Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    18/01/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Come era stato stabilito, dapprima Bianca aveva salutato per conto suo il piccolo Pier Maria e poi, appena era riuscita ad asciugarsi gli occhi e recuperare un po' di voce, aveva raggiunto il piccolo drappello di uomini che l'avrebbe scortata fino a Roma. Per una questione di buona etichetta, Caterina aveva acconsentito a far partire con lei la serva Creobola, dopo che proprio quest'ultima le aveva fatto notare l'importanza di non lasciare una nubenda da sola con tanti soldati.

In effetti il manipolo che era arrivato appena prima dell'alba, e che era guidato da un uomo di fiducia di Troilo, aveva un aspetto rozzo e pericoloso. Se la Riario non fosse stata avvezza da sempre a vivere in mezzo ad armigeri di ogni sorta, probabilmente ne sarebbe stata terrorizzata.

Invece la giovane donna, bellissima nei suoi abiti da viaggio, aveva subito dato ordini precisi e perentori, riguardo ai propri bagagli e a quelli della sua serva, agli uomini che l'attendevano e, forse, lei stessa si accorse di essere apparsa troppo sicura di sé, tanto che, alla fine, con finta ritrosia, aggiunse un: “Se non vi dispiace...”

Quando fu tutto pronto, sotto il cielo caliginoso di febbraio, Bianca salutò con poche parole De Marzi, Bossi e Fortunati, poi si raccomandò con Sforzino, affinché continuasse a studiare, mise una mano sulla spalla di Bernardino, pregandolo di fare il bravo, e abbracciò con forza Galeazzo che, seppur poco incline a quel genere di slanci, ricambiò e quasi scoppiò a piangere dalla commozione.

Nessuno poté sentire cosa fratello e sorella si sussurrarono nell'orecchio, ma, quali che fossero state le loro parole, entrambi sorrisero, nel separarsi, come se avessero trovato il modo di rincuorarsi a vicenda malgrado il momento triste.

Infine la Riario guardò la madre. Tentennò un solo istante e poi, abbracciando anche lei, lasciò che un paio di lacrime le scivolassero sulla guancia.

“So che sarai felice.” le bisbigliò la Tigre: “Sei una donna forte e Troilo è l'uomo giusto per te.”

La ragazza la ringraziò con un cenno e poi disse, con la voce un po' strozzata: “Spero che venga presto il momento in cui potremo rincontrarci...”

La Sforza annuì, come se ne fosse certa, e poi le indicò il carro che l'attendeva: “Corri da lui.” la incitò, ma appena udibile.

La Riario non se lo fece ripetere e, guardando una volta di più tutti gli astanti, salutò con la mano e poi salì sul carretto. Creobola, già al suo posto, invece sembrava impaziente di partire, probabilmente ingolosita all'idea di vedere Roma e soggiornare a sbafo nelle corti dei potenti.

Caterina guardò la figlia dare un ultimo saluto a tutti loro, incrociò i suoi occhi blu e, quando fu troppo lontana per scorgerne ancora il viso, si rese conto che il distacco ormai era incontrovertibile.

Asciugandosi gli occhi con il dorso della mano, la donna rientrò nella villa prima di tutti gli altri e, quasi correndo, con la gola in fiamme, raggiunse la stanza di Pier Maria.

“Fuori!” gridò alla balia, che, ormai avvezza ai cambi d'umore degli abitanti di quella casa, se ne andò senza fare domande.

Pier Maria era a sua volta rosso in viso e doveva aver finito da poco di piangere. Era evidente che stesse cercando di allungare le braccia verso la nonna, ma le fasce – seppur non strette – che lo avvolgevano gli impedivano quel semplice movimento, innervosendolo ancora di più.

“Aspetta...” sussurrò, roca, Caterina, cominciando a liberarlo.

Potendosi infine muovere come preferiva, il piccolo fece un gorgoglio soddisfatto e tese le manine, finché la Tigre non lo prese in braccio.

Il De Rossi aveva ancora il respiro un po' irregolare, a ricordare alla Leonessa quanto il pianto fosse recente, ma si stava via via calmando.

Guardandolo in viso, la donna cercava già di vedervi i tratti di Bianca, sperando che, con l'andare delle settimane e dei mesi, la presenza del nipote lenisse la tristezza per l'assenza della figlia. Anche se forse non era mai stata in grado di dimostrarlo come avrebbe voluto, si sentiva molto legata a Bianca, abbastanza, ricordò involontariamente a se stessa, da passar sopra perfino al suo coinvolgimento nella morte di Giacomo. Dunque aveva bisogno, in quel mondo immobile che era la villa di Castello, di avere qualcuno che le ricordasse Bianca...

Dovevano essere passati almeno venti minuti, e la Tigre aveva continuato ininterrottamente a cullare il nipote, accarezzandogli la fronte, ma era distratta, lo sguardo lontano e il cuore perso in tanti ricordi, belli e brutti, tutti mescolati in un unico calderone ribollente nel quale le sembrava a tratti di poter annegare.

Forse proprio per quello la donna si trovò a trarre un profondo respiro, quando venne strappata dalla confusione della sua mente.

“Ha pianto?” chiese Bernardino, indicando il nipotino.

Il Feo era entrato di soppiatto ed era rimasto qualche minuto a osservare la madre e Pier Maria. La scena che aveva davanti gli piaceva, perché di rado aveva visto la Leonessa di Romagna in un atteggiamento così dolce, se non con Giovannino. Si era deciso a parlare quando il senso di tenerezza che provava aveva lasciato il posto alla sua consueta rabbia e all'idea che, da neonato, sapeva di non aver ricevuto dalla madre le stesse attenzioni che ora lei dedicava al piccolo De Rossi.

“Sì, ha pianto...” sussurrò Caterina, guardando Bernardino in un modo strano: “Credo abbia capito che Bianca è partita...”

Il Feo si accigliò e poi, più per compiacere la madre che non perché ne avesse voglia, chiese: “E se lo facessi giocare un po' con il mio cavallino di legno?”

“Sì.” rispose subito la Sforza: “Stai solo attento che non si faccia male...”

Detto fatto, il ragazzino corse in camera sua, recuperò il giocattolo e poi tornò, pronto a fare del suo meglio per distrarre il nipote. Caterina li fece sistemare entrambi sul tappetto e si raccomandò con Bernardino affinché, appena Pier Maria gli fosse sembrato stanco, richiamasse la balia per rimetterlo a dormire.

Prima di lasciare la stanza, lanciò loro un'occhiata e vedendo come il Feo si infervorava positivamente nel far giocare il figlio di Bianca, si permise di dirsi che, forse, il futuro sarebbe stato migliore di quel che le sembrava potesse essere.

Abbastanza rinfrancata da quella bella impressione, la milanese camminò per un po', senza una meta precisa. Quando finalmente si imbatté in Fortunati, fu sul punto di chiedergli di andare in camera sua, anche solo per parlare un po' in santa pace o leggere qualcosa insieme, ma l'uomo l'anticipò.

“Ti cercavo...” le disse, con un'espressione cupa, brandendo una lettera, che era già stata aperta: “Ti hanno appena recapitato questa...”

La Tigre guardò la missiva e chiese: “E perché l'hai aperta tu?”

“Si tratta di una lettera di Ottaviano...” si difese lui, senza, però, trovare il coraggio di dire che proprio perché si trattava di una lettera del Riario, aveva temuto che la Leonessa la gettasse nel fuoco senza nemmeno leggerla, quando, invece, di quei tempi era importante leggere anche il più insignificante dei messaggi che arrivavano alla villa.

“Se l'hai già aperta saprai anche dirmi cosa vuole...” sbuffò lei, ricominciando a camminare, quasi a volersi sottrarre fisicamente a uno scontro con il figlio, benché lì non ci fosse Ottaviano in carne e ossa, ma solo una sua lettera.

“Cerca soldi, dice che quelli che ha e che gli passa suo cugino Raffaele non gli bastano, se vogliamo che continui a fare quello che sta facendo...” riassunse Francesco.

“Ossia bere tutto il vino che trova e spendere tutto quello che ha in donne di strada?” ribatté aspra la donna.

“E poi – riprese il piovano, ignorando il tono di Caterina – vuole una spiegazione del matrimonio di Bianca... Ha sentito dire che il De Rossi la prenderà in sposa e...”

“Da chi l'ha sentito dire?!” la domanda della Sforza fu così tagliente e aggressiva da portare Fortunati a coprirsi istintivamente il volto con le mani.

“Ormai credo che sia di dominio pubblico... Insomma, la tua unica figlia di sposa... Lo sai che fai ancora molto parlare di te... Questa cosa che un condottiero dei francesi abbia preteso Bianca come moglie...” farfugliò Francesco, in difficoltà.

“Giusto...” soffiò allora lei, cercando di dar per buona la spiegazione del suo amante, ma sentendosi anche in ansia all'idea che quel matrimonio, così delicato, per tanti motivi, potesse attirare anche troppa curiosità: “Comunque tu rispondigli dicendo che non ho avuto scelta. E per i soldi, non lo dica a me... Con tutti i guai che ho, dovrò fare miracoli per pagare le spese legali per il processo, figuriamoci se ho soldi da spendere per i suoi vizi... Li chieda a Raffaele... O a Giuliano Della Rovere. In fondo è suo parente anche lui, e sembra non faccia che vantarsi della propria ricchezza, no? Si dichiara nemico dei Borja... Che inizi a dimostrarlo pagando le meretrici di mio figlio.”

Il piovano aveva preso nota mentale di ogni parola e stava già pensando a come trascriverla in modo edulcorato, ma quando si accorse che Caterina stava accelerando al fine di lasciarlo indietro, le chiese: “Non vuoi leggerla?”

“No.” rispose lei, voltandosi appena: “Rispondi come ti ho detto e poi bruciala nel camino: non la voglio nemmeno vedere...”

 

Pantasilea era rimasta sorpresa, anche se piacevolmente, quando Bartolomeo aveva accettato di vederla. Anche se avrebbe dovuto essere una cosa normale per una moglie, poter incontrare da sola il marito, alla Baglioni sembrava di aver appena ottenuto un successo personale degno di essere ricordato.

L'uomo arrivò puntuale, senza farsi annunciare e, nel momento stesso in cui entrò nel suo padiglione, raddrizzò un po' la schiena e chiese: “Mi avete fatto chiamare?”

“Volevo ringraziarvi per quello che avete fatto per me...” rispose la donna, guardandolo con i suoi occhi ancora cerchiati da pesanti occhiaie: “E volevo anche darvi le informazioni che posso, riguardo quello che ho visto mentre ero con il Valentino.”

Sorpreso da quell'affermazione, l'Alviano inclinò appena la testa e rimase in attesa. La moglie gli fece segno di sedersi davanti a lei e, senza che lui dovesse porle alcuna domanda, lei cominciò a elencare tutti i dettagli che aveva carpito durante la sua prigionia.

Si trattava di piccoli indizi e di immagini a volte del tutto estemporanee, ma Bartolomeo apprezzò sia la prontezza di spirito della Baglioni, che aveva mandato tutto quel che poteva a memoria, sia il suo evidente desiderio di aiutarlo.

“Venezia non mi ha dato il permesso formale di attaccare il Valentino.” disse a un certo punto lui, parlando lentamente, per non inciampare nella sua lingua anarchica: “Ma mi hanno concesso di essere dislocato a Ravenna, verso cui partiremo credo non prima di domani... Da lì ho intenzione di andare a Bologna, per parlare coi Bentivoglio, in segreto.”

“E organizzare con loro una resistenza al Valentino..?” chiese la donna, speranzosa.

Sollevando le sopracciglia, l'Alviano annuì. Era sempre stato portato a valutare Pantasilea per quella che Giampaolo descriveva come una giovane senza particolare intelligenza, né particolari interessi, né, tanto meno, particolare fascino. Ora che l'aveva ascoltata parlare di tante cose e che l'aveva vista fare un ragionamento che riteneva abbastanza fine per qualcuno che non si occupava direttamente di guerra o politica, non poteva negare di essere abbastanza affascinato da lei.

Certo, non si trattava della sua Bartolomea, della donna guerriera che l'aveva fatto innamorare da adolescente e che l'aveva reso l'uomo più felice e completo che esistesse sulla faccia della Terra...

Forse, però, era stato troppo precipitoso nel valutarla sempre e solo come una donna senza sapore e senza volontà.

I due parlarono ancora a lungo, Pantasilea veloce e sempre più accesa, come se finalmente avesse trovato un interlocutore che ritenesse suo pari, e Bartolomeo con calma, sforzandosi di essere sempre comprensibile, malgrado i suoi limiti fisici. Senza che nessuno dei due sapesse dire come e quando, a un certo punto si trovarono ad abbandonare il voi, per passare un più confidenziale tu.

“Avrei voluto salvarti prima che il Valentino ti facesse del male.” ammise a un certo punto l'Alviano, cupo.

“Mi ha spaventata e umiliata, questo è vero... Ma non è riuscito a usarmi violenza.” rivelò lei, sollevando appena il mento.

Poiché l'uomo la guardava interrogativo, la Baglioni decise di rispondere senza aspettare una domanda esplicita, in modo da sollevarlo dalla fatica di mettere insieme tante parole che avrebbero sicuramente risvegliato le fastidiosissime clonie della sua lingua.

“Io l'avrei anche lasciato fare...” iniziò a raccontare, avvertendo un brivido freddo nel ricordare i tentativi vani del Borja: “In fondo, in vita mia, non ho conosciuto altro. Ho sempre lasciato fare, per evitare di farmi più male ancora... E invece, anche se ci ha provato e riprovato, non c'è riuscito... Io credo che proprio non gli piacessi... Oppure l'ha spiazzato il fatto che non provassi a oppormi...”

Bartolomeo strinse appena le labbra, chiedendosi, con un forte senso di colpa, se anche la loro prima notte di nozze, per lei, fosse stato un episodio simile. Lui era ubriaco, si era dovuto ubriacare apposta per riuscire a sopportare l'idea di dividere il letto con una donna che non fosse la sua Bartolomea... E probabilmente Pantasilea se n'era accorta.

Quasi leggendogli nel pensiero, la donna lo guardò per un lungo istante e poi disse: “Forse l'unico che mi abbia mai trovata attraente è mio fratello... Con te avevo sperato che qualcosa sarebbe stato diverso... Ma l'unica volta che ti sei deciso a prendermi, hai dovuto bere tutto il vino di Perugia, per farlo...”

“Io ero sposato con una donna che amavo e che mi rendeva felice.” cercò di scusarsi tardivamente l'uomo: “Anche per me è stata una violenza, la nostra prima notte.”

“Parlami della tua prima moglie.” lo incitò lei, desiderosa di scoprire il lato nascosto – che ormai era certa ci fosse – di quell'uomo burbero e feroce che le era toccato in sorte come marito.

“Ci metterei ore.” provò a sottrarsi lui, indicandosi la bocca, rimasta sfigurata in battaglia e molto meno funzionale di quanto non fosse un tempo.

“Ti ascolto volentieri.” ribatté lei: “Mi piace la tua voce.”

A quel punto, Bartolomeo non seppe più come dire di no, e iniziò a parlare di Bartolomea. Erano anni che avrebbe voluto parlare di lei con qualcuno, ma non aveva mai trovato nessuno disposto ad ascoltarlo. Parlò di quando si erano conosciuti e di come avesse dovuto aspettare anni, prima di diventare abbastanza grande da poterle interessare. Ricordò di come si fossero amati con passione e dedizione, di quanto fossero stati felici. Parlò del loro unico e sfortunato figlio, ma più di tutto magnificò Bartolomea e la sua bellezza che, diceva, in pochi capivano, perché era coperta da quintali di ferro e di cotte di maglia.

Alla fine del suo resoconto, l'uomo sussurrò: “Mi sono risposato perché lei voleva così.”

Pantasilea gli mise le mani sulle sue, stringendo appena e rispose: “Ora che so tutte queste cose, lascia che io sia davvero una moglie per te.”

Siccome lui la guardò in tralice, quasi con sospetto, la Baglioni fece un sorriso innocuo e scosse il capo.

“Non pretendo che tu ti innamori di me o che da oggi in poi tu passi ogni tua notte nel mio letto, non voglio nulla di tutto questo, non ora e non per forza.” spiegò lei, con fermezza: “Ma lascia che ti stia vicina. Ti prego: non voglio che tu sia solo e non lo voleva nemmeno la tua Bartolomea.”

L'uomo sospirò e poi, annuendo in silenzio, disse piano: “Verrai con me a Ravenna, allora?”

“Sì.” rispose lei e per qualche secondo entrambi si sentirono leggeri come non si sentivano da anni.

 

Caterina ascoltava con attenzione Fortunati, che leggeva la lettera appena arrivata da Firenze, con cui li si informava dell'esito dell'udienza di quella mattina.

Solo quando lui fece un sospiro, per prendere fiato, si sentì libera di chiedere: “Sei sicuro che questo Niccolò che hai scelto per rappresentarmi sappia quello che fa?”

Il piovano sollevò le sopracciglia e rispose: “Sì... Perché ne dubiti?”

“Perdere un'intera giornata di processo per ribadire che io sono una cittadina fiorentina proprio quanto lo è Lorenzo non mi sembra un modo intelligente di usare il tempo...” sbuffò lei, che pur sapeva quanto fosse cruciale, il nodo della sua cittadinanza, ma che trovava comunque una mossa ipocrita perdere in quella disquisizione, quando erano altri, gli argomenti che riteneva davvero importanti.

“Lorenzo si ostina a gettare ombra non solo sulla tua cittadinanza, ma anche e soprattutto sul tuo matrimonio con Giovanni.” le ricordò Francesco: “Abbiamo dovuto portare i documenti del caso, è stato giusto impiegare tutta la giornata per farlo... Adesso i giudici hanno messo nero su bianco che sul fatto che tu sia fiorentina, non c'è alcun dubbio...”

Frate Lauro, che se ne stava rannicchiato davanti al camino, spettatore fino a quel momento silenzioso, fece una breve risata e sbottò: “Se la sentissero bestemmiare in dialetto milanese, dubito che la riterrebbero ancora una fiorentina...”

“Altro motivo per cui credo sia meglio, al momento, lasciare che sia Niccolò di Bindo a occuparsi del processo...” si accodò Fortunati, per zittire la donna, che stava per aprir bocca, quasi sicuramente per protestare: “Sai che io ti stimo e ti apprezzo, come donna... Ma meno ti vedono e ti sentono e meglio è per la tua causa, al momento.”

La Tigre incassò con relativa calma la critica, forse per il tono tutto sommato affettuoso che il fiorentino aveva usato, ma ci tenne a sottolineare: “Metà degli uomini chiamati a giudicarmi, anche senza rivedermi, probabilmente si ricordano di me e di come ho dato un pugno al tavolo del Gonfaloniere, qualche anno fa...”

“Comunque, per la prossima udienza hanno richiesto ancora tutti i nostri libri contabili... Vogliono vederci chiaro sulla questione dei soldi che Lorenzo sostiene tu gli debba, e di cui noi, ovviamente, diremo di essere creditori e non debitori...” riprese il piovano, serio.

“Fortuna che tu sei un uomo ordinato e previdente... Se non avessi messo in salvo i miei libri contabili prima dell'inizio della guerra, ora sarebbero bruciati assieme a Ravaldino e non potrei dimostrare un accidente...” constatò Caterina.

“Mi sei sempre stata cuore. Avrei fatto questo e altro, se fosse stato necessario... Ho provveduto a mettere in salvo le carte per il bene che ti porto...” si perse a dire l'uomo.

Frate Lauro, nel suo angolino, sollevò un sopracciglio e commentò: “Fortunati carissimo, non fosse che vi conosco, a sentirvi parlare potrei dire che la Leonessa di Romagna ha mietuto una nuova vittima...”

“Non siate sciocco...” ribatté la Sforza, ben decisa a difendere finché poteva la sua relazione segreta col piovano: “Ho avuto soldati, stallieri, straccioni e cavalieri... Ho avuto perfino un frate, ma un santo sarebbe troppo anche per me...”

Bossi ridacchiò e poi, col suo sorriso serafico, convenne: “A Dio quel che è di Dio e alla Tigre quel che è della Tigre...”

Siccome Francesco s'era fatto rosso in viso e sembrava sul punto di farfugliare qualcosa, forse per scagionarsi ulteriormente, la milanese decise di giocare d'anticipo.

“Excusatio non petita, accusatio manifesta...” gli ricordò, guardandolo in modo significativo e poi, rendendosi conto che anche frate Lauro conosceva il latino, girò il senso della frase aggiungendo, tranquilla: “Lorenzo, continuando a dirsi da solo di essere in regola e di non esserci debitore, finirà a far credere l'esatto contrario. E se ho capito che tipo di uomo sia e di come sia stata la sua vita negli ultimi anni, non avrà libri contabili sufficientemente a posto da poter essere mostrati in tribunale... Quand'è la prossima udienza?”

“Mercoledì.” rispose prontamente Francesco, che, per dissimulare l'imbarazzo non ancora sopito, si era messo a ricontrollare la lettera, con finto interesse.

“Mercoledì...” fece eco Caterina, massaggiandosi appena la fronte: “Spero che per allora Bianca sia a Roma, o, almeno, in dirittura d'arrivo... Non aspetto altro che una sua lettera in cui mi dica che sta bene...”

Né Fortunati né Bossi seppero come incoraggiare la Leonessa, così si limitarono a restare in silenzio e, dopo un po', la Sforza annunciò che si sarebbe ritirata per un'oretta in camera, per riposare. Dalla sua espressione, però, era evidente che avrebbe passato quel tempo a pensare a sua figlia, e, magari, a pregare per lei affinché tutto andasse come previsto.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas