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Autore: Puffardella    24/01/2023    0 recensioni
Eilish è una principessa caledone dal temperamento selvatico e ribelle, con la spiccata capacità di ascoltare l’ancestrale voce della foresta della sua amata terra.
Chrigel è un guerriero forte e indomito. Unico figlio del re dei Germani, ha due sole aspirazioni: la caccia e la guerra.
Lucio è un giovane e ambizioso legionario in istanza nella Britannia del nord, al confine con la Caledonia. Ama il potere sopra ogni altra cosa ed è intenzionato a tutto pur di raggiungerlo.
I loro destini si incroceranno in un crescendo di situazioni che li spingerà verso l’inevitabile, cambiandoli per sempre.
E non solo loro...
Genere: Guerra, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Antichità greco/romana
Capitoli:
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CAPITOLO 2


LUCIO
«Maledetta nebbia britannica» si lamentò l’uomo tarchiato appena ebbe messo piede fuori dalla piccola taverna, da dove proveniva un assordante vociare di soldati romani e di indigeni locali. «Ti entra nelle ossa e te le marcisce lentamente. Otto mesi all’anno di fitta, umida, maledetta nebbia sempre presente, con la pioggia e con la neve, con il freddo e con il caldo» continuò biascicando le parole.
Lucio sogghignò. Il suo compagno di bevute, il centurione Rufus, che comandava una delle sei centurie della quarta coorte - la stessa il cui comando era affidato a lui per i due mesi previsti dal regolamento - usava spesso la parola “maledetta”, soprattutto quando era di pessimo umore. Proprio come in quel momento, che era costretto a tornare al castro senza aver dato sfogo ai suoi bisogni sessuali. 
Era quasi un anno, ormai, che Lucio sopportava il carattere burbero di quell’uomo, da quando cioè era entrato a far parte di ciò che era rimasto della Ventesima, stabilitasi definitivamente a Vindolanda con il principale compito di difendere le colonie romane da eventuali quanto improbabili incursioni delle tribù del nord. Improbabili in quanto, dopo l’ultima guerra in cui i barbari avevano avuto la meglio ed erano riusciti a respingere i Romani a sud del fiume Tay, entrambe le fazioni avevano dimostrato di non volersi cimentare in nuovi scontri. Per tanto, i Germani avevano smesso di compiere razzie ai danni delle tribù britanniche e i Romani avevano deciso che la Caledonia non fosse adatta alle loro esigenze espansionistiche.
In simile contesto rilassato, quindi, Lucio e Rufus avevano stretto un legame d’amicizia piuttosto singolare. Il genere di amicizia che ti costringe a indossare due volti: quello distaccato e professionale in servizio, e quello più confidenziale in privato.
E funzionava, anche se erano in molti a non vedere di buon occhio il loro rapporto.
In genere, legionari e ufficiali non andavano molto d’accordo. La fanteria non aveva molta stima nei confronti di chi impartiva ordini, che di solito si limitava ad urlarli dalle retrovie in sella al proprio cavallo ma che difficilmente si univa ai ranghi della fanteria in battaglia. Questo anche se gli ordini riguardavano cose di natura non prettamente bellica, come la costruzione di ponti, la restaurazione di palizzate, la realizzazione di strade o il mettersi in marcia per semplici azioni ricognitive.
Un ufficiale era un essere spregevole, dunque, sia in tempi di guerra che di pace, perché ciò che sapeva fare meglio era urlare ma, di fatto, erano i soldati a sporcarsi le mani.
Gli ufficiali non erano soldati ma politici che stazionavano nella milizia quel poco che serviva loro per tornare a casa e ricoprire incarichi più prestigiosi.
Rufus soleva asserire che i legionari erano il vero scheletro dell’esercito e che, senza di essi, Roma sarebbe rimasta un villaggio di capanne abitato da un pugno di pastori. Invece Lucio, il quale in fondo era assolutamente d’accordo con l’amico ma che per niente al mondo avrebbe ammesso pur di non compiacerlo, ribatteva puntualmente che senza ufficiali l’esercito sarebbe stato poco più di un branco di pecore senza controllo. Se la fanteria era lo scheletro e i muscoli dell’esercito, gli ufficiali ne erano il cervello.
Le loro dispute prendevano spesso toni salaci, ma finivano sempre con una gran bevuta. Rufus, comunque, nonostante si prendesse la libertà di esporre le sue opinioni e di contraddirlo quando non indossavano l’armatura, non dimenticava mai che, sebbene inesperto e, a sua detta, molto spesso arrogante, era un suo superiore. Per questo in servizio manteneva il giusto distacco e non abusava mai della loro amicizia, soprattutto davanti agli uomini.
Se aveva contestazioni da fargli, gliele faceva in privato.
«Non te la prendere con la nebbia, acido vecchio che non sei altro. Non è colpa della nebbia se la tua donna ti ha dato di nuovo buca» disse Lucio.
«Te lo dico io, Lucio: non ha trovato la strada, ecco perché non è venuta. Non l’ha trovata per colpa di questa maledetta nebbia, che inghiottisce tutto e fa marcire le ossa otto mesi all’anno» blaterò ondeggiando leggermente. Si fermò e si guardò intorno smarrito. «Ma dove accidenti è finita quella maledetta anfora?» lamentò. «È sempre stata qui, davanti alla conceria…»
«Già. Peccato che la conceria l’abbiamo già passata» gli fece notare Lucio divertito.
Il legionario fece un gesto stizzito con la mano.
«No, che non l’abbiamo passata. Non sono così ubriaco. E come potrei, se in questo posto abbandonato dagli dei e dalla civiltà si beve solo birra? Birra, capace solo di riempirmi la vescica e mai di farmi perdere i lumi della ragione come piace a me» brontolò entrando in un vicolo stretto, dove fece a meno dell’anfora e liberò la vescica sul muro di una palazzina, mentre continuava a inveire: «Anche l’anfora è stata inghiottita dalla nebbia… Ah, maledetta nebbia! E maledetta birra che mi fa pisciare ogni venti passi.»
«Smettila di lamentarti come una donnina isterica. Domani arrivano i rifornimenti e potrai bere vino a volontà.»
«Sempre se riusciamo a trovare la strada fino al porto. Guardati intorno, ragazzo. Non si vede ad un palmo dal naso.»
Lucio doveva ammettere che aveva ragione.
Aveva avuto una certa difficoltà ad ambientarsi in una terra nebulosa e fredda come quella. Qualche volta si era perfino domandato cosa ci ricavasse Roma da una provincia così inospitale, che niente aveva a che vedere con le dolci colline della capitale dell’impero spesso accarezzate dalle gentili brezze che soffiavano dal mare, il cui clima temperato mitigava il freddo invernale.
Istintivamente fece quanto gli era stato suggerito dal centurione e si guardò intorno. A malapena era possibile intravedere le sagome delle case di mattoni nelle vicinanze. Tutto era avvolto in un manto di vapore talmente fitto da essere quasi tangibile. Se poi si cercava di scrutare qualcosa all’orizzonte, il risultato era davvero deprimente, e il buio della notte non migliorava certo la situazione.
Lucio cercò di dare una giusta collocazione alle cose nel paesaggio attingendo dalla memoria: dinanzi a lui, in altre circostanze ben visibile grazie alla posizione di rilievo in cui si trovava in quel momento, c’era l’accampamento militare di Vindolanda, con le baracche per i soldati, i negozi, le stalle, le officine, l’ospedale, il quartier generale e le abitazioni degli ufficiali. Alla sua destra, a sud del fortino, un’enorme distesa di terra fertile, che in primavera veniva coltivata a frumento e orzo e che finiva là dove iniziava la foresta di faggi e querce.
Lucio si voltò verso i boschi ma, come era prevedibile, non gli fu possibile distinguere la massa scura della selva, di solito identificabile anche al buio.
«Niente, non si vede un accidenti di niente!» tornò a lamentarsi il centurione.
Lucio stava per dargli ragione quando gli parve di scorgere il barlume di un fuoco fra i boschi. Sembrava improbabile che qualcuno potesse accendere fuochi nella selva a quell’ora di notte, eppure qualcosa aveva pur visto. Aguzzò la vista e stette un momento interminabile in attesa, concentrato. Poi lo scorse di nuovo: un debole bagliore rosso che infiammava la nebbia al di sopra degli alberi in un’area circoscritta.
«Che accidenti è?» si chiese ad alta voce.
Attirato dalla sua esclamazione, Rufus si mise al suo fianco e scrutò a sua volta le tenebre.
«Ragazzo, io bevo e tu ti ubriachi. Non c’è niente da vedere perché non si vede niente, te l’ho detto!»
«Sì, invece. Guarda bene, Rufus. Là, nei boschi… Sembra un incendio…»
Rufus strinse gli occhi in due fessure strettissime e rimase a lungo così, immobile, col viso sollevato e lo sguardo attento.
«Hai ragione, ci sono dei fuochi accesi. Ma non è un incendio.»
«Allora cosa?»
Rufus aggrottò la fronte. «Che giorno è oggi?»
«La vigilia delle calende di novembre. Perché?»
«Come immaginavo. Stanno di nuovo celebrando quella loro festa delle tenebre, o qualcosa del genere… Era un po’ che non lo facevano e che abbiano ripreso a farlo non è una buona notizia.»
Lucio rifletté brevemente su quelle parole.
«Druidi?»
«Temo di sì.»
«Credevo che l’imperatore avesse vietato le pratiche druidiche.»
«Vietato? Come si fa a vietare qualcosa agli animali? Questa gente è più ostinata della moglie che non ho mai avuto. Abbiamo edificato case di mattoni per loro e loro continuano a vivere in capanne di legno. Abbiamo costruito terme e latrine e loro continuano a lavarsi nei fiumi e a cacare nei cespugli. Figurati se abbandonano i loro riti. Roma crede di poterli civilizzare ma non saranno mai come noi, Lucio.»
Lucio si infervorò all’idea che quei rozzi selvaggi osassero contravvenire agli ordini dell’imperatore.
«Dovremmo mandare degli uomini in ricognizione e…»
«Ooh, frena ragazzino. Mandare uomini dove? Lì? In piena notte e con questa fottuta nebbia?» Rufus atteggiò le labbra in una smorfia sprezzante. «Te lo devo proprio dire: mi sei subito stato antipatico. Non c’è niente di peggio di un plebeo che si dà le arie di un patrizio. Ti ho concesso la mia amicizia solo in virtù del fatto che, nonostante ti piaccia farti chiamare col cognome adottivo di quella specie di canaglia di tuo suocero, sei figlio di tuo padre, e tuo padre ed io abbiamo combattuto insieme per oltre dieci anni in tutte le ultime fottute guerre romane. È morto davanti ai miei occhi, con onore, non certo perché fosse un tipo avventato come te. Quando ti ho conosciuto ti ho detto che avresti dovuto meritartela, la mia stima, te lo ricordi? Ecco, direi che adesso sei a un passo dal perderla del tutto» disse Rufus con incredibile lucidità, come se qualcuno gli avesse appena gettato un secchio d’acqua ghiacciata sul viso e lo avesse costretto a tornare sobrio prima del tempo.
«Ma non capisci? Loro non sanno che li abbiamo visti. Potremmo coglierli di sorpresa…»
«Non sanno che li abbiamo visti? Sì, che lo sanno. Puoi giurarci che lo sanno. Ecco perché hanno fatto un falò così imponente: per farsi vedere. Ci stanno istigando, ci stanno dicendo: “Ehi, coglioni romani, noi siamo qui e del vostro imperatore ce ne frega meno della merda di maiale.”»
«A maggior ragione non devono restare impuniti!» esclamò Lucio ormai in preda alla collera.
«Se fosse stato giorno e se fosse stato possibile vedere qualcosa al di là dei miei piedi, non li avremmo lasciati impuniti. Ma stanotte possono fare quello che vogliono. Non manderò a morire i miei uomini per un maledetto falò!»
«I tuoi uomini?» replicò Lucio infastidito.
«Miei, tuoi, del fottuto legato, del dannato imperatore: non è questo il punto, ragazzo! La vita di quegli uomini vale molto più di un rogo. Che continuino a bruciare legna e ci si arrostiscano le palle, se lo desiderano. A loro ci penseremo domani.»
Lucio avrebbe voluto ribattere, protestare, prendere a pugni quell’uomo insolente e ricordargli chi aveva davanti. Ma strinse forte i pugni e lasciò perdere. Per quanto fosse stato irrispettoso, aveva ragione.
Non sapevano quanti uomini ci fossero nella foresta, né se fossero o meno armati. Inoltre, anche volendo, era altamente improbabile che sarebbero riusciti a raggiungerli. E se anche ci fossero riusciti, quanti legionari avrebbero rischiato di perdersi nella foresta? Quanti sarebbero rimasti impantanati negli acquitrini fangosi?
Tuttavia, si mise di fronte al centurione con fare minaccioso. Lucio era incredibilmente alto per essere un romano e Rufus incredibilmente basso per essere un gallo, perciò lo sovrastò con la sua mole e lo guardò dall’alto in basso, puntandogli un dito sul petto.
«Hai ragione, Rufus, sarebbe un suicidio inoltrarsi nei boschi, stanotte. Ciononostante ricordati chi hai dinanzi la prossima volta che hai intenzione di espormi le tue opinioni.»
«Lo faccio sempre, Lucio.»
«Vedi di farlo meglio» gli intimò, prima di voltarsi e incamminarsi velocemente verso il castro.


Lucio tornò dal giro di ispezione e si mise subito in testa alla colonna, al fianco di Rufus. Era ancora arrabbiato con lui per lo scontro verbale che avevano avuto la notte precedente. Così, anche se si rendeva conto che il centurione andava ragguagliato, subito non disse nulla. Continuò a rimuginare a lungo, preoccupato. 
Quando all’alba aveva fatto rapporto al prefetto e lo aveva messo al corrente del falò, aveva posto l’accento sull’eventualità che i druidi potessero trovarsi ancora nella foresta e aveva chiesto due centurie in aggiunta a quella che di norma gli veniva concessa per le missioni logistiche.
Temeva delle incursioni barbariche col rischio di perdere i rifornimenti. Questo sarebbe stato un duro colpo, soprattutto per il fatto che il grano cominciava a scarseggiare. I raccolti delle campagne di gran parte delle colonie romane erano stati fortemente danneggiati dalle violenti piogge che si erano succedute in primavera e per tutta l’estate, oltre al fatto che l’umore degli uomini cominciava ad essere nero visto che il vino, la bevanda per eccellenza del popolo romano, era ormai introvabile. Il prefetto, tuttavia, si era fatto una grassa risata delle sue illazioni e gli aveva consigliato di smettere di frequentare assiduamente le locande, soprattutto nei giorni di fitta nebbia.
Lucio, quindi, si era dovuto accontentare dei suoi soliti sessanta soldati e una manciata di equestri, che erano meno del numero regolamentare di una centuria dal momento che tutti i reparti erano stati drasticamente ridotti all’osso dall’imperatore Domiziano, visto che ormai lo scopo della milizia romana era per lo più difendere.
Difendere, costruire e civilizzare.
In quanto a civilizzare, Lucio aveva i suoi dubbi sulla riuscita dell’impero. Quell’ubriacone irrispettoso di Rufus aveva ragione, dopo tutto: i Britanni non sembravano molto avvezzi alle città e alle abitudini più civili dei Romani. Ma, accidenti a quell’incompetente del pretore, lui avrebbe almeno voluto provare a “difendere”. Ecco perché, sulla strada per Eboracum, aveva messo Rufus al comando ed era andato in perlustrazione insieme ad un paio di equestri.
«Allora, hai trovato qualcosa?» gli chiese all’improvviso Rufus a bassa voce, obbligandolo a interrompere il flusso dei pensieri.
«Vorrei che tu ti rivolgessi a me col titolo che mi spetta, da oggi in poi. Anche quando non ti sente nessuno» lo ammonì Lucio continuando a guardare davanti a sé, impettito. E siccome non ricevette risposta, aggiunse: «Sono stato chiaro?»
Rufus strinse le labbra, ma dovette cedere.
«Sì, comandante» rispose fra i denti.
«Le braci stavano ancora fumando. Il falò era solo uno, ma dalle dimensioni decisamente ragguardevoli. C’erano tracce di numerosi cavalli sul terreno, ma oltre a questo non c’era altro di rilevante di cui prendere nota. E, naturalmente, non abbiamo incontrato nessuno.»
«Mmh…» fu l’unico commento del centurione. Segno che la faccenda lo allarmava, esattamente come allarmava lui. L’unica cosa positiva era che la fitta nebbia dei giorni precedenti aveva lasciato il posto ad una sottile foschia lattiginosa, che consentiva se non altro di vedere discretamente. 
«Sarà meglio rimanere guardinghi. Manderò due uomini a cavallo a perlustrare la strada.»
«Sì, comandante.»
«E da’ l’ordine agli uomini di accelerare il passo. Vorrei arrivare prima dell’imbrunire a Eboracum.»
«Sì, comandante. Ottima idea, comandante.»
Lucio percepì il tono di burla nella voce del centurione e arrossì dalla rabbia. Avrebbe voluto dirgli di smetterla con tutti quei comandante, ma lui avrebbe sicuramente controbattuto che stava solo eseguendo i suoi ordini e i suoi ordini erano stati molto chiari: doveva rivolgersi a lui col titolo che gli competeva ogni volta che veniva interpellato.
Gli lanciò un’occhiata in tralice, prima di spronare il cavallo al galoppo.

Arrivarono a Eboracum al tramonto in perfetto orario sulla tabella di marcia, senza imprevisti né minacce di alcun tipo. Tuttavia era il ritorno che preoccupava Lucio, quando i carri sarebbero stati pieni di provviste.
Appena furono arrivati all’accampamento della colonia, Lucio si presentò al legato in comando per fare rapporto. Quando questi gli chiese come fosse andato il viaggio, lo mise al corrente dei suoi timori. Timori che Flavio Costantini, il comandante della Nona Invicta, non fece nulla per fugare. Anzi.
Diversi druidi erano stati avvistati anche nei dintorni di Eboracum e, gli era stato riferito, perfino a Londinum, capitale della provincia britannica. Il prefetto era del parere che i druidi stessero cercando di fomentare altre ribellioni, raccogliendo guerrieri fra la plebe delle diverse tribù, che, a differenza dei nobili - i quali infine si erano sottomessi a Roma di buon grado -, continuava a essere diffidente e, soprattutto, recalcitrante.
Il comandante si guardò bene dall’esprimere giudizi diretti nei confronti del prefetto di Vindolanda, ma che non fosse d’accordo con la leggerezza con la quale aveva valutato la situazione fu palese dal fatto che, il giorno dopo, fece mobilitare due centurie di supporto per rafforzare quella di Lucio.
Al risveglio, Lucio dovette constatare che la nebbia era tornata più fitta che mai.
La colonna si mise nuovamente in marcia alle prime luci dell’alba, subito dopo aver caricato sui carri i viveri, la corrispondenza e le paghe dei soldati.
Rufus camminava in testa ai suoi uomini, più cupo e taciturno che mai, e Lucio procedeva al suo fianco, sul cavallo. La spiacevole sensazione che il viaggio di ritorno non sarebbe stato tranquillo come quello dell’andata non gli dava tregua.
L’umidità presente nell’aria aveva impregnato il suo mantello rosso bordato d’oro, rendendolo pesante. Sulla raffinata lorica musculata, che grazie alle finanze del suocero aveva potuto permettersi in bronzo, si condensavano goccioline d’acqua che ne appannavano la lucentezza.
Lucio sbirciò il centurione con la coda dell’occhio. Da quando lo aveva redarguito, il tozzo legionario si era chiuso in un silenzio ostinato.
Sentiva il bisogno di confidare a qualcuno le proprie paure, di mettere a tacere i timori che crescevano dentro di lui, ma l’unica persona con la quale avrebbe potuto farlo lo trattava con distacco, come del resto lui stesso gli aveva imposto.
Era terrorizzato all’idea di dover affrontare una battaglia in qualità di ufficiale in comando. Tante volte aveva sentito narrare di giovani tribuni inesperti che, durante scontri violenti col nemico, si erano fatti prendere dal panico ed erano scoppiati in lacrime, terrorizzati.
Lucio si disse che non era quello il suo caso. Lui non aveva paura di morire, piuttosto di non essere in grado di guidare gli uomini affidati al suo comando, divenendo così responsabile della loro morte e, soprattutto, di essere ricordato in seguito come un incompetente. Quello era il motivo per cui, in quel momento, il cuore gli tamburellava violento nel petto.
Il bisogno di condividere con qualcuno i suoi timori lo obbligarono a mettere da parte l’orgoglio. Prese fiato per porre fine alle ostilità col centurione quando, all’improvviso, i due cavalieri che erano stati mandati avanti in perlustrazione raggiunsero la colonna al galoppo.
«La strada è sbarrata da tronchi a mezzo miglio di distanza» informarono. Lucio sentì le budella aggrovigliarglisi. I suoi timori si stavano rivelando fondati. Fermò la colonna e si guardò intorno allarmato, come tutti gli altri. Fu in quel momento che udirono le grida. Provenivano da entrambi i lati rialzati della strada, fra il fitto degli alberi nascosti dalla nebbia.
L’adrenalina diede a Lucio un’improvvisa padronanza di sé.
«MURO!» gridò senza esitazioni. Il suo ordine fu ripetuto dai centurioni e i legionari delle righe esterne si abbassarono conficcando l’estremità inferiore dei pilum sul terreno con le punte verso il nemico. Contemporaneamente, i soldati delle seconde righe alzarono gli scudi sopra i compagni delle rispettive prime righe.
Fortunatamente, il tratto di sentiero che stavano percorrendo in quel momento era ampio abbastanza da consentire tale assetto.
La nebbia rendeva ogni cosa spettrale, dava all’atmosfera una realtà onirica. Il frastuono, sempre più assordante, era tutto ciò che testimoniava l’imminente attacco. Mentre gli uomini si guardavano intorno, un’ondata improvvisa di frecce e sassi squarciò il muro di nebbia, andando però a colpire i carri nel centro della formazione, senza provocare danni. Subito dopo iniziarono a comparire i primi barbari, con le spade sguainate, i visi pallidi ed emaciati e le orbite degli occhi scavate.
Avevano l’aspetto di spettri rabbiosi. Lucio rabbrividì a quel pensiero. I barbari impattarono sul muro dei soldati romani; molti di loro rimasero impalati sulle lance. Lucio si guardò intorno, sorpreso che a dare l’attacco non fossero stati i cavalieri, come si era aspettato. Eppure ce ne erano. Sentiva i cavalli nitrire, eccitati dalla battaglia.
I barbari continuavano a gettarsi su di loro, emettendo urla animalesche e battendo selvaggiamente le spade sugli scudi per amplificare il boato. Tuttavia rimanevano impalati sulle lance o cadevano sotto i colpi delle corte spade romane che, fulminee e precise, uscivano dagli spiragli degli scudi in alto e penetravano nelle loro carni.
I cadaveri proseguivano ad ammassarsi ai piedi dei ranghi ben serrati dei legionari, ma il loro ammucchiarsi non scoraggiò i barbari che, anzi, iniziarono a salirci sopra per saltare sul muro di scudi, per poi finire, a loro volta, sotto i possenti colpi di gladio dei soldati romani.
Eppure, nonostante continuassero a cadere come mosche, seguitavano a riversarsi a frotte su di loro, come animali impazziti impazienti di arrivare al macello. Lucio, dall’alto del suo destriero, colpiva tutti quelli che si lanciavano sopra gli scudi. Agiva d’istinto, senza riflettere, con una naturalezza sconvolgente.
Nessuno, nel vederlo in quel momento, avrebbe pensato che fosse al suo primo combattimento. Colpiva i nemici alla nuca, alla gola, al cranio, emettendo urla rabbiose. Ad ogni colpo che infliggeva, il sangue caldo del nemico gli schizzava sulla faccia, sull’armatura e sulle braccia. La mano con la quale stringeva il gladio si intrise così tanto del sangue dei barbari che rischiò più volte di perdere la presa.
La nebbia copriva ogni cosa, solo all’ultimo riusciva a vedere l’espressione di rabbia, ma anche di terrore, nei volti dei suoi nemici.
Presto fu colto da una sgradevole sensazione, che andò definendosi gradualmente. Quando realizzò di cosa si trattava, ne rimase sconcertato. I volti emaciati delle persone che continuava a uccidere con ferocia appartenevano a vecchi, uomini, donne e perfino fanciulli. Quei barbari non sembravano guerrieri. Sembravano solo contadini. Sembravano solo pastori. Sembravano solo persone affamate. E l’esito della battaglia, nettamente a favore dei romani, gli dava ragione.
Ma dove erano i druidi? Lucio comprese che i sacerdoti si tenevano in disparte, al riparo sull’altura, in sella ai propri cavalli, e provò un folle disprezzo per quegli esseri ignobili che avevano portato i propri fratelli al massacro, tenendosene tuttavia bene alla larga. Non avrebbe permesso loro di scamparla, e quando i barbari, scoraggiati dall’andamento dello scontro, iniziarono a ritirarsi, diede l’ordine a tutti i cavalieri di seguirlo e spronò il cavallo al galoppo verso il promontorio. Poco prima di raggiungere la cima, si trovò all’improvviso fuori dal banco di nebbia. Sotto era come se scorresse un fiume di denso fumo grigio, mentre sopra appariva nitida la foresta. I raggi del sole cadevano obliqui fra i rami degli alberi, minuscoli granelli di polvere danzavano nei fasci di luce, e quel placido spettacolo strideva con le urla di dolore e di rabbia degli uomini impegnati negli ultimi scontri che provenivano dal basso.
I druidi, vedendo la cavalleria, si diedero alla fuga. Erano appena un pugno, non più di una decina. Un numero davvero esiguo per avere la pretesa di tentare un attacco incisivo. Ma forse non si erano aspettati di trovare il triplo degli uomini ad attenderli.
Lucio lanciò il grido di battaglia della legione e si precipitò all’inseguimento dei sacerdoti, intenzionato ad infliggere a quei selvaggi la giusta punizione per essersi ribellati una volta di troppo alla Padrona del mondo intero: Roma.

Dodici furono i morti fra i legionari, duecento quelli fra i barbari. Tre i druidi catturati vivi, cinque quelli morti.
La battaglia era terminata in un lasso di tempo insolitamente breve. Si era risolta con una facilità sorprendente.
Tornato al manipolo con i prigionieri, Lucio aveva inviato degli uomini al fortino per chiedere rinforzi, in caso di nuovi attacchi. Ciò nonostante si rivelò una precauzione eccessiva. Il resto del viaggio procedette senza ulteriori minacce.
I legionari fecero rientro al castro a notte inoltrata, sporchi e stanchi.
E acclamati come eroi.

Lucio fu svegliato poco dopo l’alba da Rufus, che entrò nel suo alloggio con circospezione. Gli uomini attendevano gli ordini del giorno, e anche se Lucio avrebbe avuto il diritto di riposare ancora un po’, il comando della quarta coorte era ancora sotto la sua responsabilità, per quel mese.
Tutti i muscoli gli facevano male per la fatica della battaglia; quando si mise a sedere sul materasso, le ossa gli scricchiolarono.
«Che ore sono?» chiese, con gli occhi impastati dal sonno.
«Gli uomini del quarto turno di guardia stanno smontando adesso, comandante.»
Lucio sospirò rassegnato. Avrebbe voluto non avergli mai ordinato di rivolgersi a lui con gli attributi che gli spettavano. Ora se ne pentiva amaramente. 
«Arrivo. Dammi solo un minuto.»
«Sì, comandante» gli fece eco Rufus, prima di infilare l’uscita.
Lucio si alzò in piedi e una fitta lo colpì al costato. Sollevò la tunica e trovò una larga macchia viola sul fianco destro. Aveva anche ferite da taglio superficiali sparse un po’ ovunque.
Si guardò allo specchio e sorrise stancamente dinanzi al suo riflesso invecchiato.
Si chiese se Flavia lo avrebbe riconosciuto conciato in quel modo. E poi, nella sua mente, si insinuò una domanda meno innocente: che lo riconoscesse o meno, faceva qualche differenza? Quanta importanza attribuiva a sua moglie?
In fondo la risposta la conosceva già.
Non era per amore che l’aveva sposata, ma per convenienza. Suo figlio Fabio gli aveva donato quella formidabile, inattesa opportunità. Fabio, il frutto di una notte di passione. Grazie a lui, la sua vita aveva preso un’insperata svolta.
Non che lo avesse pianificato, come si vociferava a Roma. Flavia se l’era ritrovata nel letto della locanda quasi per inganno, al culmine della festa dei lupercali dove, per tradizione, uomini vestiti con pelli di lupo correvano lungo il perimetro dei villaggi rurali intorno a Roma frustando il fondoschiena delle donne che incontravano per strada, che si sottoponevano a quella tortura con la speranza che gli dei rendessero fertili i loro ventri. Ma siccome gli dei molto spesso erano distratti, capitava che gli uomini dessero loro una mano. Per questo, la festa terminava di solito con un’orgia.
Lucio aveva notato subito la giovane dai seni piccoli e la pelle baciata dal sole che aspettava, sul ciglio della strada, il passaggio dei “lupi”, con una luce curiosa ed eccitata negli occhi. Era andato alla festa proprio per l’opportunità che questa offriva di fare incontri interessanti.  
Lucio era un ragazzo vigoroso, alto, con i capelli corvini e gli occhi grigi dallo sguardo profondo e magnetico al quale era difficile sottrarsi. Le donne lo amavano e lui ne era ben consapevole. E la ragazza non aveva tradito le sue aspettative.
Almeno una parte di quelle aspettative.
Fu una delusione per lui scoprire che non era vergine come era stato ingannato a credere dal suo aspetto candido e innocente.
Finito i suoi comodi, si era rivestito e se ne era andato senza nemmeno chiederle il nome. Aveva scoperto l’identità della ragazza mesi dopo quando quella, dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, era andata a cercarlo per metterlo al corrente. Non aveva avuto alcuna difficoltà a rintracciarlo perché lei, il nome, non solo glielo aveva chiesto ma lo aveva anche ben memorizzato.
Caio Sevilio era quasi svenuto quando aveva scoperto che il giovane che aveva messo incinta sua figlia era un plebeo. Era stato solo grazie al nome di suo padre che non lo aveva fatto arrestare con l’accusa di violenza carnale, mettendolo di fronte a un’unica scelta: avrebbe sposato la figlia, consacrando però la sua vita a lui.
In realtà, Lucio era ben consapevole che Caio era stato obbligato a “proporgli” quell’alternativa. Suo padre, che aveva raggiunto il grado di Primus Pilus - il centurione veterano, il più valoroso fra i centurioni - era morto da eroe. Caio, con ogni probabilità, aveva ritenuto rischioso accusare il figlio di un eroe stimato e amato da tutta Roma per salvare l’onore della sua, di figlia, che in quanto a reputazione lasciava alquanto a desiderare.
Quell’accordo, dunque, aveva accontentato entrambi. Più Lucio, probabilmente. Era un ragazzo ambizioso per natura e aveva colto al volo e di buon grado l’opportunità che gli dei gli avevano posto dinanzi.
E ora eccolo là, con gli occhi infossati e la barba incolta, appena tornato trionfante per aver massacrato un pugno di contadini affamati, perché Lucio si era ormai convinto che l’unico motivo per cui quei britanni si fossero improvvisati guerrieri e avessero attaccato il convoglio era il cibo che trasportavano.
A quella riflessione, rabbrividì. Che onore c’era nello sterminare dei civili? Infilò la testa nel catino di acqua per tentare di sciacquare via il disagio che lo aveva assalito nel formulare quel pensiero.
Quando risollevò la testa, tornò a fissare la sua immagine con una nuova luce negli occhi. Una luce dura, determinata. Si disse che poco importava contro chi aveva combattuto. Avevano delle armi e avevano attaccato Roma e la sua autorità, questo solo contava. E grazie a quegli sciocchi contadini avrebbe ricevuto lodi e stima, anche questo contava. Esattamente come per Flavia. Non importava che non l’amasse. Non importava che per lei provasse solo fastidio, o che il figlio che gli aveva dato poteva benissimo essere di un altro. Lui era stato il prescelto, a lui era stata data quell’opportunità e, per tutti gli dei, l’avrebbe fatta fruttare in qualcosa di grandioso.
Lucio Caio Impervio sarebbe diventato un uomo importante, un giorno. Un uomo che Roma avrebbe ricordato a lungo.
E, forse, il mondo intero.

Era stata una giornata densa di attività, quella di Lucio. Al mattino aveva presieduto agli allenamenti dei suoi uomini. Dopo pranzo, aveva personalmente distribuito ai soldati lo stipendio e la corrispondenza. Anche lui aveva ricevuto una missiva da Caio, ma avrebbe dovuto attendere la sera, prima di poterla leggere.
Nel pomeriggio aveva assistito all’interrogatorio dei druidi, i quali si erano limitati a sorridere sprezzanti, rifiutandosi di pronunciare una sola parola. Il prefetto si era stancato presto del loro silenzio carico di disprezzo e non ci aveva messo molto a ordinare la loro uccisione e a predisporre che le loro teste mozzate venissero portate in processione in tutti i villaggi per scoraggiare altre ribellioni.
Infine, esausto ma soddisfatto, si era ritirato nel suo alloggio, ansioso di dedicarsi alla lettura della missiva di suo suocero.
Accese una lampada ad olio e la depose sullo scrittoio dello studio, una piccola stanza spoglia adiacente alla sua camera. Poi sedette sull’unica sedia presente nella stanza e tirò fuori la tavoletta cerata sulla quale Caio gli aveva scritto la lettera.
Iniziò a divorare le parole ansioso, come faceva di solito: Flavia stava bene, Fabio cresceva, i suoi affari andavano a gonfie vele, tutte cose che liquidò rapidamente con un fastidio crescente, alla ricerca dell’unica notizia che gli interessava davvero e che aspettava ormai da quasi un anno.
Si soffermò con più attenzione alla notizia che in Dacia era stato inviato il generale Adriano al posto di Marco Siculo, a causa dello inasprirsi degli scontri, e qui Lucio digrignò i denti ed emise un rantolo di rabbia. Dannato Caio, pensò. Forse avrebbe dovuto dargli retta. Che accidenti era andato a fare in Britannia? Se solo quell’incapace di Domiziano si fosse deciso a morire…
Infine, quando ormai non gli restavano che poche righe da leggere e la speranza lo aveva abbandonato, come se gli dei lo avessero ascoltato e quella frase si fosse materializzata sotto i suoi occhi, ecco la notizia che attendeva: l’imperatore era in fin di vita. Aveva ormai smesso di mangiare e non si alzava quasi più dal letto. Ma le buone novelle non erano finite. A Roma, tutti additavano Vespasiano come nuovo imperatore, e Vespasiano aveva un conto in sospeso con i barbari. Quando, dopo la disfatta subita per mano delle due tribù in Caledonia, stava riorganizzando le truppe per sferrare un nuovo attacco, Domiziano lo aveva richiamato a Roma insieme al grosso delle legioni, terrorizzato dalla prospettiva di un’ulteriore sconfitta. Vespasiano aveva dovuto ubbidire, suo malgrado. Era quindi inevitabile che desiderasse vendicarsi contro quei barbari rimasti impuniti.
Lucio si sentì pervadere da un sentimento di ottimismo. All’improvviso, le pareti del suo alloggio gli parvero troppo strette e decise di uscire. L’aria fredda della notte lo aggredì come uno schiaffo in pieno viso, ma non come uno di quelli che facevano male, piuttosto come uno di quelli che aiutavano a ridestarsi da un torpore.
La nebbia si era diradata, i primi fiocchi di neve avevano appena iniziato a volteggiare silenziosi nell’aria.
Lucio era euforico. In quelle ultime ore si erano susseguite una serie di eventi determinanti per la sua carriera. Dopo il combattimento del giorno prima aveva ricevuto encomi dal prefetto per la prontezza e i nervi saldi dimostrati, nonché gli elogi degli altri ufficiali e in generale di tutti i soldati.
La notizia dell’imperatore morente non poteva giungere in un momento più propizio. Lucio offrì il volto al cielo e lasciò che i candidi fiocchi gli lambissero il viso. Avvertiva un’incontenibile energia bruciargli nelle vene. Aveva voglia di raccontare al mondo intero quanto si sentisse fortunato. Pensò a Rufus e si disse sorridendo che era arrivato il momento di tornare alle vecchie abitudini. Gli avrebbe offerto da bere del buon vino rosso caldo aromatizzato col miele e il pepe e si sarebbe fatto perdonare, e il centurione avrebbe fatto meglio a cogliere l’opportunità che stava per offrirgli.
Un giorno, quando sarebbe diventato generale, Rufus avrebbe potuto vantarsi di aver bevuto insieme a lui quando ancora non era nessuno…

 
   
 
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