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Autore: Anonimadelirante    21/01/2023    2 recensioni
Il primo ottobre del 1999, sei bambini a casa Hargreeves stanno per ricevere un nome.
Un paio di linee temporali sovrascritte più tardi, due fratelli hanno una conversazione.
(Five&Seven, Five&Grace, kidfic+missing moment 3x07 – Love beyond romance @Mari Lace, Ferisce la penna)
Genere: Hurt/Comfort, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Five, Vanya Hargreeves / Violino Bianco / Numero 7
Note: Kidfic, Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Nominare male le cose 
è partecipare all’infelicità del mondo.
(Albert Camus)

 

 

“No” disse il gatto. 
“Le persone hanno dei nomi. Questo perché non sanno chi sono. 
Noi invece sappiamo chi siamo, quindi non abbiamo bisogno di nomi.”
(Neil Gaiman, Coraline)

 

 

Solo i nostri nudi nomi

 

 

 

 

Ci sono cose che pensa, dice e fa esclusivamente per il puro piacere di guardare il volto di Reginald contorcersi come se Tre avesse usato le Voci per costringerlo ad ingoiare per intero un limone e masticarlo

 

(Disappunto e rabbia a stento contenuta e delusione.)

 

C'è sempre un prezzo da pagare, per questo genere di espressione, però, e raramente ne vale la pena.

 

Non è un codardo.

 

(Non piagnucola come Due o Sei, quando viene punito, non balbetta spiegazioni più o meno credibili come Tre e Quattro per giustificarsi e non non sente il bisogno di crogiolarsi nell'approvazione del padre come un cane ben addestrato – non è Uno.)

 

Non è quello

 

(Non ha paura di loro padre. Sa che è un uomo pericoloso – non è un idiota – ma è difficile temere qualcuno che stima così poco.)

 

È che il disappunto di Reginald di solito significa allenamenti più lunghi, compiti più noiosi, di tanto in tanto lacrime da parte dei suoi fratelli, meno tempo per stare ad ascoltare Sette comporre ad orecchio. 

 

Così. 

 

Per quanto gli piaccia, vedere il viso di loro padre deformarsi per la contrarietà, di solito si morde la lingua.

Sa che se interrogato a riguardo Uno non sarebbe d'accordo – secondo lui, Cinque non fa altro che irritarlo volontariamente. Ma secondo Uno tutti quanti a parte lui non fanno che mettere alla prova la pazienza del buon Reggie come scopo di vita.

 

Per quanto riguarda ciò che fa – be'. Quel che conta è non venir beccati, no?

 

(Non è così complicato, e non capisce come sia possibile che Quattro non afferri questo semplice concetto.)

 

 

 

 

 

 

Ci sono volte, invece, in cui, nonostante tutto, ne vale assolutamente la pena.

 

(Le labbra di papà che si stirano in una linea pallida e i suoi occhi che lampeggiano, la voce dura come una steccata, Numero Cinque, sono molto deluso – e tutto quello che viene dopo.)

 

Sono le volte in cui guardare Reginald mandar giù un metaforico limone è solo la ciliegina sulla torta. 

 

(Volte in cui disobbedirgli significa tardare a cena perché Sei ha appena finito di leggere Notre Dame de Paris e deve assolutamente raccontargli come è andata a finire fra Esmeralda e Quasimodo. 

Volte in cui significa usare la propria capacità di Saltare oltre la porta chiusa a chiave di Tre e rubarle gli smalti per distrarre Quattro dal fissare l'angolo cieco del corridoio al terzo piano piagnucolando sciocchezze su una ragazza investita sulla quattordicesima che non vuole saperne di lasciarlo in pace.

Volte in cui consegnare in ritardo i compiti di fisica quantistica significa essere rimasto tutto il pomeriggio a gambe incrociate sul letto con Due a scandire insieme parole che non riescono ad uscirgli dalla bocca per intero. 

Volte in cui significa venir convinti da Tre a sgattaiolare fuori dall'Accademia per andare a vedere insieme la prima di FBI: Agenti speciali.)

 

Volte come quando rischiare di addormentarsi col viso dentro la ciotola di farina d'avena è solo un piccolo prezzo da pagare per aver convinto tutti – persino Uno – ad andare a mangiare ciambelle da Griddy's a notte fonda.

 

 

 

 

 

 

Volte come questa.

 

 

 

 

 

 

«Mamma?»

 

Mamma è in cucina, seduta su uno sgabello alto, le lunghe gambe color porcellana accavallate. Ha le scarpe rosse delle feste – le preferite di Quattro – abbinante al suo sorriso dipinto, ed un vestito azzurro carta zucchero coperto dal grembiule che indossa quando impasta i biscotti con le gocce al cioccolato che piacciono tanto a Tre.

«Sì, tesoro?»

Non sta impastando, però. Ha i tacchi delle grandi occasioni, i capelli sciolti sulle spalle come quando la giornata è finita e viene a dargli il bacio della buonanotte prima di riporsi nella stazione di ricarica. 

 

(Cinque non è Due, ha ben presente che Grace è solo un robot, che l'attenzione con cui li cresce e che le fa brillare lo sguardo come d'affetto è in realtà soltanto scritta in una stringa di codice.

Solo, a volte non è del tutto certo della differenza che ci dovrebbe essere, se il risultato è lo stesso.) 

 

Sul ripiano del tavolo, lì dove di solito riposa il quaderno rilegato in stoffa a righe verdi e gialle dove Sette l'ha aiutata a trascrivere a mano tutti i passaggi per i preparativi dei cibi che amano di più – un esercizio del tutto superfluo, visto i megabyte di memoria che ha Grace, ma forse l'amore per i ricettari ha qualcosa a che fare con l'estetica da casalinga anni cinquanta con cui l'ha costruita Reginald assecondando chissà quale perversione.

 

(Semolino per Uno, e pancake per Due, biscotti al cioccolato per Tre, noodles per Quattro, pizza al salame piccante per Sei e sandwich al burro d'arachidi e marshmallow per lui e Sette.)

 

Al posto del ricettario, c'è un libro rilegato con la copertina morbida, a quadri azzurri e rosa. Cinque stringe le labbra, quando lo vede, e le si accosta. 

 

«Hai fame, caro? A vostro padre non piace che mangiate fuori dai pasti, ma credo sarebbe più dispiaciuto se non riuscissi a completare i tuoi esercizi per un calo di zucchero. Vuoi un panino?» gli domanda, apparentemente completamente dimentica di quello che stava facendo prima che Cinque le si sedesse accanto – adorabile, dolcissima, servizievole.

 

(Inutile.)

 

Onestamente, dubita che loro padre proverebbe un qualsiasi sentimento nei confronti di un suo ipotetico calo di zuccheri, ma forse si sbaglia – non gli piace mai, quando saltano gli allenamenti, qualunque sia la ragione: «Sto bene. Papà vuole adottare qualcun altro?»

«Come?» Grace batte le palpebre, lunghissime ciglia scure che sfarfallano sulla sua perplessità. «No, caro. Che idea. Perché?»

Cinque le indica il libro che sta leggendo con un cenno del capo, ma non dice Hai le scarpe che indossi al nostro compleanno. 

 

(Non dice Credo che sarebbe una festa, per te, un bambino normale – come Sette, ma meglio, perché lo crescesti lontano da qui, non è vero? Lontano da noi e da papà. Hai imparato dai tuoi errori. Hai visto sulla pelle di Sette, cosa può fare questa famiglia ad un bambino senza poteri. O ad un bambino qualsiasi, a dire il vero. Sulla pelle di tutti noi.

Sarebbe una buona idea, andartene, portarlo via, non dice, ma per favore non farlo. Per favore, non andartene. 

Non dice: Per favore, non lasciarci.)

 

«Ah.» 

 

(Le mani di mamma sono calde, contro le sue guance, e delicate, ma troppo lisce: Reginald si è dimenticato le impronte digitali o forse le ha tralasciate apposta, chi lo sa – il diavolo sta nei dettagli, o come si dice.)

 

«No, amore mio. Sette bambini sono già parecchi, non credi? Ho il mio bel da fare con tutti voi. Vostro padre mi ha affidato il regalo che vi faremo per il vostro decimo compleanno, però» lo guarda, con un sorriso allo zucchero filato, in volto – un segreto. «Vuoi saperlo?»

Assottiglia lo sguardo, ma non si allontana dalle sue carezze: «Non dovrebbe essere una sorpresa?»

Lei sbuffa: «Cinque, caro. Conosco i miei figli. Non lo sto confidando a nessuno che lo andrebbe spifferare in giro agli altri, rovinando loro la festa, no?»
«No» ammette lui, riluttante.

«Infatti» gli strizza l'occhio, allegra.

 

Cinque non è Sette, non è Sei, non è neanche Quattro: non è esattamente il più paziente dei suoi fratelli. Quindi: «Allora?»

 

(Non è Due, che per la mamma starebbe in attesa per giorni.)

Grace trilla: «Dei nomi.»

 

«Nomi?» aggrotta la fronte. «A cosa dovrebbero servirci?»

«Non ti piace l'idea di avere un nome tutto per te?»

Non è che non gli piaccia l'idea. Ovviamente gli piace. È solo che sembra un po' fuori dal personaggio di loro padre: «Cos'hanno che non va, i numeri?»

«Niente, amore mio. Ma dieci anni è un'età importante, non credi? Fra poco più di un anno potrete andare in missione. Non sei eccitato?»

 

Ah.

La stampa.

 

(Loro padre è meraviglioso, davvero: riesce a deluderlo anche quando ha zero aspettative.)

 

Si schiarisce la voce: «Certo. Sì. Quindi, nomi.»

 

È sul capitolo della lettera N.

 

La mamma gli sorride, tutta dolce e comprensiva. Come se la sua improvvisa difficoltà ad articolare frasi di senso compiuto avesse a che fare con una qualche commozione (e invece è rabbia, è sempre rabbia, quando si tratta di Reginald): «Stavo giusto pensando al tuo» gli rivela, con un buffetto sul naso. «Vuoi sentire quelli degli altri, prima?»

 

«D'accordo» si gratta il collo. «Sì.»

«Uno sarà Luther. Colui che conquista la gloria per il suo esercito. Adeguato, non ti pare?»

E, uh. Ha appena definito Luther adeguato. Che ridere. Sembra così felice, però, e perciò: «Sì, mamma» la asseconda. 

Lei sorride di più. È un po' inquietante, a dire il vero: «E Numero Due sarà Diego. Il protettore.»

Sembra che aspetti una conferma, per qualche ragione, quindi Cinque si stringe nelle spalle: «Certo.»

(D'altra parte, anche se è un idiota, Due è davvero sempre pronto a lanciarsi nella mischia per gettarsi fra loro ed il pericolo.)

«Per Numero Tre, Allison. Illustre. Perché diventerà famosa, di sicuro. Non sembra già una principessa?»

Be', questo sembra davvero appropriato: «Sì.»

«Oh, caro» divaga lei, sognante. «Sono così felice che vostro padre voglia farvi un regalo del genere! Sei nomi per i miei bambini. I tuoi fratelli saranno così felici. Quattro sarà Klaus e Sei Ben. Per te, invece, stavo pensando--»


Cosa diavolo..?

 

«Mamma» la interrompe.

 

«Sì, caro?»

 

«Noi siamo in sette.»

 

Grace batte le palpebre: «Lo so, tesoro» mormora, inclinando dolcemente il viso. Perplessa. Come se non cogliesse il punto.

 

«Hai detto sei» ripete. «Sei nomi.»

«Sì, tesoro.»

 

Oh, ma è semplicemente fantastico, davvero.

 

«Noi siamo in sette, però» ripete, stolido.

 

La mamma allunga di nuovo una mano per accarezzargli i capelli: «Lo so caro. E vi amo tutti moltissimo. Ma vostro padre è un uomo molto pratico, e—»

 

Che bastardo.

Cinque si scosta: «—e non c'è motivo di dare un nome a Sette, visto che non verrà in missione con noi e non parteciperà alle interviste» sibila.

 

Mamma sembra dispiaciuta, per lo meno: «Cinque, piccolo mio» mormora. «So che Reginald è difficile, a volte, ma è un grande—»

 

«Difficile?» si sente dire, ma piano, soffocato, come se parlasse da in fondo ad un pozzo. «Oh, no. Papà è molto semplice, in realtà.»

(Non c'è ragione di dare un nome a Sette, visto che a mala pena riconoscono la sua presenza.

In realtà, è perfettamente coerente. Perfettamente logico. Davvero. Non dovrebbe neanche essere stupito.)

 

Mamma sospira. Si alza. Si allaccia più stretto il grembiule, si raccoglie i capelli dietro la nuca, si rassetta la gonna con le mani. Perfettamente umana, oh, così umana, e così perfetta. Simulazione allo stato più puro: «Caro» dice alla fine. «Non arrabbiarti con tuo padre, d'accordo? È un grande uomo. Sono sicura che voglia solo il meglio per voi. So che a volte non è facile capire cosa—»

 

«Tu vuoi solo il meglio per noi» sbotta Cinque, i pugni stretti nelle tasche della divisa. «Sei programmata per amarci. Papà—»

 

(Non ha cuore di aggiungere Sei costretta ad avere cura di noi perché sembra già abbastanza sconvolta così, e non serve a niente, non è mai servito a niente – arrabbiarsi con papà è l'equivalente di sbattere contro un muro di mattoni: inutile, e dannoso per sé stessi.

Grace non ha un cuore, per fortuna, perché dal suo sguardo sembrerebbe in frantumi.)

 

«—non importa. Ho fame. Mi faresti quel panino?»

 

Questo sembra rianimarla: «Ma certo!» cinguetta, improvvisamente del tutto dimentica del dolore, della rabbia.

 

(Cinque a volte pensa che il regalo più bello che potrebbe fargli Reginald sarebbe aprirlo in due ed asportare ogni organo, ogni sentimento – riempirlo di circuiti dalla memoria fallace, e ricucirlo. Renderlo davvero figlio di Grace.

 

Anche i suoi fratelli apprezzerebbero, crede.)

 

 

 

 

 

 

Seduto davanti al Libro dei Nomi – che titolo banale – ancora aperto sulla lettere N, Cinque guarda la mamma trotterellare per la cucina, affannarsi ad assemblare uno spuntino per lui: burro d’arachidi e marmellata, perché i marshmallow sono un cibo riservato al sabato, alle feste comandate e alle notti in cui non c’è nessuno ad impedirgli di rubare dalla credenza.

 

(Grace non chiede mai Ma che fine hanno fatto? Non sbatte mai le palpebre, quell’aria un po’ stolida da bambolina, da Marilyn Monroe. Non dice mai: Eppure ero certa che il pacchetto fosse pieno, la settimana scorsa. Dice sempre e solo, il sorriso ben costruito delle migliori performance di Norma Jeane, gli occhi limpidi e senza segreti di certe Madonne preraffaellite: «Devo già mandare Pogo a rifare la spesa – mangiate come lupi, voi bambini.»)

 

Cinque dà un morso, con Grace che gli si accomoda affianco, elegante come una gatta: «Allora» gli sorride dolcissima. «Vuoi aiutarmi a scegliere il tuo?»

Lui guarda il Libro – Nathaniel, Neal, Neron, Niall – e poi la mamma, benevola e tranquilla, le sue dita lunghe che sfogliano le pagine – Nicholas, Nike, Nissim.

 

Deglutisce.

 

(Un bolo di pane e burro d’arachidi quasi solido che gli si blocca in gola per interi minuti secondi ore, e poi scivola lentamente, dolorosamente, lungo l’esofago.)

 

«No» dice.

 

 

 

 

 

 

Quando Quattro aveva rubato le scarpe di Grace per ballare in salotto, Cinque si era arrabbiato.

 

Reginald si era arrabbiato. 

 

(Cinque aveva strattonato Quattro per un braccio: «Smettila» aveva sibilato. «Smetti di ballare, dammi le scarpe – che diavolo, Quattro, dove hai preso quest’erba?»)

 

Papà aveva tuonato: «Numero Quattro, cos’è quest’odore? Cosa vorrebbe dire, questa pagliacciata?» e poi Quattro aveva avuto incubi su incubi su incubi per mesi.

 

(Anni, forse? Cinque non ha mai avuto lo spirito d’osservazione di Sei, né la pazienza dolente di Sette.)

 

«Non è una punizione» avrebbe detto Uno, giorni dopo, scuotendo la testa. «È un allenamento. Dovrebbe essere felice di essere così avanti

Avanti in cosa, esattamente?, gli occhi Sei sarebbero parsi domandare.

«Ha p-p-p-paura del b-b-b-buio» sarebbe sbottato Due, stringendo i pugni.

«Be’, è ora che gli passi! Non è un bambino!»

 

(Cinque sarebbe riuscito a rimanere arrabbiato con suo fratello per dieci intere notti, prima di Saltare in camera sua, e sedersi sul letto, e sbuffare: «Non c’è nessun altro, a parte noi due. Gli altri sono tutti morti. Ehi» avrebbe aggiunto, poi, scostandogli  le mani dal viso: «Mi senti? Mi stai ascoltando?»

Quattro avrebbe pianto ed annuito in un singhiozzo e Cinque: «Te l’avevo detto» gli avrebbe mormorato fra i capelli, accarezzandogli piano la schiena. «Ne è valsa la pena?»

Quattro non avrebbe risposto.)

 

Cinque davvero non aveva capito che ragione ci fosse di provocare loro padre – in quel modo stupido, per una sciocchezza del genere.

 

(Anni dopo, parecchi anni dopo, cinquantotto anni dopo – un’Apocalisse, Dolores e Carmichael e la Handler, così tanti morti, così tanti calcoli sbagliati grossolanamente – alzerà a malapena lo sguardo dal proprio sandwich. «Bella gonna» commenterà, però.

 

Ognuno ha i suoi tempi per crescere, immagina. Meglio tardi che mai.

 

Il viso di suo fratello s’illuminerà di un sorriso: «Oh, danke.»)

 

 

 

 

 

Reginald – oh, Reginald non è felice.

 

(Il suo viso si deforma in un lampo di furia, e poi si distende lentamente in una maschera d’indifferenza scheggiata dall’irritazione. Cinque gli sorride.)

 

È lui ad aver insegnato loro a piegare le regole a loro favore, però, a leggere fra le righe, a sgusciare fra le fessure lasciate dall’imprecisione. 

 

(Papà, Numero Cinque sta barando, Uno e le sue stronzate da buon soldatino, Due e i suoi capricci infantili. Sta sfruttando i propri poteri a suo vantaggio – questo è intelligente, dovreste prendere il suo esempio.)

 

Così, Mamma dice: «Klaus» accarezzando il viso di Quattro. Gli sorride, poi, aperta e brillante. Per un attimo, a Cinque sembra di vedere il suo sguardo di vetro velarsi di preoccupazione – ma non è vero, ovviamente, è un robot, non è programmata per intuire certe conseguenze, non è possibile. È solo un istante, un battito di ciglia – il respiro immediatamente dopo sta dicendo: «Ben» e Reginald s’irrigidisce, assottiglia lo sguardo. Uno lo sbricia da sopra le teste dei loro fratelli, Due e Tre si voltano verso di lui. 

 

(Quattro è ancora troppo occupato a rigirarsi sulla lingua il proprio nome – K-l-a-u-s.)

 

Cinque inclina il viso e basta, immobile e severo, e pensa al burro d’arachidi e ai marshamallow e a come ci siano solo sei ricette scritte nella grafia tondeggiante e curata di: «Vanya» dice mamma, dopo aver detto Ben baciando la fronte di Sei.

 

(Cinque sorride a loro padre come un segreto, e Reginald non dice nulla, lo fissa e basta e oh, ci saranno delle conseguenze, Cinque lo sa dalla piega scontenta della sua bocca, dalle sue spalle rigide, lo sa da prima – ovviamente ci saranno delle conseguenze, ma che importa?)

 

 

 

 

(«Che diavolo, Cinque?!» sbotterà Tre – Allison – un paio di giorni dopo, in cerca di spiegazioni. Cinque si asciugherà il sudore dal viso, ignorerà il tremore degli arti, e si allungherà verso la caraffa di succo di frutta perché la sola idea di Saltare anche solo un’unica altra volta in giornata gli rivolterà lo stomaco dalla nausea. «Perché cavolo l’hai fatto? Sapevi che papà si sarebbe arrabbiato.»

«Non ho idea di cosa tu stia parlando» replicherà lui, seccamente, gli occhi fissi sul propio bicchiere.

Ed Allison, uscendo dalla stanza: «Non so proprio cosa pensavi di guadagnarci.»)

 

 

 

 

 

Avrà anni, in seguito, anni ed anni di polvere nei polmoni e vino acetoso in fondo alla gola e sguardi di muto rimprovero da parte di Dolores per pensare e pensare e pensare. 

 

Ripercorrendo a ritroso la propria vita, una passo alla volta, come un gambero, la sua infanzia passata a Saltare su e giù per l’enorme casa di Hargreeves, a rincorrersi coi suoi fratelli e ridere di loro, con loro, litigare e far pace, Cinque individuerà quell’istante – quel lampo d’irritazione negli occhi di suo padre, il suo sorriso lento e freddo in risposta, una sfida (Neanche le tue regole sono impossibili da aggirare, papà) – come la prima tessera del domino: l’ultima, uno stupido litigio a tavola, tre anni dopo, e la sua supponenza fatale.

 

Cinquantotto anni e Dolores e Carmichael e la Handler e tutti quei morti, tutti quei calcoli sbagliati – nonostante tutto, non riuscirà a trovare in sé stesso neanche una briciola di rimorso per quella sera, neanche un frammento di desiderio per quel nome mancato.

 

 

 

 

 

Un paio di Apocalissi scampate per un soffio più tardi, una manciata di linee temporali sovrascritte dopo, Cinque gioca con un sigaro per impedire alle sue mani di tremare.

 

(Sei stato molto carino, gli ha detto Vanya – no: Viktor – ad uccidere mamma per non farlo fare a Diego.)

 

«Mio Dio. Siamo una famiglia davvero assurda» sospira bonario, senza neanche fingere di cercare un accendino.

 

«Già. Scusa. Me ne sono reso conto mentre lo dicevo.»

 

(Non importa, mente lui a beneficio di entrambi. Non era davvero lei.)

 

«Sono preoccupato per Allison» annuncia Viktor, dopo un qualche istante.

 

Cinque sbatte le palpebre, si lascia cadere pesantemente in poltrona.

 

Non pensa a quanto sia cambiato suo fratello, a come da ragazzi non avrebbe mai detto né pensato una cosa del genere. Inclina il viso, invece, respira a fondo.

 

«Siamo tutti preoccupati per Allison» risponde alla fine. «Io sono preoccupato per te.»

 

«Per me? Sul serio?» sbotta Viktor, incredulo, esasperato. «Ha ucciso una persona. Io cercavo di fare la cosa giusta e salvare Harlan.»

 

Cinque chiude gli occhi. La cosa giusta, pensa, e tutte le conseguenze del caso: «Sai perché volevo tanto che l’ultimo Salto funzionasse?»

 

«Perché sei vecchio e stanco?» sbuffa suo fratello – una presa in giro, una constatazione.

 

È vero, ovviamente, ma è anche peggio di così: «Perché ho massacrato una sala riunioni piena di persone per venire qui.»

 

È sempre peggio di così.

 

«Cazzo.»

 

Cinque ignora il suo sguardo sgranato da pena e comprensione. 

 

(È vero adesso come lo era quando avevano dieci anni: ci sono cose che Cinque fa senza goderne direttamente – per il risultato finale, al di là delle conseguenze immediate. 

Al di là delle punizioni di loro padre, degli incubi, del sangue viscoso che non riuscirà più mai a lavarsi via dalle mani.)

 

Per un attimo, gli viene in mente di scusarsi con lui – scusa, ho scelto male il tuo nome, ha qualcosa a che fare col fatto che il mondo è finito? – ma poi pensa al numero delle ricette raccolte goffamente da Vanya e Grace, alla grafia tondeggiante ed infantile che riportava per ultima: tagliare le croste al pane prima di mettere le fette a tostare. Pensa a quello e alla sua voce sottile ed angosciata, pochi giorni prima dell’Apocalisse, quand’erano entrambi feriti ed esausti e senza idea di come fare a parlarsi di nuovo dopo anni di silenzio – Lasciavo sempre la luce accesa, la finestra aperta e sul davanzale un sandwich col burro d’arachidi e marshmallow. Che stupidaggine, eh?

A come non ha risposto: L’unica ragione per cui sono ancora qui, vivo e coerente, è che ho passato mezzo secolo a raccontare ad un manichino come vi avrei salvati e me ne sono innamorato. Chi di noi due è più disperato?

 

«Ci sono passato» dice, quindi. 

 

(Loro due hanno sempre condiviso lo stesso linguaggio, in fondo. Quand’erano piccoli, le sue variazioni preferite da ascoltare erano le fughe. Perché? sbuffava sempre Ben, che preferiva i contrappunti. Perché sono indovinelli, rispondeva Vanya per lui, senza che Cinque glielo avesse mai dovuto spiegare.

La musica è matematica, gli viene in mente come fosse la prima volta, solo scritta in maniera diversa.)

 

«Ti dò un consiglio» continua allora. «Non fare calcoli. Non esiste l’equazione giusta. Non c’è alcun modo per salvare quattro Harlan ogni due Clare. Credimi, non salveremo mai abbastanza vite per riuscire a pareggiare i conti con quelle che sacrifichiamo.»

 

Viktor – meraviglioso, fortissimo, sensibile Viktor, il più potente fra i suoi fratelli – «Io non posso accettarlo» decreta.

 

Cinque non alza gli occhi al cielo, perché è davvero vecchio e stanco e gli prude il petto dove Pogo gli ha tatuato il futuro sulla pelle: «Allora affonderai» replica, più secco di quello che vorrebbe. «Quando si è potenti c’è un prezzo da pagare, calpestare qualche formica. Prima lo accetterai più saremo al sicuro.»

 

Vik arriccia il naso: «E questo che significa?»

 

«Significa che sei molto pericoloso, Viktor Hargreeves» mormora, fissandolo negli occhi scuri come buchi neri. «Le decisioni che prendi hanno un impatto sul mondo intero, dunque per quanto possano sembrare benevole non puoi prenderle da solo.»

 

Non gli dice: Guardami

 

(Guardaci. Guarda Allison e Luther e Diego. Guarda come sarebbe diventato Sei, se l’Orrore che covava dentro non lo avesse fagocitato. Guarda me.

Guarda cos’ho fatto per tornare indietro – per anni ho detestato una mia creazione. Sono diventato nostro padre.)

 

Gli dice: «Sai come chiamano un supereroe che lavora da solo e non dà retta a nessuno? Un cattivo.»

 

Viktor si gratta via una crosticina dalla guancia ferita: «Io non sono un cattivo, Cinque» gli assicura, limpido, certissimo.

 

E io non fonderei mai la Commissione, ma senti un po’ questa: l’ho già fatto, pensa. Annuisce, però, perché vero: Viktor è tante cose, ma non cattivo. 

 

(Ma è l’ingenuità il peggiore dei mali nel mondo, non la malizia.)

 

«E, Viktor» annuisce. «Mi auguro che non lo diventerai mai. Ma questo è ancora da vedere. Basta fare di testa tua.» Poi, trattiene il respiro: «Se avrai bisogno di qualcosa, io ci sarò per te, ma se oserai mentirci di nuovo… Viktor, ti ucciderò io stesso.»

Detto questo, si alza, sentendosi come se anche il suo corpo avesse sessant’anni, le giunture che protestano per essere rimasto fermo a lungo – ma è solo la sua mente, che stride e si contorce e non sempre riesce a distinguere il calore buono del caminetto acceso con quello terrificante della terra riarsa dell’Apocalisse in cui è invecchiato da solo.

 

«Mi dispiace» aggiunge all'ultimo, prima di uscire dalla porta, il palmo già appoggiato sulla maniglia.

 

Vik sbuffa e lo guarda da sotto in su, immobile sulla poltrona di loro padre: «Davvero credi» gli domanda, quasi dolente, quasi bonario. «Che ne saresti in grado?»

 

Cinque lo ignora – non è questo il punto, non è vero? Non è cosa può o non può fare, non lo è mai stato. Sono le conseguenze che può accettare e quelle che si rifiuta anche solo di prendere in considerazione.

(Su questo piano, il ragionamento di Viktor in realtà funziona meglio del suo: la risposta è no, ovviamente. Non ne sarebbe in grado.) 

 

«Per aver scelto il nome sbagliato» nicchia invece col capo. «Al nostro compleanno.»

 

Vik sbatte le palpebre, quasi stordito: «Sapevo che c’entravi qualcosa» sbuffa, alla fine, le labbra piegate in una linea affettuosa. «Come hai fatto a convincere papà?»

 

Cinque alza gli occhi al cielo. Sempre il punto sbagliato, pensa, sempre lo stesso codice – matematica, musica – scritto in due lingue diverse. Sempre calcoli il cui risultato non torna: «Non papà» risponde. «Mamma. Neanche Reginald può cambiare ciò che già stato fatto. O, be’» si corregge, stringendosi nelle spalle. «Almeno così credevo, comunque.»

 

A questo, Viktor ridacchia. «Grazie» mormora poi, tornando serio. «È stato il più bel giorno della mia vita.»

 

Cinque alza le sopracciglia, stringe le labbra per non sbuffare: Che tristezza. «Che vita assurda» gli sorride un po’, invece. Lascia andare un respiro: «Viktor mi piace, comunque. Ti si addice di più.»

 

Il suo sorriso è più dolce, più tranquillo – meno stupito ed entusiasta – di quello di Klaus, ma c’è qualcosa nella piega delle sue labbra che gli ricorda loro fratello: «Sì, lo credo anch’io.»

 

(Eccoli, dunque, così tanti anni dopo, sopravvissuti per un soffio a così tanti calcoli sbagliati: finalmente, a nominare bene le cose, ad essere sinceri, almeno per qualche istante, a guardasi in faccia senza domandasi Quale dei nostri cuori è ridotto in briciole così fini da essere ormai polvere, irreparabile?

 

La risposta è Entrambi, così come la risposta è – forse – Potremmo guarire.

 

Se solo ci fosse tempo.) 

 

 

 

 

 

 

Poi, il mondo esplode.

 

(E, di nuovo: cosa c’è di strano? È solo l’ennesima Apocalisse. Dovrebbero essere abituati, a questo punto.)

 

 

 

 

 

 

Cinque non Salta fuori da casa fino a quando la mano di Viktor non è ben stretta fra le sue.

 

(Davvero, gli sembra di sentirlo domandare, il viso inclinato per guardarlo alla luce soffusa della stanza, la schiena appoggiata alla poltrona morbida di loro padre, credi che ne saresti in grado?)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Headcanon: per il loro decimo compleanno, l'Umbrella Academy riceverà dei nomi  propri – sei nomi. Per come la vede Cinque, ci sono solo lati positivi, nel cedere il proprio posto a Vanya.
(+missing moment 3x07)

 

N/A: questa sono io che mi arrendo al fatto di A) non saper più scrivere niente al di fuori di una parentesi e B) di essere così disperatamente innamorata dei fratelli Hargreeves.
— La realtà è che sto vivendo un dramma, ed è questo: avevo una chiavetta, con tipo tutta la mia vita da fanwriter ed ora puff, sparitascomparsa e boh, non so più che fare di me stessa. Imparerò prima o poi di fare il doppio backup? Io non credo.
Quindi: prima fic pubblicata nel fandom, ma neanche lontanamente prima fic scritta su Five The Umbrella Academy. Ho cominciato a scrivere quest'affare qua sopra senza grande convinzione, per superare il blocco della pagina bianca, qualche mese secolo fa e poi me ne sono completamente dimenticata. Su Ferisce la penna, Mari Lace ha indetto la challenge Love beyond romance (che scade ad agosto! Accorrete numerosi! C’è ancora molto tempo per scrivere di bromance <3<3<3) e io me ne sono ricordata e i feels. Scritta sulle note di Brother @Kodaline (ed in particolare per i versi I've got you brother / Though we don't share the same blood / You’re my brother and I love you that's the truth)
— Vbb, by the way: volevo aggiungere i miei 2 cents anch’io su uno degli headcanon più diffusi del canone – e cioè che ci sia un nesso fra il fatto che Five non abbia un nome proprio e Vanya sì + ho FEELS sul rapporto fra ‘sti due, d’accordo? Una marea di feels. Graziepregociao. (+++++ ho ancora più feels su Vanya!Viktor ‘nd same stuff <3<3<3)
— Fun fact, l'altro mio headcanon presente in questa storia, secondo il quale la ricetta preferita di Ben sarebbe la pizza al salame piccante, viene dalla scena di presentazione di Alphonso e Jaymie (solo cuori per loro due), e cioè quella in cui vanno a ritirare le pizze per la Sparrow Academy.
Ah! Titolo @Bernardo di Cluny, De contemptu mundi, che è però famosa per via de Il nome della rosa, @Umberto Eco >>> Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus (“la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi”)

Bye! :D

  
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