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Autore: eeuphoria    23/01/2023    0 recensioni
[soukoku]
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“and we’ve both done it all a hundred times before” —two slow dancers ; mitski
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Davvero credevi che le cose tra voi due non sarebbero cambiate mai. Anche dopo che te ne sei andato l’odore di sangue è rimasto lo stesso e tu ti sei erroneamente convinto che ci fosse un ordine, nella disperata monotonia della vita —suicidi mancati e casi irrisolti, combattimenti e sangue versato, altri suicidi mancati,— che nulla avrebbe mai potuto sconvolgere. Ma Chuuya si è tirato fuori dal gioco a cui tutti voi stavate giocando, e ha preso quello che per qualche motivo eri convinto fosse il tuo ruolo.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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𝐭𝐨 𝐭𝐡𝐢𝐧𝐤 𝐭𝐡𝐚𝐭 𝐰𝐞 𝐜𝐨𝐮𝐥𝐝 𝐬𝐭𝐚𝐲 𝐭𝐡𝐞 𝐬𝐚𝐦𝐞


 

E davvero ti credevi invincibile. Pensavi che in questa vita priva di senso per te non ci fosse niente da perdere. Quando la disperazione dell'esistenza era sbiadita in una noia acromatica e le stelle nel cielo d'estate si erano spente, avevi pensato che questo mondo non avesse più niente da offrire.

Ti sei convinto di essere vuoto; non un essere umano, ma qualcosa che ne aveva l'aspetto e si comportava come tale. Una figura di uomo modellata con polvere e ombra —una copia difettosa dell'opera che Dio aveva creato dall'argilla. Credevi di non sapere che gusto avessero le emozioni. Ti sei chiesto quanto male potesse fare il dolore, quanto fossero bollenti la rabbia e l'amore, se davvero la paura mozzasse il fiato. E ti sei dimenticato di averle provate anche tu, in un tempo così lontano che sarebbe potuta essere la vita di qualcun altro.

Guardando gli esseri umani, quelli veri, migliaia di volte li hai invidiati e milioni li hai derisi. Tu con il tuo intelletto geniale, senza nulla da perdere e senza conoscere la pietà, non hai avuto problemi a farti strada in un mondo di cani randagi —la violenza e il sangue ti si sono attaccate alla pelle e neanche l'acqua santa sarebbe stata in grado di lavar via tutti i tuoi peccati.

Squalificato come essere umano, cos'altro potevi essere, Dazai Osamu? A lungo hai cercato una risposta. Per camminare in un mondo che in realtà è la rappresentazione dell'inferno hai allestito uno spettacolo pittoresco, raffinato nei dettagli. Hai studiato ogni tuo gesto e ogni parola —la sua pronuncia e la lunghezza della pausa dopo la precedente e prima della successiva— così da dare una parvenza di umanità e un senso di inquietudine per ciò che essa celava.

Dazai Osamu, squalificato come essere umano, senza nulla da perdere, pronto a sacrificare ogni cosa.

Qui e ora scopri che qualcosa da perdere in realtà ce l'avevi, e tutto ciò che su di te si diceva e a cui credevi anche tu alla fine non erano altro che storie. E niente era vero. Ora ricordi che la rabbia è un incendio sotto pelle, che la paura prosciuga l'aria dai polmoni, che il dolore è fisico ed erode gli organi.

Ricordi di avere un cuore che ti batte nel petto e fa male, riecheggia tra le costole e il marmo lucido del corridoio —o forse quello che senti è un suono di passi; potrebbe essere la realtà o un'illusione della tua mente, non sei più in grado di dirlo. Non sei neanche sicuro di essere sveglio, dopotutto qui l'aria ha l'odore di un incubo.

Seguire il boss della mafia all'interno di uno dei loro edifici significa varcare di spontanea volontà la soglia dell'inferno, ma a te non importa. Forse è una trappola. Probabilmente lo è. Vorresti che fosse una trappola, Osamu. Lo vorresti così tanto che preghi un dio in cui non credi —tu, il peccatore.

Tre passi avanti a te, Mori ti precede con Elise al suo fianco. Ti concentri sulla bambina per non pensare ad altro, o forse per pensare a qualcosa; trovi ci sia un che di spettrale nel modo in cui la scarsa illuminazione crea giochi di ombre tra i boccoli biondi e le pieghe rosse dell'abito. Spettrale ed elegante, ipnotico. Ha la sicurezza di una regina nel suo castello, e dopotutto la Port Mafia è un po' il suo parco giochi.

Come se i tuoi pensieri l'avessero chiamata, Elise si volta e ti osserva con uno sguardo del colore del cielo —ti ritrovi a pensare che odi gli occhi azzurri più di qualsiasi altra cosa al mondo. «Siamo arrivati» ti avverte la sua voce di bambina.

E, Osamu, forse quella è la voce del diavolo. Perché davanti a te si staglia una porta di metallo che è l'anonimo cancello del regno dei morti.

Se c'è qualcosa di te che possa valer la pena salvare —se, nonostante le catene dei tuoi peccati avvolte attorno ai polsi, c'è ancora un tenue bagliore sepolto nel sudiciume del tuo animo— allora non puoi andare oltre questa porta. Non puoi vedere, Osamu.

E se anche ormai non ci fosse più nulla da salvare, se davvero tu non fossi altro che un dannato in attesa del castigo, comunque non vuoi vedere.

Preferiresti morire adesso, adesso più che mai. L'insipida desolazione del mondo che ti ha portato, come il più patetico dei disillusi, a cercare nella morte una via di fuga si trasforma in cieca disperazione. L'aria nei polmoni diventa pesante e giunge il panico a mozzarti il fiato.

Vorresti fuggire, ma in questo mondo non c’è posto dove nascondersi e allora l’unica possibilità è una bara sei piedi sotto terra.

Mori spalanca le porte senza esitazione e ti rivolge un sorriso serafico. «Prego» dice, e si accosta all'ingresso per farti passare.

Non vuoi entrare, Osamu.

Accetteresti qualunque altra cosa. Sei disposto a lasciare che Mefistofele ti trascini all'inferno con sé. E sei sicuro che Mori lo sappia, mentre con un cenno del capo ti sprona a fare ancora un passo avanti.

Non vuoi entrare, ma lo fai lo stesso.

La stanza è vuota, un cubo di pareti bianche e soffitto bianco e pavimento bianco. C'è solo un lettino, proprio al centro; il cadavere è coperto da un velo nero.

E il fondo dell'inferno, a quanto pare, è tutto qui.

Gli occhi di Lucifero —che in questa vita si fa chiamare Mori Ogai— ti bruciano sulla nuca con curioso interesse e soddisfazione perversa. Vuole vederti soffrire come un cane, o come un uomo. Vuole essere lo spettatore della tua disperazione e il testimone del momento in cui Dazai Osamu, squalificato come essere umano, va in frantumi e crolla.

Hai l’impressione che stia celando lo stesso fastidio di un bambino a cui hanno tolto la possibilità di essere il primo a provare il gioco nuovo. Se si fosse accorto del coltello che ti teneva puntato alla gola, di quel tuo punto debole dagli occhi blu e i capelli rossi che già da tempo stringeva tra le mani, ne avrebbe sicuramente approfittato. Ti avrebbe torturato lentamente così come piace a lui: con minacce e promesse vuote, ricatti e patti non rispettati.

(L’avresti preferito anche tu, Osamu. Avresti preferito saperlo, avere più tempo, e forse poter fare qualcosa.)

Ma alla fine è stato Chuuya a scegliere, e vi ha lasciati tutti con l’amaro in bocca —mille rimpianti e mille altre cose che sarebbero potute andare diversamente.

Ingoi la disperazione e hai l’impressione che potresti morirne, eppure non è un sapore a te sconosciuto. «La mafia ha i suoi modi per seppellire i suoi morti» dice una voce che potrebbe essere la tua, anche se non la ricordavi così sottile. «Che cosa ci faccio io qui?»

«Sai come era fatto: nascondeva un animo da romantico sotto il cappello. È tradizione che siano i parenti stretti a raccogliere le ceneri del defunto»

«Io non sono un parente stretto»

«Sei tutto ciò che aveva»

Adesso Mori è la voce della tua coscienza. (Inizi a chiederti se davvero si trovi nella stanza con te o sia parte di un sogno, e ancora non riesci a capire quanto di ciò che sta avvenendo sia reale.)

Eri tutto ciò che aveva e lo sai, Osamu. Lo sapevi anche quando te ne sei andato.

C’è stato un tempo in cui credevi che voi due insieme avreste potuto fare qualsiasi cosa e il nome Doppio Nero sarebbe risuonato in eterno nella notte di Yokohama. Per te che non hai mai trovato una valida giustificazione allo sforzo di vivere quei pensieri a stento sembravano tuoi —avevano il sapore di capelli rossi e occhi blu. A lungo, Chuuya è stato tutto ciò che avevi; ma anche dopo che te ne sei andato senza voltarti e senza salutare, hai continuato a essere tutto ciò che aveva.

Ormai è troppo tardi per gli addii. È troppo tardi anche per renderti conto che forse quell’essere il tutto l’uno dell’altro era un sentimento.

Piano, senza fretta, ti avvicini al lettino mentre finalmente ti rendi conto che non si tratta di un sogno, né di un incubo.

«Temo che tu ti sia fidato di me una volta di troppo, caro partner» sussurri alla figura sul lettino. Il ricordo del viso addormentato di Chuuya vive nella tua mente e se non sollevi il velo nero puoi far finta che sotto ci sia la stessa espressione beata di quando era solito addormentarsi dopo un bicchiere di troppo —una guancia premuta sul bancone del bar e il viso arrossato dall’alcol.

«Non è stata la sua abilità a ucciderlo» specifica Mori a voce fin troppo alta, in un modo che sembra sacrilego (di solito nei cimiteri si fa silenzio). «Aconito. È un fiore disgraziatamente meraviglioso: petali blu come il cielo poco dopo il tramonto, il solo contatto può portare all'intossicazione. Oh, no, non l’hanno avvelenato» prosegue, quando nota il tuo corpo irrigidirsi. «C'erano fiori di aconito nella bottiglia più pregiata della sua collezione, e ne abbiamo trovato una pianta nel suo appartamento. Un biglietto non sarebbe potuto essere più chiaro»

Credevi di essere tu l’aspirante suicida, Osamu. All’improvviso ti coglie un senso di vertigine. Il mondo si fa sfocato, poi scuro, vibrante; temi che le tue ginocchia stiano per cedere, ma dura un attimo solo e subito dopo ritorni in te. Allora ti accorgi di esserti appoggiato alla barella per non cadere e la tua mano preme sulla seta liscia. Sotto le dita senti la forma di una mano.

Trattieni il fiato e un conato di vomito. «Non dovevo raccogliere le ceneri?»

«Ho pensato che avresti voluto vederlo un’ultima volta» dice Mori. Gli occhi del diavolo hanno notato ogni spasimo del tuo corpo, ogni respiro mancato e ogni traccia di sangue scomparsa dal tuo viso e ora può dirsi sufficientemente soddisfatto. Elise allunga le mani senza dire una parola, lui la prende in braccio ed esce dalla stanza.

Rimani solo con il cadavere dell’uomo che forse hai amato senza saperlo e che si è suicidato prima di te.

Non hai il coraggio di sollevare il velo e guardare la morte dipinta sul suo viso. Stringi la presa su una mano immobile e ti chini in avanti, appoggi le labbra lì dove il velo copre la sua fronte.

«Sayonara, Chuuya»

 

*


Conosci la morte come una vecchia amante. È una dama elegante che ha il profumo ammaliante dell’oblio, e come un innamorato l’hai corteggiata e cercata in ogni angolo di questo mondo maledetto. L’hai riempita di doni: vite strappate come altri strappano fiori, più e più volte hai tentato di offrirle anche la tua.

Mentre con le bacchette da cerimonia raccogli ciò che resta di Chuuya —ossa bianchissime, di una tetra bellezza, che cadono con tonfi sordi nell’urna già piena di cenere— ti rendi conto che la morte è una donna gelosa.

Credevi che nel tuo essere qualcosa di diverso dall’umano non avessi motivo di piangere. Ma adesso sai che se le lacrime potessero lavar via il tuo dolore, piangeresti volentieri. Solo che a quanto pare proprio non ne sei capace; le lacrime sono per la tristezza e tu non sei triste.

La tua anima è vuota, più vuota che mai.

Ti credevi invincibile, Osamu. Ma qualcosa da perdere in realtà ce l’avevi, e ora l’hai persa.


 

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L’uomo il cui nome è Dazai Osamu e che ha scoperto da poco di essere davvero un uomo si presenta in ufficio al termine della pausa pranzo, con solo sei ore di ritardo.

Il suo collega —che non è sicuro di poter considerare effettivamente un amico, anche se gli piacerebbe— è il primo a notare la sua presenza e scatta in piedi non appena lo vede. «SI PUÒ SAPERE DOVE SEI STATO TUTTA LA MATTINA?»

L’intera agenzia si volta a guardarlo, mentre Dazai si sfila il cappotto con leggerezza e nonchalance e lo getta sul divano.

«In giro per Yokohama. Dì, Kunikida, sei mai salito sulla ruota panoramica? È un’esperienza che va fatta almeno una volta nella vita»

Il giovane impiegato Nakajima Atsushi si astiene dal commentare che la ruota si trova talmente vicino al quartier generale della Port Mafia che tutta la zona potrebbe essere considerata il giardino della malavita.

Kunikida si sistema gli occhiali sul naso, stizzito. «Devo ricordarti che hai un lavoro?»

«Oh, ma ho anche lavorato. Un pochino» le labbra di Dazai si incurvano in un sorriso irriverente, inquietante e senz’anima, sotto un paio di occhi spenti e profondi come pozzi vuoti. «Ho scoperto una cosa interessante»

«Trovare nuovi modi di suicidarti non rientra nella definizione di lavoro»

«Ok, allora salterò quella parte» Dazai si siede sulla scrivania, facendo cadere un portapenne e piegando tutti i fogli sul tavolo quando incrocia le gambe. «La Port Mafia ha appena perso uno dei suoi uomini migliori. Un dirigente, per di più. È probabile che per qualche tempo se ne staranno tranquilli, ma faremo meglio a tener d’occhio chi prenderà il suo posto»

Nella stanza cala il silenzio, qualcuno ha capito e qualcuno invece no. Nakajima Atsushi si chiede se dovrebbe dire qualcosa al suo mentore, ma non saprebbe cosa.

«Queste sono informazioni importantissime!» esclama Kunikida e gli occhiali gli scivolano sul naso. «Come le hai avute? Perché non le hai riportate subito? Devi metterle immediatamente a verbale!»

«Atsushi» cinguetta Dazai. «Ho un lavoro importante da affidarti!»

Prima che il ragazzo possa rispondere, l’uomo scende dalla scrivania con un balzo e gli sventola sotto il naso una busta da lettera appena estratta dalla tasca dei pantaloni. «Devi redigere a verbale le cose che ho scritto qui. Me lo puoi far avere entro stasera, vero?»

«Entro stasera?!» è l’unica cosa che Atsushi riesce a ribattere, mentre nella sua mente la lettera si va ad aggiungere alla lista di compiti da portare a termine per la fine della giornata.

«Già già! Sono sicuro che farai uno splendido lavoro! Però non sarò nel mio appartamento, potrai trovarmi a questo indirizzo» Dazai raccoglie dal pavimento una delle penne che ha fatto cadere poco fa, rigira la busta e scrive qualcosa in inchiostro rosso. Poi consegna la lettera ad Atsushi, si rimette la giacca e torna verso la porta da cui è entrato meno di dieci minuti fa. «Be’ io vado. Ciao ciao»

E così, l’uomo (perché ormai è solo un uomo) di nome Dazai Osamu saluta l’agenzia di detective armata ed esce di scena.

Nakajima Atsushi abbassa lo sguardo sulla busta che ha tra le mani. Non c’è scritto nulla a parte lo scarabocchio che una volta decifrato si rivelerà essere un indirizzo. Niente mittente o destinatario, ma è stata sigillata con del nastro adesivo, come per evitare che venga letta dalla persona sbagliata.

«TORNA QUI, MALEDETTO, NON SONO NEANCHE LE TRE!» gli urla dietro Kunikida, mentre la porta si richiude sbattendo.

«Kunikida» chiama Ranpo. Ha osservato la scena in silenzio dalla sua scrivania, il sacchetto di patatine che stava mangiando poco fa è stato insolitamente dimenticato sul tavolo.

«Lascialo stare. Quella è la faccia di un uomo che sta per morire»
 
 
 

   
 
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