtà dei fatti spense la smorfia che aveva stampata in faccia. Un pennello mezzo intinto. Il colore era della vernice era blu, ma l’asticella era sporca di sangue.
“Vart” Alzò gli occhi, e si tappò la bocca, costernata. “Cos’ho fatto? Cos’ho fatto? Non posso essere stata io!”

«Myr-a-w...» il viso impiastricciato del villain si era trasfigurato in quello di un ragazzo molto più giovane, dagli occhi neri, dal sorriso cangiante, o era sempre stato lui?

«Perché non c’eri? Quando avevo bisogno di te... non c’eri, tu non c’eri!»

No, lui no. Perché la perseguitava? Perché era costretta a guardare quei capelli color della grafite punteggiati di spilli, simili a frutti di bosco? Perché?
«Non è affatto vero... non è vero... sei tu... sei tu che sei scappato. Sei tu che mi hai lasciato... me lo ricordo... nel tuo studio... con solo i tuoi quadri a farmi compagnia! Insomma... io non avrei mai... sul mio onore... io...»

Ma gli occhi del ragazzo erano diventati lattiginosi. Una melodia estenuante la tormentava.

Tutto solo soletto, piccolo, inetto, cavalier perfetto, trallalà. Ha perso la volontà di vivere, senza di te. Tutto solo soletto, piccolo, inetto, cavalier perfetto, trallalà. Trovò la morte senza di te...

Le mani cadaveriche di Vart le ghermirono il viso.
«No... io...».
«L’ultima opera era una natura morta, colori acrilici, forte chiaroscuro, passione astratta resa concreta, effige stessa del nostro gemellaggio. Ti piaceva così... così tanto... non puoi averla scordata, Myraw, io so che te la ricordi... sul mio onore» parlava veloce ora, come se il suo tempo fosse agli sgoccioli.

“Lo sai bene che l’hai lasciato tu. Perché riscrivi la storia a tuo piacimento? Non sai quanto tremendo è stato il suo destino dopo la tua ignobile scenata?”

La ragazza pianse guardando negli occhi il suo antico amore, il suo primo amore, il suo unico amore.
«Non avere paura... viviamo assieme ancora, Shiena’q» balbettò lui, la bocca traboccante sangue.
Cercò di allontanarlo con il bambù, ma l’arma affondava nella carne incorporea senza opporre resistenza.
«Sei vivo... tu sei vivo! Non sei un cadavere! Vivi, vivi lontano da me!»

Un respiro tremulo soffiò delicatamente, sollevando le ciocche dei suoi capelli castano-rosati.
«Se è... questo... che vuoi...»
«Aspetta... no!»
Vart distese le sopracciglia sottili, come ad augurarle buon viaggio, sorrise gentile, le asciugò le lacrime con le mani gelide e la lasciò andare.
«Sono il tuo più grande fallimento» la frase non proveniva da lui, non solo da lui, perlomeno.

Tutti i ragazzi, anche il generale erano voltati verso di lei. I loro occhi erano inquietanti, indagatori, ma la voce, pure irriconoscibile, altisonante, era quella di Vartimor Khan.
Lo vide allontanarsi, rimpicciolire nella vetrata del negozio. Quadri, quadri riempivano gli scaffali e le mensole, ma erano grigi, non c’era nulla di raffigurato sopra. Incompiuto! Incompiuto! Parole tormentose gli fischiavano nelle orecchie. Asia si soffocò il viso nel braccio, per non dover guardare, ma subito l’arto si gonfiò all’improvviso, ingolfandola. Carne contro carne. “Giant Arms!”
Sentì la carne pressata sulla sua pelle. Impossibile muoversi o parlare, impossibile respirare.
«Ma in fondo che ne sai te! Non ci conosci. Non sai perché siamo nella posizione in cui siamo». “Ahrima...”
«Smettila con questo stupido desiderio di fare del male!» “Vart, io... cos’è che ti ha cambiato così tanto? Perché non ero lì a proteggerti?”
Sentì la raspante risata di Armday. «Siamo simili, noi due, non trovi? Sai cosa intendo, ragazzina. Il nostro spirito combattivo. La nostra capacità di adattamento. E soprattutto un Quirk mediocre, già portato al massimo». “Ignoranza, mediocre, fare del male...” la sua testa scoppiava. “Ignoranza... mediocre... fare del male...” C’era una sagoma dal profilo arancione vicino ai suoi piedi. “Riesco a vedere?” Un triangolo? “Fallimento? Falli-” Le persone implosero dall’interno, in una bufera di tendini, budella e sangue, la sua stessa pelle le riempì la trachea, affogandola, in un requiem di organi e violini fatti d’ossa umane.
Asia si svegliò di soprassalto.


Per i primi istanti si limitò a battere i denti, tenendosi le ginocchia al petto, dondolandosi avanti e indietro, per scacciare i residui del sonno travagliato.
«Merda» il suo sussurro si perse nel silenzio della stanza. Fredde gocce di sudore avevano creato un alone sul cuscino e anche le coperte spiegazzate erano fradice. Si tirò su le maniche attaccaticce, poi tenne le braccia incrociate, prendendo boccate d’aria man mano più profonde. Che freddo! Aveva timore di muovere i piedi, di sbattere le palpebre. “Che ore sono? Sembra ancora notte a giudicare dalle tapparelle...”
Di tornare a dormire non se ne parlava. Sbuffò, tremante, allungando le mani verso il cuscino, che si strinse al seno. Le sagome degli oggetti nella sua stanza divenivano più visibili, mentre i suoi occhi si abituavano al buio, ma per un po’ non riuscì a distogliere lo sguardo da alcuno di essi. Erano troppo veri... troppo reali... come anche il suo incubo lo era stato.
«Fanculo... che notte di merda...»
Non avrebbe mai immaginato che il suo primo giorno di scuola sarebbe iniziato in quel modo.
Una vibrazione forte vicino a lei le mandò in tilt il cervello per qualche secondo. Temette di essere stata catapultata indietro nell’incubo. Ma era solo il suo cellulare. Lo afferrò meccanicamente e la luce blu le abbagliò il viso.
Lo lesse con la voce dell’otome che l’aveva scritta, sentendo una forte nostalgia stringerle il petto.

– Arigato Asia. Arigato. siamo felici della buona nuova. Pure Memè sorseggia il sakè, e lei odia oriente. A casa bene. Porta avanti l’onore Shie’q... chiama tuo padre appena riesci ;) –

Quando arrivò alla parola padre, tutta l’emozione s’incenerì, come un foglio di giornale in un braciere e tornò la paura, e tornò il rigetto. “Neanche morta... neanche...” Si mise una mano davanti alla bocca. Un conato? Si piegò subito a destra del letto e lasciò che il suo corpo espellesse le mal digerite leccornie della sera prima, anche se aveva a malapena toccato cibo. Ansante, rimase aggrappata al bordo del materasso, senza sapere dove posare lo sguardo.
“Così... ripugnante...” e non sapeva se si riferiva al rigurgito o al messaggio.
Avvolta in una paura fottuta, si pulì le labbra con un lembo del pigiama, poi si rigirò nel letto, seppellendo il telefonino sotto di lei, indecisa se presentarsi in quelle condizioni a lezione.
“Calma, Asia... i tuoi insegnamenti antepongono il benessere spirituale a tutto il resto... continua a fare dei bei respiri e tutto andrà per il verso giusto. Non è successo niente, niente che tu non possa sconfiggere... hai un posto qui... sei arrivata seconda e non hai fatto del male a nessuno, a nessuno. Ripetilo, da brava. A nessuno. A nessuno”.

Iniziò a mormorare quelle parole, anche se non serviva a nulla e pian pianino il suo respiro rallentò. Lasciò che il tempo scorresse, senza tenerne traccia, poi quando finalmente le prime luci filtrarono attraverso le persiane, si sedette sul bordo del letto e scavalcando la pozza di vomito, si precipitò ad aprirle.
La luce del giorno fu come un sorso di cioccolata calda. Il suo cuore si mise a rintoccare di gioia e i richiami degli uccelli furono come deliziose campane nel giorno di Qin, l’imperatore divino.
“Ormai è mattina: nessun incubo o spirito penetrerà le mie difese, finché le stelle dormiranno”.

Quasi danzando, fece un salto al bagno, dove si dette una dovuta strigliata e si pettinò persino i capelli, cosa che tendeva a non fare spesso per non infastidire il Golag Minore, più burbero che mai quando uno dei devoti accennava alle facezie del corpo, al takeaway o anche all’inoffensivo trading pre-black friday.
Si munì di phon, straccio e scopa e tornò al letto per dare una bella ripulita.

Ci mancava solo che lasciasse sporco un appartamento in cui avrebbe dormito una sola notte.
Come poi quaranta e più appartamenti potessero coesistere in una villa come quella, beh, riguardo a quello Asia non poteva che fare congetture, ma aveva già capito che nella logica il diavoletto della Tasmania di nome Coal era più versato di lei. Insomma, lui ce l’aveva avuta un’istruzione istituzionale. Cercò con gli occhi il telefono, caduto nelle pieghe della coperta sfatta e scosse la testa. “Neanche per idea, papi... ne passerà di acqua sotto i ponti prima che tu abbia mie notizie. Ora che sono fuori dalla tue grinfie, sboccerò a modo mio, non come le tue sgualcite orchidee”.

Cercò in tutti i modi di non ricadere con la mente sul brutto sogno, ma come avrebbe potuto scacciarlo via del tutto, considerando che di lì a poche ore, con un buon 50% di probabilità avrebbe rivisto Vartimor Khan? Non le era sfuggito il suo inaspettato posizionamento al test, addirittura quattordicesimo. Era stato il primo nome che aveva cercato dopo il proprio. Non l’avesse mai fatto. Come minimo era stato quello a impensierirla prima di chiudere gli occhi e così le sue preoccupazioni avevano alimentato quella crudele visione ai suoi danni. “Mi ha abbandonato lui, me lo ricordo come se fosse ieri”.
Ora si stava pentendo amaramente di aver sospirato di sollievo quando aveva visto che era risultato tra i vincenti: con uno così attorno, i sogni non sarebbero certo mutati e non poteva neanche concepire l’idea di passare un’altra notte in quello stato barbarico. Quell’idiota.... non ci aveva nemmeno provato a farsi ammettere, eppure, con qualche espediente da artista di strada quale era, era riuscito non solo ad accaparrarsi un buon risultato sul filo del rasoio, ma anche la sua commiserazione.
Verosimilmente, seppur detestasse l’idea con tutta l’anima, c’era riuscito perché aveva salvato lei dal finire fuori combattimento, all’arrivo dirompente di Armday nella stazione dei tram. Quanti punti poteva valere un’azione disperata di eroismo verso la ragazza dei bambù letali che si era piazzata al secondo posto? Certe volte avrebbe davvero voluto essere meno di successo, così magari gente come Vart non l’avrebbe usata come trampolino. Non importa se era qualcosa di premeditato o meno: lei avrebbe dovuto comunque convivere nella sua stessa scuola, e mangiare allo stesso desco, sotto lo stesso tetto.
Ecco, stava pensando di nuovo a lui. “Sono il tuo più grande fallimento...”

Asia si morse il labbro.
«Smettila, Shiena’q, ricorda perché ti trovi qui».
S’inginocchiò sul tappeto, perlustrando le zone che con la scopa d’ebano, tantopiù con lo straccio, non aveva potuto raggiungere e sospinse fuori la polvere. La potenza del suo soffio era incredibile, forse è per quello che era così brava a suonare la fisarmonica. Lin era solita dire che era un talento di famiglia, ma Asia non aveva mai visto suo padre cantare, figurarsi suonare strumento. No, semmai era il suo Quirk vegetale a dargli quel talento da quattro soldi.
Intascò i suoi dodici fukusasa, uno per ognuna delle otome di suo padre, che aveva disseminato per il pavimento prima di buttarsi a letto. Era stato lui a inculcarle nella testa che bisognava tenere quei rami di bambù dorati a guardia del beddomaza tutte le notti perché contrastassero le cattive influenze dei quirk elementali. Lei però non lo faceva per quello, non era mica una fanatica: a esser sinceri, le piaceva pensare che in quel modo, anche quelle povere dodici anime venissero con lei, che si liberassero dalle catene invisibili del padrone del dojo e avessero la chance di una vita nuova. E nella sua cultura una chance era il dono più prezioso che la legge del karma poteva offrire.
«Statemi accanto, come avete sempre fatto» mormorò stringendone una nel palmo. Era ruvida, ma per qualche ragione si lisciava sempre più, stava diventando una superficie liscia, come l’elsa di una spada.
«Sadica!»
La ragazza si afferrò il polso, presa dalla rabbia.
«No... non faccio del male per divertimento, è contrario alla mia etica».

Prima che potesse muoversi per indossare le calzette fuxia sferruzzate nel primo Ferragosto dalla madre, notò la porta del bagno aperta.
Che strano. Di solito la chiudeva sempre.

Divenne subito guardinga, ma non osò muoversi, e chiunque si celasse dietro quella parete di piastrelle la imitò, perché non un singolo suono giunse alle sue orecchie acute. Il lavandino non era stato chiuso bene, gocciolava. Goccia dietro l’altra, il ciocco che faceva era sempre più forte, era insopportabile. Faceva fatica a tenere gli occhi aperti, ma non avrebbe osato sbattere le palpebre, né ora, né mai. Quell’angolo di 110 gradi formato dalla porta rimaneva lì sul margine della sua cornea, ed era più terrificante di qualunque nemico dei suoi incubi, ma di un terrificante quieto, maledettamente personale.

Ricordò all’improvviso le parole di Armday: «Variabili, ragazza. Non ho paura di te, ma di ciò che non riesco a vedere, oh sì... oh sì che di quello ho paura».

La ragazza ebbe un attimo di esitazione poi digrignò i denti, fino a sentire le gengive sanguinare.
«Giammai, non sarai vittima della paranoia, Shiena’q! Datti una svegliata, non c’è nessuno lì!»

Fu così persuasa delle sue stesse parole che quando una voce spensierata le rispose da dietro la porta, rimase totalmente spiazzata.

«Oh, ragazza, ti stupiresti del contrario». Il tono sdolcinato si caricò di beffarda supponenza. «Come posso dire? Vengo a farmi un tour delle suite femminili e trovo subito una reduce di ptsd in stato aggravato. E hai anche avvertito la mia presenza! Nope, salute cara, non voglio avere a che fare con quelle come te, non finché non mi arrivano gli assegni quaresimali, nupe nap».
Asia schizzò in bagno con non una, ma ben tre stecche pronte tra le dita, ringhiando a ogni angolo, dalla doccia al gabinetto, ma non c’era nessuno.
«Come sarebbe a dire tour!? Fatti vedere, chiunque tu sia!»
«No, spiacente, preferisco attendere il secondo anno per mostrarmi agli allievi, una misura di sicurezza in più non fa mai male, nope, nope».
La voce proveniva dallo specchio, ma quando lei vi si affacciò con grinta vide solo il suo viso ingrugnito.
«Chi sei? Dove ti nascondi? Hai almeno...»
«Normalmente» le parlò sopra il misterioso essere con la medesima voce spocchiosa da capogiro, «eviterei anche di parlare ai primini, ma tu hai catturato il mio interesse, quindi, per un fiore all’occhiello come te, la mia voce è a tua completa disposizione, sempre che tu lo voglia».
Asia sentì un picchiettio insistente alla nuca, vicino al collo e con mano lesta afferrò ciò che lo stava provocando.
«Pessima idea provare a...» ma girandosi rimase di sasso. Il suo spazzolino da denti? Ma non c’era nessuno a impugnarlo. «Cos’è, sei invisibile?» interrogò Asia, iniziando a tastare l’aria con le dita. «Ti diverti a prenderti gioco di me?»
«Un pochino, sì...»
La ragazza strinse i pugni, irritata. Questa volta la presenza parlante e fastidiosa era intorno all’intonaco del soffitto.

«Scus. Scus» si giustificò lui, «non lo faccio apposta eeeee... non sono invisibile se ancora avessi in testa questa malsana idea. A proposito, bei riflessi, madame, e sappi che stimo molto la tua progenie. Anch’io mi definisco giapponese fino al midollo».
«Io non sono...»
«Giapponese? Oh, sì che lo sei, sì che lo sei. Altrimenti come spiegare tutti quei bei portafortuna dal sapore orientale?»
Nel beauty case che aveva a tracolla il peso dei fukusasa si alleggerì all’improvviso come se un magnete li stesse trascinando fuori. Infilò una mano nella sacca per assicurarsi che ci fossero ancora tutti e dodici.
«Da quand’è che mi stai osservando?»
«Te l’ho detto, son' appena arrivato, ma ho tanti occhi, e so cosa alberga nella mente delle personcine che mi abitano, o se non altro posso farmene un'idea».

Nella testa di Asia si accese una lampadina.
«So chi sei. L’uomo più longevo del mondo... quello che ha fuso sé stesso con una stamberga».
Il soffitto tremolò.
«In persona, o forse dovrei dire in carne ed ossa. Aspetta! Nah, non corrisponderebbe al vero. Diciamo che sono là... e là... e anche laggiù, però sono anche qui con te».
«Quindi è qui che hai trovato rifugio perenne...»
«Sì e no, stramba ragazza. Cioè, io ci metto il mio per tenerlo segreto, ma dai... è così scontato. Sembra di guardare un episodio di Sherlock, anche se sono largamente più affascinante». «Non divagare! Ti ricordo che mi stai tutt’ora spiando e non terrò la bocca chiusa su...!»
Uno spruzzò d’acqua s’innalzò come un gayser dalla tavoletta del water.
«Ehhh, che esagerazione, mamma mia, “spiando” è un parolone mica da ridere... bom, bom, te lo dico se prometterai di tacere questa presunta “invasione di campo”. La stamberga di cui parla il mito su di me è in effetti l’HG, e ormai è un bel po’ di tempo che la abito, tipo una vita intera... nope, fai anche due vite intere. Quindi sì... in un certo senso è qui che ho trovato rifugio, però di fatto sono io il rifugio, sono io HG. Io sono il fondatore di questa accademia per Heroes!»

La voce fece una pausa più lunga del normale.
Asia non batté ciglio.
«E...?»
Una forte vibrazione scosse tutti quanti i soprammobili.
«“E”? “E”? Cosa “e”, vezzosa rincitrullita? Ti ho appena detto che sono...»
«Il fondatore dell’HG, bla, bla, bla. E allora?»
La voce perse tutta la rilassatezza che aveva mantenuto fino ad adesso.
«Nessuna reazione sorpresa? Davvero? Ma lo sai che ai miei tempi questa sarebbe definita mancanza di rispetto, carina?»
«Risparmiami le frasi da boomer che cerca di stare al passo coi tempi. Lo sai? Francamente mi sorprende che tu ti sorprenda che io non sia sorpresa... cioè... insomma hai capito. Nel senso, ok, bravo, sei fuso a questo edificio in particolare e allora? Probabilmente lo sa mezza Temigor e prega solo che non giunga alle orecchie di mio padre».

La ragazza posò il palmo sul lavabo, gli occhi bassi.
«Se ti dicessi che lui ti sta dando la caccia?»
La stanza subì un altro scossone.
«Ullallà, che novità. Più o meno metà del Giappone mi sta perseguitando e la Cina pure, ma almeno quei geni verdastri lo fanno con stile. Che c’è piccola? Nutri forse cattive intenzioni verso un vecchietto come me? Nessuno può scalfirmi in ogni caso: è per questo che non mi presento mai in forma umana agli studenti del primo anno. Non si sa mai chi si potrebbe nascondere tra le fila delle mie eroiche pecorelle».
Asia si morse il labbro.
«Non nutro rancore verso di te, non sono mio padre».
«E questo è un bene. Ti ho detto che stimo la tua progenie, ma a esser sinceri tuo padre non è esattamente compreso nella mia visione d’insieme. Com’è che si dice? Oh, sì, ecco lui la considero la pecora nera della famiglia se la cosa non ti offende».
Asia scosse lentamente il capo. «No, neanche un brividino».

«Appost allora! È stato un piacere conoscerti, madame, tanto se anche provassi a farmi fare bye bye io mi limiterei a sigillarti in una stanza a -30° per il resto del trimestre. Boomer o no, resto impenetrabile, non puoi uccidere una villa, nada de nada. Oh, e non dilungarti a parlare del nostro colloquio. Non è una cosa frequente, per non dire che non accade mai. Se si sapesse del nostro abbocco tu per tu, temo fortemente che ci rimarrebbe male qualcuno e lungi da me voler spezzare il cuore a delle fanciulle del secondo e terzo anno, che hanno avuto l’onore e l’onere di stringermi la mano».
La stanza fu attraversata da una specie di riverbero. Tutti gli oggetti si sollevarono e tornarono al loro posto.

«Solo un attimo, signor...»
«HG andrà bene, yep, sputa il rospo, vai vai» ribatté la voce pedissequa precisamente nelle sue orecchie, chiaramente desiderosa di andarsene.
Asia misurò il proprio tono, cercando di essere il più diretta possibile.
«Come fa a sapere che nessuno del secondo anno la tradirà? E... perché si è fermato a parlare con una come me?»
Lo sportello di fianco allo specchio si spalancò facendo rovinare sul pavimento un ammasso di bastoncini ovattati e cotton fioc, assieme a insolite gemme di topazio. Insolite in un bagno almeno. “Significa che è innervosito dalla domanda? O forse da me?”
La ragazza era sicura che prima lo scaffale fosse vuoto.

«Tsk tsk tsk. No... così no eh. Dammi del tu, ragazza, come hai fatto poco fa: non sono ancora un vostro professore. Siamo complici, fratelli d’arme, se ti va, yup, yep. Mi chiedi come faccio a fidarmi? È semplice: non mi aspetto di avere più di tre ragazzi per classe al secondo anno, quindi il rischio è calcolato».
«Tutto qui?»
La voce accennò una risatina.
«Sì e no. Qui partoriamo eroi, Asia Shiena’q, non Heroes, e-ro-i. Riflettici su», fece un’altra pausa «oh vittoriosa».

Fu così che si congedò, lasciandola attonita ancora mezza svestita. Sbuffò stringendosi le braccia al petto. Sulla superficie dello specchio c’erano nitide impronte di dita, forse aveva ancora un corpo quell’uomo straordinario. Certo, le aspettative che si era fatta di lui erano colate a picco dopo averlo incontrato, ma rimaneva un soggetto formidabile, braccato in centinaia di stati per le sue presunte malefatte.
“Ironico che viaggi nelle pareti di una scuola per eroi. Chi verrebbe a cercarlo qui?”
Si morse un labbro, guardando la sua espressione stanca nello specchio ovale.
«Pervertito».

«Boooh, ti ho sentito!»

«Fuori dalla mia stanza, professore» sbottò alla doccia. «Non mi interessa un fico secco se sei un docente, puoi pure andartene al diavolo!».
Ma era già sparito. Una carrellata di camere l’attendevano, per il suo fantomatico tour.
Piuttosto, si domandava se era in grado di ascoltare tutte le conversazioni che avvenivano nella villa senza dare di matto. Insomma, erano pur sempre un centinaio in quell’edificio, forse meno, stando a quante persone venivano cacciate dall’istituto, ma comunque, se l’uomo era onnipresente in ogni parete, le sue “orecchie” dovevano essere stracolme di sciocchezze, che, si sapeva, erano sempre sulla bocca dei ragazzi di quell’età, anche se aspiranti Heroes, soprattutto se aspiranti Heroes. Ebbene, ora che sapeva che sarebbe stata osservata giorno e notte da quella presenza irritante, sicuramente si sarebbe sentita più a suo agio. “Almeno non ho perso il senso dell’umorismo”.

Si vestì, anche se era ancora piuttosto presto, e accese uno stock d’incenso, risparmiato dalla scorsa cerimonia, per coprire l’odore pungente di vomito e sudore, che sperò fosse solo frutto della sua immaginazione. Ci teneva a lasciare immacolate le cose che non erano sue, a maggior ragione se date gratuitamente. Anche quello era parte della sua etica.
Scelse una linea di vestiario basilare. Un paio di jeans, un dolcevita rosa e dei fermacapelli a forma di gabbiette in legno di ciliegio. Voleva fare una bella impressione, non oscurare gli altri. Anche se il format del percorso scolastico sarebbe stato una competizione senza esclusione di colpi, voleva che i suoi compagni potessero contare su di lei e che lei potesse contare su di loro: altrimenti che senso avrebbe avuto chiamarli tali. “Per fortuna la divisa è opzionale”.

Uscì con tutte le sue cose, che depositò amabilmente nel solarium su cui si affacciava il piccolo appartamento munito di bagno, cucina e gabinetto, che avevano disposto per lei. A quell’ora non si aspettava d’incontrare nessuno. Le lezioni sarebbero iniziate entro quattro ore di lì a quella parte e tutti avevano bisogno di dormire per recuperare le forze, in particolare quelli che avevano fronteggiato il soldato pazzo. Per ingannare il tempo, Asia si mise a esplorare la magione, il cui stile singhiozzava nel tentativo di uniformarsi a una sola epoca storica, raccontando invece secoli e secoli di storia e fantasia. Se avessero incaricato un geometra di disegnare la planimetria dell’edificio, probabilmente sarebbe andato in crisi, cercando di evidenziare la sfilza di scale a chiocciola che portavano nel nulla cosmico, tentando di rappresentare in scala delle stanze che in qualche modo schizzavano da un cubito per lato (letteralmente tane per topi troppo cresciuti) a poter contenere intere arene da combattimento, o colossali portaerei per quanto erano spaziose.
Alcuni prodigiosi anche se rari cartelli indicavano la via per quelle sale che Asia presumeva rimanessero fisse e non fossero giocattoli di sfogo per HG (perché era chiaro che era lui ad aver il potere di alterare la realtà di quella villa a piacimento), come la cucina, le classi, la presidenza, gli alloggi dei professori, il laboratorio, la mensa, la cantina, e poche altre che però la misero piuttosto a disagio come la cosiddetta “Sala massacri”, “Neon Discovery” o ancora “Elflandia” e (per qualche ragione la più preoccupante) “Il posatoio del cucciolo di Hearth: possibile redazione di testamento precauzionale all’ingresso”.

Per cercare di orientarsi, lasciava qua e là dei segni con un pennarello, così minuscoli che poteva notarli solo lei, ma anche così aveva il non così vago sospetto che per dispetto HG li cancellasse non appena girato l’angolo, giusto per mandarla in confusione e asserire che, sì, nessuno poteva sconfiggere quella scuola formidabile, impenetrabile all’esterno e incomprensibile all’interno.
Nessuno, se non lei, perché dall’alba al tramonto, per anni e anni, suo padre l’aveva sguinzagliata contro nemici imbattibili e per ogni centinaio di volte in cui era collassata, c’era sempre stato quel singolo trionfo, che era valso più di tutti i fallimenti. Fighting Past: il Quirk di suo padre era stato temprato in una fucina celeste e lei ne aveva pagato il prezzo, e anche se ora a riscuotere le tasse poteva indiscutibilmente essere lei, usuraia di spiriti, il destino se l’era scelto da sola, quella scuola se l’era scelta da sola. “Ho perso così tanto, che ora che ho cambiato rotta non accetterò che il timone ruoti a proprio piacimento. Lo intaglierò con la mia storia, mia e solo mia, e non perderò mai più. In altre parole, ritieniti fortunato, HG, perché se solo lo volessi sfascerei questa scuola come una casa delle bambole. È una vera fortuna che sia dalla parte dei buoni”.

E ancora una volta l’immagine di Vart gli sfolgorò in testa, come un fulmine a ciel sereno.
«Ritiriamoci, Myraw... Hai ottenuto abbastanza punti. Che ragione c’è di combattere più del necessario?»
Non era così, non era mai stato così. In passato, lui, a differenza di lei, non perdeva mai, non era mai afflitto o sovrappensiero. Tutte le sere, quando tornava malmenata ed esausta nella sua casa abbandonata da Dio, in cui persino suo padre rifiutava di mettere piede, lui era lì, assiso su quell’elegante davanzale illuminato, simile a un bardo. E gli acquerelli imbrattavano la tela dando vita a picchi illuminati dagli astri, a pinete incendiate di fuochi vespertini, donne misteriose dalle fattezze abominevoli, seppur splendide.
Mentre lei si leccava le ferite, dominando le emozioni nel buio del disordine che aveva in testa, lui le imprimeva su quel quadrato di stoffa, lui le incideva come fossero rune su armi magiche, la stessa rabbiosa furia che lei aveva in corpo, lui sapeva imbrigliarla e accantonarla per esprimere ciò che c’era in profondità, che i marosi, le onde più calme tenevano relegate nel suo spirito. Così Asia viveva la disfatta di giorno e il successo di notte, in un avvicendarsi crudele, che non faceva che offuscarle la mente, fino a che Vartimor Khan non se n'era andato una volta e per sempre, convincendola che forse era sempre stata un semplice disegno e niente di più.
Stava divagando ancora, quello che contava era la meta.

Girò un angolo e s’imbatté nell’ultima persona che avrebbe pensato d’incontrare, girando a zonzo: Yunix Braviery.
«Ciao, anche tu sei un tipo mattiniero?» Il ragazzo dai capelli grigi era accovacciato. Con una mano teneva stretta una biro, con l’altra si grattava ossessivamente un orecchio. Non sembrò fare caso a lei, né parve che si fosse accorto della sua presenza. «Ehm... tutto bene, Yunix?»

“Mi sa che la nottata non è stata brutta solo per te, Asia”.
Il ragazzo era stranamente distante, in maniera diversa dal silenzio sofferente della sera prima. Era come se... Il ragazzo volse lentamente il viso verso di lei, guardandola con diffidenza.
«Ciao... com’è che sai il mio nome?» domandò a bassa voce, come temendo di disturbare qualcuno.
La ragazza rimase paralizzata.
«Sono... Asia. Sai... quella del test».
Il ragazzo cliccò due o tre volte sul tappo della penna prima di reagire.
«Oh... già, il test».
In stato confusionale, si tirò su in piedi e si appuntò qualcosa sul braccio. Fu rapido, ma non abbastanza rapido. Asia non esitò e scoprì la manica della maglietta, rivelando un assurda infestazione di frasi, scritte l’una sull’altra.

«Oh mamma, tu hai bisogno di aiuto. Cosa sarebbe tutto questo?»
Yunix sottrasse il braccio alla sua presa, ridacchiando innocente.
«Ma è chiaro, no? Una erm... lista. L’ho chiamata la lista di Yunix».
Asia non seppe come rispondere. Ora si stava comportando come un bambino, nel vero senso del termine.

“Ieri ha risvegliato il suo Quirk. Quanto vuoi che gli ha incasinato la mente? Devo farlo tornare in sé con le buone o con le cattive, se necessario”.
Ma gli era sfuggito da sotto al naso. Dov’era? Cercò il piccoletto con lo sguardo e lo ritrovò a curiosare in una porta, ammirato da chissà quale visione.

«Yunix!» lo richiamò autorevole, «spiegami per filo e per segno ciò che ricordi di ieri».
Il ragazzo si voltò, esitò, strinse i pugni.
Vedeva i suoi occhi strani ingegnarsi, gli ingranaggi grigi in funzione nella pupilla. Cercava di combattere qualcosa, un nemico invisibile. Asia premette l'incisivo sinistro sul labbro, chiedendosi se stava facendo la cosa giusta.

Le sue opinioni su quel ragazzo erano contrastanti. Per quanto fosse stato il suo piano a dare scacco matto al villain, per tutta la durata dell’esame, gli era sembrato un po’ un codardo e solo il discorso finale l’aveva riscattato interamente, in sua opinione. No, non si era pentita di aver offerto il suo sangue per rimetterlo in sesto, ma aveva la terribile sensazione che ci fosse qualcosa di eccentrico in quel corpicino striminzito, segnato da ferite indelebili. Il suo passato era avvolto nell’ombra e il suo comportamento altalenava in un’imprevedibilità caotica che le incuteva timore. Detto ciò, era solo un ragazzo, e non voleva che soffrisse per qualcosa che non poteva esternare.

«Per favore, Yunix. Insomma, noi due abbiamo combattuto fianco a fianco».
Il ragazzo si sforzava di ricordare.
«Da-davvero..?»
«Sì... non ricordi..? Coal, Sakuro, il generale».
Il ragazzo sussultò.
«Armday!»
«Sì... l’abbiamo affrontato, l’abbiamo abbattuto, che diamine!»
“Merda, se è messo così male non so se salvarlo è in mio potere”.

Il ragazzo spaesato cercò risposte che non trovava. Si frugò nelle tasche, si guardò il braccio. Borbottava parole senza pronunciarle, lo sguardo fisso in quell’intricata ragnatela d’inchiostro.
«Sì... sì.. come ho fatto a dimenticare?» esalò in un respiro tremulo. La guardò e finalmente la vide davvero. «Asia... io, io non so che mi sia preso».
La ragazza accennò un sorriso.
«Meno male, mi hai fatto venire un colpo».
«Io... suppongo che mi sia perso per strada. Non... non so... è come se avessi dimenticato qualcosa di fondamentale!»

Asia notò un piccione svolazzare di fronte alla vetrata, aveva piume brune e due occhi intelligenti, e un piccolo bijou legato alla zampa.
«Un altro trucco di HG?»
“No cara” s’immaginò la risposta dell’insegnante, “gli esseri viventi non rientrano esattamente nel concetto di edificio, non sei della stessa idea?”
Yunix la guardò interrogativa, ma Asia gli fece cenno di lasciar perdere. C’era già abbastanza carne al fuoco senza che tirasse fuori il discorso dell’entità immutabile che governava una scuola per ragazzi dai poteri speciali in cui bocciavano più del 90% dei partecipanti senza farli passare dal via, solo il primo anno. Ora che lo ripeteva nella sua testa, faticava a credere che fosse reale.
«Quindi apposto?» verificò la ragazza, tirando un pugno amichevole a Yunix.
«Ahia! Ma che hai al posto delle mani, sanpietrini?» fece lui, massaggiandosi il braccio, «sì, comunque. Apposto... cioè non ricordo ancora tutto, ma... sono ottimista... di fare progressi entro l’ora di pranzo».
«Pranzo?» lo fermò Asia, «Abbiamo lezione oggi, te lo ricordi, vero?»
Il ragazzo si passò una mano fra i capelli ondulati, nervoso.
«Certo, ovvio, come potrei averlo rimosso! Mi ripeti... giusto... l’ora?»
«Dieci in punto» sospirò lei esasperata. «La professoressa Warder ci consegnerà le divise e ci riferirà... pheew... in quali classi siamo stati smistati».
Colse il ragazzo sul fatto mentre nascondeva un sorriso.
«Che c’è?»
«Niente, è solo che quando parli di qualcosa inerente alla scuola ti agiti e inizi a balbettare e la cosa mi ha... fatto sorridere».
Asia si strinse nelle spalle.
«Oh, ecco, insomma... è solo...» ma ora che poté squadrarlo bene in viso notò delle lunghe ombre sul suo volto, orbite quasi incavate.
Se si fosse presentato così a lezione sarebbe stato lo zimbello di tutti.
«Sei sicuro di aver chiuso occhio stanotte? Sembra che tu abbia ficcato la testa in una ciminiera».
Yunix fece un altro sorriso colpevole.
«Ehm... schiaccerò un pisolino... tanto mancano ancora due o tre ore alla lezione».
«Qui in mezzo al corridoio?» obbiettò lei.
«E perché no?» le rispose sbadigliando, «c’è un così bel clima qui... quasi come se fossimo in...» I suoi occhi tornarono vacui. «in... com’è che si chiamava quel posto? Quello in cui andavo in villeggiatura con..?»

Il ragazzo ebbe una specie di raptus e schizzò contro il vetro.
«Un momento! Aspetta, aspetta, aspetta! Un altro!» Si teneva una mano sulla fronte. «Un altro... devo..!»
Fece per appuntarsi qualcosa sul braccio martoriato, ma Asia lo fermò, quasi istintivamente. Sentì il polso freddo tra le dita, gelido come un blocco di ghiaccio.
«Insomma, Yunix... è la tua pelle, non è carta!»
Ma le sue parole entrarono in un orecchio e uscirono dall’altro.
L’aggredì, come se lo stesse pugnalando al petto. «Che stai facendo, maledizione!? Mollami! La spada verde, la donna gialla, ricordo tutto!» I suoi occhi scintillarono minacciosamente di blu. «Non hai un briciolo di buon senso per capire quanto sia importante?»

Non poteva vederlo così, non dopo l’appello accorato alla premiazione.
«Scusami» il ragazzo cercò di scansarla, ma lei era più tenace «scusami, ma non sei più in te».
Il ragazzo fece un verso sommesso da animale in gabbia, ma prima che potesse tentare qualcosa lo abbatté con un rapido colpo di karate sotto l’attaccatura del collo. Andò ko in un colpo solo, d’altra parte era un punto focale quello che aveva bersagliato.

Prima che cadesse lo prese tra le braccia e lo adagiò contro la parete.
«Dormi un po’, da bravo. Sono sicura che la tua amnesia... sia solo dovuta alla stanchezza».
Appurò che fosse solo svenuto e poi gli rimboccò amorevolmente le maniche. “Sei sconvolto, come lo sono io, ma ne usciremo fuori, vedremo ancora le stelle, Yunix. Siamo nati per questo, siamo nati per essere eroi”.
In quel corridoio, con HG che si beveva un’aranciata nelle pareti, non correva pericolo di fare male a nessuno, però temeva per la sua incolumità. Se si fosse di nuovo avventato su sé stesso? Le sue tendenze autolesioniste erano già andate troppo oltre. E dire che era così inerme a guardarlo ora, come un cucciolo di animale.

Un’idea azzardata fece capolino nella sua testa.

Odiandosi già, si chinò.
«Con Vart ha sempre funzionato, Cristo Santo». La ragazza represse un brivido, guardando il docile corpo del ragazzo. “Sei sicura di volerlo fare, Asia? Sai a cosa vai incontro”.
Appoggiò il mento sul petto, sorda ai propri dubbi.
«Mi senti, HG? Da quant’è che osservi la scena?»
La parete si srotolò come un arazzo, formando una specie di bocca.
«Quante lagne, non è che mi faccio sempre gli affari degli altri. Ho tutta una sfilza di cose da fare, lo sai?».
«Bugiardo».
«E va bene, mi diletto a curiosare e fare gossip quasi sempre, lucky me, ho pure un giornalino, yep, però gradirei non essere interpellato da primini come te. Dunque, per la seconda e bada bene ultima volta, dì la tua, vittoriosa, e chiudiamo la faccenda in fretta» cascate di segatura cadevano dalla bocca inquietante, mentre parlava.
Asia corrugò la fronte, senza farsi notare.
Era la seconda volta che la chiamava così.

«Ho bisogno di un consiglio e di una promessa».
«Seee. E poi? Vuoi anche che ti porti il caffè, che ti corregga i compiti, che ti porti le snicker della Detnerat in saldo, che magari ti lustri quel visino da puzzola?»
«Silenzio!» tuonò Asia, iniziando a detestare l’idea che aveva in mente. «Vado dritta al punto. Il mio potere, Bambù, non seve solo a far crescere il nutrimento preferito dei panda. Posso... assorbire sostanze presenti nell’aria con un sistema di piccoli fori vegetali che ho sugli avambracci, e al bisogno.... buttare fuori ciò che assorbo sulla falsa riga dello sfiato di una balena». Il muro era silente. «Ehi! Mi stai...»
«Uff, sono annoiato».
“È ovvio, ormai non c’è nulla che lo intrattiene davvero alla sua età, inoltre potendo essere ovunque avrà visto letteralmente scene di tutti i colori. Chi sono io se non un infinitesimale trafiletto sulla sua stupida rivista?”

«Ok, mettiamola così allora: per me usare questa abilità equivale a...» storse il naso. “No, non lo sto davvero confessando a uno come lui”. «Insomma, io lo...»
Capì che HG stava sogghignando.
«Yup, capito alla perfezione. Tieni la morfina, che poi non si dica che sono un uomo irrispettoso. E per... vediamo... due minuti, tre, volterò le spalle, metaforicamente s’intende, e ti lascerò alla tua mmm, “visita medica”».
Asia imprecò in maniera colorita, quando una boccetta medicinale rovinò dal soffitto, rischiando d’infrangersi a terra. Per fortuna ebbe i riflessi pronti e la afferrò con la punta delle dita. “Come pensavo. Era l’unica persona in tutto sto’ edificio che avrebbe considerato l’idea di trafficare un narcotico”.
«Potevi anche evitare la scena alla Mission Impossible, mister H».
“Però è incredibile, ha capito ciò che volevo chiedergli prima che gli dessi una singola informazione. Sa leggere nel pensiero?”
«Perdi tempo, ragazza. Non fasciarti la testa per cercare di scoprire i miei segreti. Ho dati sui vostri Quirk, più approfonditi di quelli delle diagnosi del governo, credimi quando lo dico!» Asia grugnì, scettica.

Diede qualche scossa alla boccetta e l’aprì, sprigionando un odore quasi inconsistente. Strofinò la boccuccia sulle braccia e aspirò il contenuto con i piccoli fori, facendo un bel respiro. La consueta sensazione d’ottundimento euforico la vinse, tuttavia era ancora abbastanza lucida da comporre la sua personale soluzione.
«Mischio la morfina all’ectoplasma per ottenere qualcosa di scientificamente impossibile: l’ho chiamato vita subalterna. E olé. Non c’è modo di separare il vero ectoplasma dal corpo; insomma quello che i medium fanno non è che raggirare i creduloni, ma io posso usufruirne per combinarlo e lo farò proprio adesso, per lui».

Si ricordò che HG le aveva dato tre minuti di privacy, dunque non era lì ad ascoltarla. Perfetto. Quello che stava compiendo era un rituale che aveva condiviso solo con Vart e così doveva rimanere. Intimo. Suo.
Inebriata dalla stessa soluzione bollente che aveva partorito, la ragazza si aggrappò a Yunix e con un gemito, strinse il viso sopito tra le proprie mani.
«E’ più imbarazzante per me che per te» mormorò, inginocchiata contro il muro, il suo corpo sopra quello di lui.
Che bei capelli! Pensò, esaminando il placido ragazzo indifeso. Così impotente! “Controllati”. Qualcosa nella testa le gridava che doveva completare la trasfusione, che non aveva tutto il giorno, eppure... Si rivolse a Yunix.
«Ma insomma... Sei tutto fuori posto, da bravo, fammi...» gli coprì gli occhi con le dita. «Ecco... distendi le palpebre, su, sono qui».
Il ragazzo gemette nel sonno, ma lei lo tranquillizzò.
«Shhh... va tutto alla grande».
Gli sembrò naturale occuparsi di lui. Un gesto di bontà, niente di più. Doveva pur sdebitarsi per averlo mandato al tappeto. Era naturale. Sorrise beata. Gli sistemò il labbro graffiato con unghia, ma non si fermò lì. Sentiva che doveva andare più a fondo. “Con la bocca aperta, filtrerà più essenza nel suo corpo... è a fine pratico”.
Il pollice trovò la sua strada per la bocca e schiuse la cavità ricolma di saliva. Pelle contro pelle. Tanto freddo e tanto caldo, ghiaccio e fuoco assieme. Le orecchie di lui tangevano i capelli di lei. Una pulsione nell’area dell’inguine le alzava la temperatura, la spronava a fare buon uso delle mani che torceva in conflitto con sé stessa, non riusciva a stare ferma. “Controllati”. Così inerme! Alitò forte diffondendo in lui la medesima carica che era in lei. Così mio! Senza un ripensamento, strusciò il naso contro il suo, e avvertì il suo respiro, lo sentì respirare il suo stesso fiato caldo.
Uno per uno i tubicini di bambù emersero tra i ricami del dolcevita rilasciando il gas ectoplasmatico. Per tutta risposta lei avvinghiò le braccia ancora più strette. Nemmeno si accorse di avere la bocca in quella di lui, finché non provò l’impulso di morderlo, di strappargli quelle labbra pallide, di farlo sanguinare. Anche il suo fiato era sostanza. Quale modo migliore di trasferirlo che un bacio? Un bacio, niente più che un bacio, era naturale, naturale. La stretta era tenace, stritolante. «Yunix!» cantò, riempiendolo del suo elisir. Sul vertice della sua passione, la magia si spezzò.
Come acquedotti romani in tempi di siccità, i bambù esaurirono la merce inestimabile e quando Asia lo percepì, recuperò il senno e con esso la consapevolezza di ciò di cui si era macchiata, e una vergogna colpevole si sostituì al battito incalzante del cuore.
«Merda...» Un rivolo di saliva collegava ancora le due bocche affannate. «Merda... come temevo!»

Come una bambina di fronte a una malefatta di cui era causa, Asia provò il primordiale impulso di nascondere la mano, di incolpare qualcuno o qualcosa, ma quale capro espiatorio poteva caricarsi di un delitto tanto irrimediabile. Disgustata dal suo corpo, si ritrasse dal corpo di Yunix e si adagiò contro il muro al suo fianco, le lacrime agli occhi.
«Merda... Non m’importava nulla di lui» si sentì bene nel dirlo, così continuò, «ero io che volevo distrarmi... che volevo fingere di stare ancora con Vart. Non pensavo... che sarei arrivata a tanto».
Come agire ora? Poteva far finta di nulla? La cosa più brutta era che si sentiva ancora arrapata.

«HG... torna da me, per favore» pregò, serrando le nocche fino a farle sanguinare. Tirò sul col naso, incapace di guardare la persona accanto a lui. «Non sono riuscita a controllarmi, il mi-mio potere ha fatto di testa sua. P-pensavo che con un altro sarebbe stato diverso. Ho sottovalutato le mie condizioni, sto da cani, sto da cani e non me n’ero nemmeno accorta» singhiozzò rumorosamente, appoggiata alla parete silenziosa. «Qual è la pena? Sono disposta a qualunque cosa, anche l’espulsione...» la sua voce tremò mentre lo disse.
“Ho imparato a combattere sul campo di battaglia, ma nessuno mi ha mai insegnato come combattere nella vita di tutti i giorni. Io e te, Vart, eravamo spiriti liberi. Che ti è successo? Cosa diamine ti è successo?”
Un filo di vento le scompigliò i capelli raccolti in una crocchia. Era vento gelido, con... fiocchi di neve turbinanti?

«Che bel pasticcio! L’Alaska nella stanza sette non è stata la migliore delle idee!» annunciò la voce rilassata ed eccheggiante di HG. Asia non rispose. Un groppo alla gola le impediva di respirare bene. «Allora, espulsione. Vediamo, vediamo un attimo. Ho qui tra le mani il regolamento, redatto da me, ovviamente. Vediamo... mm... molto discutibile... che altro? No, queste sono per i sicari sotto copertura... Oh, questa è la mia preferita... “in caso vengano liberati polli nell’ufficio del preside, il colpevole friggerà le chicken wings per tutti e... udite, udite non ne avrà neanche una per sé, accipicchia!”»
Asia accennò un sorrisetto. HG esplose in una risata.
«Eccola, lì, l’invincibile seconda classificata! Parliamoci chiaro, milady, ne ho fatte anch’io delle stronzate da ragazzo... però... arrivare a buttare via una carriera da sogno per un microscopico piccolo...»
«Non è una scusa valida» ribatté la ragazza, «non è una cosa che farebbe un Hero» “Non è una cosa che farebbe Vart”.
HG rise, facendo tremare il soffitto.
«Oh, questa è fantastica! Heroes, paladini della giustizia. È così che li immagini?»

Asia si asciugò gli occhi. «Non faccio d’ogni erba un fascio, non credo che tutti siano come All-Might, però... è l’Hero che voglio essere».
«Comunque imperfetto».
Asia sbraitò irata, non sapendo nemmeno con chi prendersela.
«Allora Ten Ken, C&P, Modus!»
«Imperfetti, tutti quanti! Fonte: trust me, bro».

Imperfetti? Se loro lo erano, cos'era lei? Una sadica stralunata depravata? "Ma c'è tempo per cambiare, già, non sono in questa scuola per diventare forte, per quello ho avuto tutta la mia vita a disposizione. Se ho scelto questa professione, è perché so di avere in mano le staffe che mi condurranno al cielo, gli schinieri bronzei della campionessa perfetta, la lancia perforante di una dea!" Se tutti loro erano imperfetti, aveva una ragione in più per saltare su quel carro della vittoria. Qualcosa si demolì nel suo cuore, ma non era amore, né gioia, erano rimasugli di dubbi, che da tempo la tenevano ancorata al fondale, come cirripedi infestanti. 

«Allora sarò la prima!»

Le sue parole erano definitive e la parete parlante lo capì.
«Sbagli cercando la perfezione, vittoriosa, ohhhh, non sai quanto! Le contraddizioni ci rendono eroi, problematizzano la nostra condotta, in modo che possiamo stare al passo coi tempi, in modo che possiamo evolverci, ma rispetterò la tua scelta».
«Come ti pare»“Hai detto bene! Io sono la vittoriosa!” «Prima ti sei riferito a noi come complici. Farai finta di non aver visto niente, HG?»
L’essere sogghignò.
«Sono lusingato dalla tua fiducia in me! Ho promesso che ti avrei dato la tua decantata privacy e l’ho fatto. Anche volendo, non potrei recriminarti niente. Io non so davvero cosa tu abbia fatto nei minimi dettagli, ebbene sì, ho tenuto le orecchie e gli occhi foderati di groviera tutto il tempo!»

Asia si alzò in piedi.
«Meglio, d’ora in poi niente più vacillamento, niente più false partenze! Quanto a Yunix...» l’espressione afflitta della ragazza tornò a fare capolino, senza che potesse farci niente a riguardo. «Prometto che non abuserò più della sua situazione, anzi, m’impegnerò a essere la migliore amica che abbia mai incontrato. Glielo devo, dal momento che l’ho usato come “distrazione”. So che non mi perdonerei una seconda volta».
La bocca sulla parete si arricciò in un sorriso.
«Bye, bye, allora. Non provare a convocarmi ancora, non sono al tuo servizio, okkay?» il tono si fece ammonitorio, «E guai a te, non peccare di ubris, Asia, anche se ho oltrepassato la linea per te una volta, non intendo farlo di nuovo; quindi, vedi di non fare altre cazzate, o capirai perché più di mezzo continente è sulle mie tracce, donna avvisata, mezza salvata».

Asia annuì. Anche potendo, non avrebbe più chiesto il suo aiuto.
La ragazza vide il piccione di prima appollaiato su un ramo. Ancora li fissava. Peluria folta gli cresceva sulle zampette squamose, e una brutta ferita all’ala destra era stata rammendata con pezzi di cartone sfasciati, raccolti in chissà quale discarica.
Titubante, porse le dita nella sua direzione, anche se c’era il vetro a separarli. L’uccello aprì il becco, poi lo richiuse. Forse fu la sua impressione, ma la creatura gli parve insolitamente conscia di ciò che era successo, tosto che avesse le conoscenze per capirlo.
«Ehi...» Il pennuto si arruffò le piume col becco e prima che i suoi occhi potessero percepirlo spiccò il volo e ad ali spiegate raggiunse il cielo. Era un piccione viaggiatore, come aveva fatto a non capirlo, con quel gioiello che teneva alla zampa? Forse aveva sbagliato rotta, però ora volteggiava di nuovo, verso luoghi più elevati, scendendo in picchiata, planando su sobborghi segreti, per cui nessun mortale avrebbe intrapreso un viaggio.
Incurvò le labbra, fiduciosa, quasi vedendo una scia di piume candide diretta alle nuvole.
“Tu sarai la prima, Myraw”.

«Sul mio onore, Vart, sarò vittoriosa».
 
 
«Affrettati, Yunix, oh mamma, il sole è già alto!»

Il ragazzo si arrestò di fronte alla docente, le gambe dolenti.
Colombe stormivano fuori dalle finestre e il corridoio era in subbuglio.
«Professoressa Milia! La divisa, la prego!»
La donna spalancò la bocca.
«Wow, sei in forma smagliante! E hai un sorriso che va da un orecchio all’altro. Che hai mangiato a colazione, adrenalina in polvere?»

Il ragazzo chinò il capo, imbarazzato.
«Hehe... in realtà non ho fatto in tempo. Però ha ragione, mi sento bene».
«Bene? Bene è una minimizzazione, se ne conosco una! Cioè... nel senso... risplendi di luce tua!»
Il ragazzo si grattò la testa.

«Boh... credo... non so... è come se mi fosse capitato qualcosa di stupendo, che non riesca a ricordare: ho le traveggole, le budella attorcigliate, non so se mi spiego e... e poi in bocca ho un sapore dolcissimo, zuccherato».

Milia Warder fece lampeggiare gli occhi segnaletici, pimpante di gioia.
«Ma questo è amore, vero amore. Ne sono felice, piccolino! Vai e spacca tutto! Ah, ahhh come mi piacerebbe poter tornare indietro e fare lo stesso percorso, abbracciarmi stretta, stretta col mio dolce Luffy... tieni prima che mi scordi, classe 1°A».
«1°A, capito...» rispose Yunix, prendendo la sua uniforme. «Ma... ma...»
«Nera e rossa, metà e metà, come volevi tu, stellina!»
Milia gli fece cenno di aprire l’involucro, così il ragazzo lo strappò e l’abito nuovo fiammante si dispiegò alla luce.
«Io, io, grazie... non penso di meritarmela, però grazie».
«Beh, noi te la diamo, tanto basta uno snap perché ti venga ritirata». Gli pose un dito sul petto. «Il tuo solo compito è tenerla stretta. Capito, Yunix, conto su di te!»
Il ragazzo sentì le dita scorrere sulla stoffa. Il colletto elegante, il cravattino, la fibbia d’argento, i bottoni color ocra e gesso, non aveva mai indossato un vestito del genere nella sua seconda vita.

«Non speri l’impossibile, professoressa. Ciò che le posso promettere è che sarò dalla vostra parte, che la mia lealtà non vacillerà facilmente. Nonostante mi abbiate stretto catene ai polsi, nonostante abbiate sminuito il mio libero arbitrio... io scelgo questa parte dello schieramento, giusta o sbagliata che sia».
La donna sbatté le palpebre.
«Che... che intendi..?»

Yunix la ignorò e s’incamminò verso la classe che l’attendeva, la cricca di gente pazza con cui avrebbe condiviso gioie e dolori.
“10:12. Solo uno come me arriverebbe in ritardo alla prima lezione, anche se non è tutta colpa mia”. Sentiva una strana leggerezza in testa, gli parve quasi uno spreco usarla per pensare. Si cavò di dosso i vestiti che gli aveva procurato Shig e li ripiegò dolcemente. “Come stai, instancabile lavoratrice? Hai mandato a quel paese quella vecchia scoreggia del capovillaggio?”

Dalla parte opposta dalla porta di frassino c’erano venti bacili dorati allineati in file ondulate da quattro, sopra una specie di albero della fede, diciannove delle quali già piene, o della divisa, per i più, o dei vestiti comuni. A quanto pareva, mettersi l’uniforme non era necessario. “Io però la metto, sia mai che mi dicano qualcosa”.
Depositò i vecchi vestiti nella bacinella vuota e indossò febbrilmente la divisa nera e rossa. Una specie d’incrocio tra quella degli studenti e quella dei controllori. Sarebbe stata un pugno in un occhio a confronto di quella degli altri, ma se era un bersaglio quello che intendevano mettergli addosso, allora Yunix sarebbe diventato più immortale di Rasputin, più immortale di un dio della morte.
La sua mano toccò la maniglia.

“Chi saranno i miei compagni... o dovrei dire avversari? Quale sentiero mi aspetta, quale porta seguirà questa, e quale la prossima?”
Yunix fermò il tremore della mano e fece scattare la serratura. “Passato, presente, futuro, non ha alcuna importanza: io intendo ricostruire la mia vita da zero!”

La porta si aprì. Neanche il tempo di gettare uno sguardo dentro che un panorama sensazionale gli si parò davanti. Stelle, galassie, pianeti, una notte infinita!

Uno stuolo di ragazzi lo aspettava al varco, prima tra tutti una “vecchia” conoscenza.
«Ecco l’ultimo, non mi sorprende sia tu, Yunix, forse era scritto nella pietra, o... restando in tema, negli asteroidi» Asia gli ammiccò con entusiasmo.
«Speriamo sia all’altezza» lo accolse altezzosa la ragazza dai lunghi capelli ametista che era arrivata in terza posizione, dandogli le spalle.
Un ragazzone con tutta un’apparecchiatura installata sopra l’uniforme nera si massaggiò timidamente il polso. «Fermi tutti! Non è... non è il... il ragazzo del discorso?»
«Sì, no, che differenza fa?» rimbrottò deplorevolmente il ragazzo ricoperto di rughe a spirale, come se fosse finito lì per puro caso. I suoi occhi color anice erano venati d’apprensione.
«Si vede lontano un miglio che è lui, cercate di fare poca caciara!» abbaiò Marin, dall’alto di una sedia, un’agenda tra le mani.
«Tsk, sul serio, non è mica arrivato il presidente degli Stati Uniti». Yunix notò di sfuggita Lex, fuori dal cono di persone, appoggiato al muro a braccia incrociate.
«Istinto parla e istinto legge paura! Istinto legge tensione!» gridò famelica una ragazzina con un colbacco in pelle di procione e una cascata ingarbugliata di capelli arancioni, alzando un dito.
«Kylla, non è certo una sorpresa, lo stiamo guardando tutti». Yunix riconobbe la voce di Chooki, tenue, che passava quasi in sordina. Il ragazzo con la stella di stoffa sul capo gli rivolse un mesto sguardo complice. «C-ciao, “con te”».

Il ragazzo capì che era il suo turno di parlare. In un attimo, la tensione era scomparsa, sostituita da una trepidazione incontenibile.

«Già, sono io l’ultimo di questa classe e in questa vita...» “È così che ci si sente felici?”

«In questa vita mi chiamo Yunix Braviery!»
   
 
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