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Autore: elenatmnt    17/01/2023    1 recensioni
Sherlock ha deciso di fare un esperimento su sé stesso, John cerca di mantenere la pazienza. Insomma una giornata normale finché...
Genere: Generale, Hurt/Comfort, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note di quella che scrive:
 
Questa storia partecipa alla Challenge ADVENT CALENDAR 2022 del Gruppo Hurt/Comfort Italia - Fanart and Fanfiction - GRUPPO NUOVO
Strano da parte mia, tuttavia ci sono momenti nella vita in cui ci si va leggeri e questa è una storia molto light per i miei standard (ho detto per i
miei standard, non per i vostri hihihi)!!! Scherzi a parte, non ci sono avvisi per questa storia, tranne che mi sono divertita a buttarla giù nero su bianco 😉
…………………
………………………………………………………...
 

 
QUANDO I RICORDI

 
 
Poteva essere una buona giornata. Poteva esserlo; non lo era.
 
" Non sono un genio?!"
“Un idiota!”
“Prego?”
“Fare esperimenti sulla propria pelle non è genialità”.
“Punti di vista”.
“Non ci posso credere. Fai sul serio?”.
“Per ottenere risultati bisogna fare sacrifici”.
“Anche farsi venire la febbre?”.
“Semplice effetto collaterale”.
“Effetto collaterale lo chiami? Tu sei pazzo!”.
“Me lo dicono spes…” un violento colpo di tosse gli spezzò la frase.
“La febbre non passerà da sola. Allora, ti decidi a farti visitare?” ecco che il suo istinto dottore veniva fuori, dimenticandosi per qualche istante della collera in evidente ascesa.
“No”.
“Non userò nulla di più che uno stetoscopio e un termometro. Dai non farti pregare”.
“Credevo ti fosse chiara la mia risposta”.
“Non capisco il problema”.
“È qualcosa che posso risolvere da solo, per cui, non ho bisogno del tuo dottorato per formulare una diagnosi che conosco”.
“Da quando saresti un medico?”.
“Non c’è bisogno di essere un medico per curare un banale raffreddore e un po’ di febbre”, affermò minimizzando ciò che realmente aveva.
“Questo lascialo decidere a me. Allora, ti decidi a farti dare un’occhiata?”.
 
In risposta ricevette solo silenzio.
 
“Hai preso almeno qualcosa? Anche solo del paracetamolo?”.
 
Sherlock non rispose, preferì tacere alle continue insistenze del suo coinquilino, il silenzio era l’arma perfetta contro John, sapeva quanto il dottore detestasse essere ignorato.
Barcollante, Sherlock, si alzò dal divano per andare in cucina a smanettare con qualche esperimento in corso, il tutto senza degnare di uno sguardo Watson. Come volevasi dimostrare, John incrociò le braccia e fece una smorfia scocciata mentre vedeva il suo coinquilino fare qualsiasi cosa tranne che considerarlo o perlomeno, rispondergli.
 
“Ok Sherlock! Come vuoi tu. Sai che ti dico? Esco!”.
 
Nessuna risposta, Sherlock era impegnato a fissare qualcosa nel microscopio, non lasciando trapelare che in realtà non stava osservando proprio nulla. Era solo una scusa come un'altra per non tornare sull’argomento ‘febbre’. E John lo sapeva benissimo.
“Oggi c’è il Black Friday. All’improvviso mi è venuta un’immensa voglia di fare shopping” sputò fuori tutto il suo sarcasmo.
La stizza lo accompagnò verso l’uscita, afferrò la giacca e prima di varcare la soglia sentì il bisogno di puntualizzare cose stupide, era solo un espediente per prendere tempo nella speranza che il detective lo fermasse. “E un’altra cosa, il frigo è vuoto, non aspettarti che io faccia la spesa!”.
 
Nessuna reazione da Sherlock.
 
“Inoltre, rimarrò fuori tutto il giorno!”.
 
Niente.
 
“E se starai male perché continui a trascurarti, non venire a cercare il mio aiuto”.
“Credevo te ne stessi andando!”
“Infatti”
“A fare Shopping”.
“C’è il Black Friday”.
“Bene”.
“Bene!”.
 
Nel gioco della resistenza, John aveva malamente perso.
 
***
 
 Più tardi.
 
“Sherlock sono tornato”.
Se c’era un pregio attribuibile a John era di certo l’indulgenza. Gli era bastata una passeggiata di poco più di un’ora per dimenticarsi sia del cruccio con cui era uscito di casa e sia della vana minaccia di non fare la spesa.
 
“Stasera mangiamo italiano” affermò entrando in casa con le buste; le aveva poggiate sul pavimento in cucina e tentò nuovamente di parlare ad un interlocutore che ancora si rifiutava di rispondere. “Sherlock mi hai sentito?”.
 
La casa sembrava vuota, finché ascoltando meglio sentì il rumore dello scrosciare dell’acqua provenire dal bagno, così si avvicinò per farsi sentire.
 
“Sherlock, sono tornato. Sai, al posto tuo mi sarei sdraiato a riposare piuttosto che fare una doccia”.
 
E rivivendo la situazione come un dejà vu, ancora una volta, non ebbe alcun cenno di risposta.
 
“Sherlock? Senti, puoi stare nel tuo Mental Palace quanto ti pare, ma sul pianeta terra John Watson ti sta parlando”.
 
Un sospiro rumoroso uscì dalle narici del medico ed era certo che, nonostante la porta e il rumore dell’acqua, Sherlock lo avesse sentito.
 
“Molto divertente, Sherlock” ironizzò amaramente.
 
John si ostinava ad insistere ad aiutare una persona che proprio non voleva essere aiutata, il suo coinquilino era fatto così, quando si metteva in testa una cosa non c’era verso di fargli cambiare idea e al diavolo che alle volte ci andasse di mezzo la propria salute, Sherlock era un genio ma allo stesso tempo un ottuso senza speranza.
 
John tornò in cucina a mettere a posto la spesa finché sentì un tonfo provenire dal bagno.
 
“Sherlock!” subito il suo istinto protettivo prese il sopravvento e si catapultò sulla soglia del bagno bussando con foga. “Sherlock, tutto bene?”.
 
Il nulla.
Lo pervase una sensazione di ansia, sentiva che qualcosa non andava.
 
“Ne ho abbastanza, che ti piaccia o no apro la porta” e così fece. Non ebbe bisogno di sfondarla, non era chiusa a chiave; tuttavia ciò che vide fu più doloroso di una spallata: Sherlock era riverso a terra nella doccia, completamente vestito e semincosciente; l’acqua che gli scorreva addosso era ghiacciata e tutto il corpo tremava visibilmente.
 
“Sherlock!” John gli corse incontro, chiuse il getto d’acqua e gli si inginocchiò accanto. “Hey mi senti?” disse dandogli qualche lieve colpetto sul viso. “Sherlock, su apri gli occhi”.
 
Il detective tentò uno sforzo per ubbidire a quella voce lontana nella sua testa, quella voce famigliare che lo riportava a casa. “Jo…hn…”.
 
“Che cosa è successo?” fu l’istinto a parlare, la ragione gli gridava a gran voce di portarlo via di lì.
“Cal…do…”, ne uscì un sibilo spezzato. Tuttavia l’unica parola pronunciata fece capire a John cosa poteva essere successo durante la su assenza.
 
Evidentemente la febbre era salita in modo spropositato, che per trovare sollievo, Sherlock si era gettato vestito sotto un getto di acqua ghiacciata. Preferendo fare una follia simile, piuttosto che chiamarlo.
 
John fece appello a tutta la sua pazienza e al soldato dentro di sé, quello che rattoppava al meglio i commilitoni sul campo di battaglia, quello che non si faceva scrupolo di mozzare parti del corpo se questo serviva a salvare la vita dei suoi soldati. Con Sherlock doveva arrivare sempre a dei compromessi per ottenere ciò che voleva, ma non questa volta; che Sherlock lo avesse insultato o odiato, John avrebbe fatto di tutto per venire a capo di ciò che stava accadendo.
 
“Vorrei chiamarti stupido. Ma ti risparmio la ramanzina per quando starai meglio” disse tirandolo su di peso e trattenendosi dalla voglia di gridare.
“Sto… be…”.
“Stai zitto. Hai voluto fare di testa tua e ora ti ritrovo in queste condizioni; adesso, che ti piaccia o no, si fa a modo mio e non è un’offerta trattabile” affermò risoluto con un tono che non permetteva di controbattere.
 
Raggiunta la camera di Sherlock, lo adagiò piano sul pavimento, mettendolo a sedere con la schiena appoggiata a un angolo del letto; il detective stava tremando malamente, il suono dei denti che battevano incessantemente gli uni con gli altri era diventato come il ronzio di un insetto.
“Su coraggio, dobbiamo togliere questi vestiti fradici e mettere qualcosa di asciutto. Dove trovo un pigiama pulito?”.
“Mmm… fac…cio… solo…”.
“No. Ti aiuto io e non si discute”.
 
 
John non aveva nemmeno tentato di nascondere la collera, non sopportava l’idea che il suo amico si fosse ridotto così solo perché aveva deciso semplicemente di trascurarsi. La verità era che John era arrabbiato con sé stesso perché avrebbe potuto evitare molto prima di arrivare a quel punto se solo si fosse imposto.
E già, poteva evitalo e non l’ha fatto.
 
Di nuovo.
 
Il senso di colpa era la forza motrice che muoveva ogni fibra del suo corpo e che man mano si era trasformata in rabbia.
 
“Se non mi dici dove posso trovare un cambio pulito, lo troverò da solo. Perciò, dimmi dove cercare prima che ti metta sottosopra io cassetti”.
 
Nel suo delirio, Sherlock aveva capito che John non stava scherzando e cosa ancora più strana, era vederlo diventare iracondo man mano passavano i minuti. Preso in contropiede da quel nuovo atteggiamento di John, il detective decise di iniziare a collaborare; alzando semplicemente l’indice, indicò il comodino accanto al letto.
 
“Molto bene” disse John senza perdere il volto serioso; si catapultò a prendere il pigiama pulito, un asciugamano dal bagno e la sua borsa in camera. “Ok, se collabori, in un minuto sarai al caldo nelle lenzuola. Su coraggio”, lo incitò sfilandogli la maglia e lasciandolo a torso nudo; con l’asciugamano gli tamponò l’acqua residua dei vestiti, assicurandosi di fare più in fretta possibile.
La pelle d’oca segnava tutto il corpo, i denti non avevano mai cessato di battere e il freddo gli mozzava il fiato.
 
“Bene così” lo incoraggiò John infilandogli la maglia pulita e con foga gli strofinò le braccia e la schiena per riscaldarlo col calore delle proprie mani.
In un altro momento, un simile contatto sarebbe stato a dir poco inappropriato, eppure John non fece caso a tutto ciò; chi mise a mente ogni singolo movimento fu Sherlock che si lasciò manipolare senza dire una sola parola.
 
Quella parvenza di sottomissione non durò a lungo, tutto cambiò quando John stava per sfilargli i pantaloni. Sherlock si irrigidì palesemente alle mani troppo veloci e decise del suo coinquilino.
 
“Dai Sherlock, che ti prende?”
“N…non vorrai…”.
“Ci metteremo un secondo e giuro che non ti guarderò”.
“Lasciami… in… pace”.
“Sherlock non abbiamo tempo per queste scenate di imbarazzo infondate, guarda come sei ridotto e stai solo peggiorando. Sono io, non hai nulla di cui vergognarti” ha tentato di convincerlo con una svenevole sceneggiata.
“N…no”.
“Sherlock stai bollendo e tremi come una foglia secca. Ho bisogno di capire che cos’hai. Per favore, lasciati aiutare”.
“Non ho… biso…gno del tuo aiuto”, nonostante le forze venissero meno, Sherlock si mostrò irremovibile nella sua decisione. E fu proprio quella fermezza, su una motivazione apparentemente infondata, che John perse quel briciolo di pazienza che aveva custodito con gelosia nei meandri più nascosti del proprio inconscio.
 
“Cazzo Sherlock!” urlò spazientito John.
 
Un turbinio di spiacevoli ricordi si fecero strada nella propria mente, rivangando dispiaceri, paure e colpe. Come era stato possibile? John Watson era certo di aver mantenuto il controllo di sé stesso, era certo di essere capace di gestire quelle immagini del suo passato di soldato. Era certo di aver dimenticato.
 
“Come puoi essere così irresponsabile? Per la miseriaccia!” diede un pugno sul comò.
L’atteggiamento sboccato e violento di John, lasciò Sherlock esterrefatto. Mai aveva visto il suo miglior amico comportarsi in quel modo e tutto divenne ancora più surreale quando gli occhi di John divennero un po’ troppo lucidi.
“Perché non vuoi farti aiutare? Perché vuoi fare il granduomo e pensare di avere la soluzione alla portata di mano? Tutto è facile finché non perdete il controllo e aspettate che sia John Watson a risolvere la situazione. Ma io non faccio miracoli, se vi buttate da un precipizio non mi spunteranno le ali affinché io vi afferri. Per l’ennesima maledetta volta, fatevi aiutare, altrimenti non posso salvarvi! Lo capite? Non. Posso. Salvarvi!”.
 
Poche lacrime rigarono il viso adirato e deluso di John.
Sherlock non fece altro che guardare, ascoltare e… pensare.
 
“Seconda per…sona… plura…le…” quella frase era il frutto di uno sforzo immane.
 
Solo quando Sherlock glielo fece notare, John si rese conto di aver sputato fuori qualcosa che doveva assolutamente tenere nascosto, qualcosa del suo passato che lo tormentava e che mai avrebbe voluto venisse fuori. Non con Sherlock, almeno; non in quel modo.
 
“Mi sono confuso”.
“No…n sai men…tire… e stai pian…gendo…”.
 
Nemmeno se ne era reso conto. Subito si voltò di spalle e si asciugo gli occhi col dorso della mano, ormai il danno era fatto.
 
“Ti chiedo scusa Sherlock. Non dovevo comportarmi così. Non sono stato professionale come dottore e nemmeno rispettoso come amico. Ti porgo le mie scuse”.
 
“Non im…porta, John. L’ho già… dimen…” le parole gli morirono in gola, interrotte da un violento colpo di tosse.
“Sherlock!” John gli si inginocchiò dinanzi prendendo il volto dell’amico tra le mani. “Sherlock non puoi rimanere così…”.
“John… di…chi…?”
“Sherlock, non ha importanza di chi parlavo” deviò al meglio l’argomento. “Stai peggiorando, ti prego, ti scongiuro, permettimi di curarti”.
 
Gli occhi di John tornarono a luccicare, la sua supplica celava un dolore latente, seppellito nei ricordi del suo passato e ad un occhio esperto come quello del detective, un dettaglio del genere non sfuggiva di certo.
“D’accordo John. Fai… ciò… che è… neces…sario”. Sherlock non lo fece per sé, lo fece per John. Il modo migliore per aiutare John, qualunque fosse il demone del suo passato, era farsi aiutare. Sherlock glielo doveva.
 
Il dottore non perse tempo, tirò sul letto Sherlock e gli sfilò via i pantaloni e le mutande bagnati e gli infilò i pantaloni puliti, il tutto lo fece con velocità e massima discrezione. Evitò lo sguardo di Sherlock per non metterlo ulteriormente in imbarazzo, conosceva bene molti espedienti per mettere i pazienti a proprio agio.
“Meglio vero?” non era una domanda che attendeva una risposta.
John prese la sua borsa e l’appoggiò sul comodino accanto al letto e ne estrasse uno stetoscopio; lo indossò con fare professionale e sembrava un’altra persona mentre vestiva i panni del dottore. Lo strumento freddo sulla pelle di Sherlock lo fece trasalire, John fece finta di non farci caso “fai un bel respiro profondo” e il detective ubbidì senza pronunciare parola, anche se John sapeva che dietro alla debolezza, dietro gli occhi acquosi per lo stato febbrile, dietro la fronte imperlata di sudore, Sherlock bramava di sapere.
“Bene” disse semplicemente appena finì di auscultarlo, “apri la bocca” e lì vi trovò posto un termometro.

Il silenzio divenne palpabile, quasi fastidioso, c’era qualcosa in sospeso che gridava a gran voce di essere dichiarato.
“Si chiamava Cooper. Simon Cooper”. Parlò il dottore ponendo fine all’estenuante silenzio; prese l’asciugamano e ripulì la fronte fradicia di Sherlock senza mai guardarlo negli occhi. “Aveva venticinque anni, a guardarlo non gliene avresti dati diciotto eppure era una macchina da guerra. Un cecchino, uno dei migliori. Lo predavamo tutti in giro, in senso buono s’intende; essendo una nuova recluta e con quella faccia da bravo ragazzo, non era strano essere preso di mira dai veterani. Ad ogni modo gli volevamo un bene dell’anima ed era come il fratello minore di tutti, quello da proteggere; anche se a lui questo infastidiva un po’, lo capisco, voleva essere trattato come un uomo e non come un moccioso. Avresti potuto dargli torto?!”.
John si interruppe e sospirò col fiato mozzato. Prese il termometro di Sherlock e ne controllò il risultato senza commentare ciò che lesse. Il tutto in silenzio.
Si allontanò per qualche istante recuperando un panno e una bacinella d’acqua che appoggiò sul comodino. Immerse la pezza per inumidirla e posò con cura sulla fronte di Sherlock, il quale non gli tolse per un solo istante gli occhi di dosso.
Con la stessa calma, dopo aver coperto il detective con un paio di coperte pesanti, John prese una sedia e si sedette di fianco al letto.
Sospiro e continuò.

“Un giorno, uno di quelli terribili dove sei occupato a rimettere insieme pezzi di arti e budella, uno di quei giorni dove il rosso è il colore che ti circonda, uno di quei giorni in cui sei troppo preso dalle urla strazianti dei tuoi compagni che invocano la propria madre… In quel giorno, è stata la mia superficialità ad ucciderlo. Avevo visto che Cooper non stava bene, sospettai avesse la febbre, ma lui si era offerto di riportare quanti più soldati indietro dal campo di battaglia. Non c’era tempo per pensare, dovevo solo agire e gli permisi di aiutarmi, trascurando il suo reale stato di salute. Quel giorno salvò più di dieci vite. Quando, sporco, stanco e fiero portò l’ultimo commilitone in salvo. Mi guardò negli occhi, mi guardò come se cercasse la mia approvazione, come se tutto ciò che aveva fatto avesse avuto il solo e unico fine di compiacere me. Non ebbi il tempo di dirgli nemmeno un semplice ‘bravo’, che lo vidi accasciarsi al suolo. Mi precipitai da lui, cercavo una ferita, doveva per forza essere ferito. Altrimenti perché avrebbe ceduto in quel modo? La verità è che non trovai alcuna ferita; trovai un morso di serpente e lui lo sapeva. Era consapevole di essere stato avvelenato, ma ha sfidato la morte pur di salvare i suoi compagni. Morì tra le mie braccia, chiuse gli occhi e non li riaprì più. Se non avessi trascurato la sua febbre, probabilmente a quest’ora sarebbe ancora vivo”.
Il silenzio riverberò nella stanza. Un chiassoso e pesante silenzio.
“Per cui Sherlock, se alle volte sono petulante, anche per una ‘banale’ febbre, sappi che non lo faccio apposta. Io… insomma…” scoppiò a piangere.

Vergognandosi come l’essere più immondo, nascose il viso tra le mani appoggiandosi al letto quasi non avesse più forze.
La maschera di creta della risolutezza si era crepata e aveva lasciato scorgere il volto di un uomo. Non un soldato, non un dottore, ma semplicemente John. L’amico gentile, paziente e affidabile; l’uomo buono che metteva a repentaglio la propria vita pur di salvare quella altrui.

Sherlock non disse niente.

Cosa doveva dirgli?
Che non era stata colpa sua? Che è stata una fatalità? Che erano i rischi del mestiere? In quei casi, le parole non erano la migliore opzione per un detective dai modi strambi.

I gesti parlarono più di mille parole, si tirò sui gomiti e con quel briciolo di forze che gli rimanevano abbracciò John.
Non un coinquilino, non un assistente.
Il suo migliore amico.
“Piangi John. Piangi… amico mio”.
Chi aveva curato chi? Ferite del corpo, ferite dell’anima, ferite che non si sarebbero mai rimarginate.
   
 
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