Storie originali > Thriller
Ricorda la storia  |      
Autore: AK47    24/01/2023    0 recensioni
Ciò che mostri agli altri è davvero ciò che sei?
Ma soprattutto.... sai chi sei?
Genere: Introspettivo, Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Non succede mai niente

***

    Ormai, la sera ha lasciato il posto alla notte. L’aria è fredda e l’asfalto lucido della leggera patina di ghiaccio che lo ricopre quando la temperatura scende sotto lo zero. Le mani in tasca non riescono a scaldarsi, i pensieri non vogliono saperne di tacere.

    Mi trovo proprio qui, nel paesino di periferia in cui non succede mai niente ed in cui si conoscono tutti. E’ questo ciò a cui penso mentre cammino per la strada deserta del centro residenziale osservando le luci accese nelle abitazioni ai lati della strada silenziosa.

    Le auto parcheggiate ordinatamente nei vialetti sembrano disposte in bella mostra perché il quartiere continui a dare di sé l'idea della tranquillità di cui si fregia. Sosto qualche momento di fronte ad una villetta color panna con le imposte verdi.

    Mi chiedo: “In quanti accorrerebbero a soccorrere i vicini se io entrassi e facessi a pezzi ogni singolo occupante di questa casa?

    Forse non è proprio vero che non succede mai niente; forse è solo vero che nessuno dice nulla. L’omertà uccide quanto la violenza; forse, l’arma in assoluto più pericolosa è proprio il silenzio.

 

    Riprendo il passo lasciandomi pungere dall’aria fredda della notte, seguendo coi pensieri il respiro che si addensa davanti alle mie labbra. A poca distanza dal mio viso, quel respiro scompare; probabilmente, allo stesso modo, si renderebbe silenzioso qualunque crimine una volta esaurita la sensazionalità del caso. Già, in fin dei conti, finisce quasi sempre tutto in questo modo; in silenzio, nel buio…. proprio come il mio stesso respiro. Tutto sommato, l’unica persona alla quale può far differenza il proprio respiro sono io… Sei tu.

 

    Abbasso la testa e sorrido al buio. Lascio che sia il silenzio, disturbato solo dal rumore dei miei passi, ad accompagnarmi di nuovo fino a casa.

 

    Nel paesino di periferia

    Dove non succede mai niente

    In cui si conoscono tutti.

 

    Ora, non riesco a togliermi dal cervello questa quiete immobile, questa giornaliera, noiosa ripetizione di abitudini fossilizzate nel tempo.

 

    La luce dell’ingresso del mio appartamento mi ferisce gli occhi; socchiudo le palpebre ed attendo di abituarmi al chiarore mentre sfilo la giacca. Dal buio alla luce, come dalla luce al buio, gli occhi hanno sempre bisogno di qualche attimo prima di adeguarsi. In fin dei conti, tutto ha, sempre, necessità di qualche attimo prima di assestarsi. Oppure, di crollare del tutto. 

 

    Sotto la doccia, sciacquo via il sapone assieme all’intera giornata e poi, nel letto, rimango per un pò con lo sguardo fisso al soffitto rischiarato dalla fioca luce della luna. Ripenso a quanto la vita offra in questo posto e la litania mi torna in mente; leggera come un battito di ciglia, fastidiosa come un’unghia sulla lavagna, persistente come il battito del cuore e forse, altrettanto necessaria per vivere.

 

    Non succede mai niente.

    Si conoscono tutti.

 

    Anche io conosco quasi tutti ma probabilmente non tutti conoscono me. Per la seconda volta sorrido alle tenebre perché, in realtà, è quello il momento in cui mi rendo conto della mezza verità a cui ho pensato. La verità intera è che, in effetti, non mi conosce proprio nessuno.

 

    Quando il sonno cala è buio e profondo. Le ore sono pochi attimi e poi, le palpebre si risollevano catturando la luce del sole malato dell’inverno che tenta di fare breccia nella cortina di nebbia ma, quel velo, offusca la vista ed i sensi. E’ solo un chiarore appena più accentuato; in realtà, non riesco nemmeno a definirlo “giorno”. E’ soltanto l’orario in cui è giusto alzarsi. Rimango tra le coperte ancora un pò: Giusto per chi?

 

    Prima di andare al lavoro le cose da fare sono sempre le stesse: bagno, caffè, doccia, vestiti. Saluto sempre le stesse persone lungo il corridoio del palazzo e mi dirigo verso l’auto parcheggiata quasi sempre allo stesso posto. Inizio a pensare: “Per forza non succede mai niente; la gente, continuando a fare sempre le solite tre cose, diventa grigia come questa nebbia che sa solo nascondere qualunque colore

 

    Mi domando se qualcun altro li veda ancora, i colori. Osservo la vita attorno a me mentre mi sposto in auto per andare al lavoro, passando da un paesino nebbioso all’altro. L’unico spettacolo di queste fredde giornate potrebbe essere il fuoco tra le nubi dipinto dal sole che sorge o tramonta. Colori. Ma quando c’è la nebbia è tutto, solo, un chiaroscuro che ti fa soltanto intuire il momento in cui il giorno cede il passo, nascondendoti ogni colore del cielo, lasciandoti affogare nell’inesorabile mediocrità di un grigio malinconico. I tuoi stessi pensieri diventano una rottura di coglioni ed alla fine, diventi rompicoglioni anche tu. Inizio a pensare che tutto questo sia una catena che va spezzata, che devo spezzare, in qualche modo. Devo.

 

    Dall’oscurità che mi nasconde dietro al vetro nero osservo. Osservo la vita che mi passa davanti come una lenta e noiosa agonia. Non la mia, no. Osservo la vita al di là del vetro: sempre uguale, sempre più lenta man mano che il tempo passa. Di tanto in tanto si aggiunge qualche scorcio di vitalità nei bambini che corrono lungo la via tra i palazzi, giocando nel salire e scendere le rampe dei condominii, quelle che portano ai garage. Le luci nel piazzale sono fioche ed io sono qui, in silenzio, ad osservare ciò che accade e che è… niente. Non succede mai niente.

***

    C’è un momento in cui il sottile gocciolare dell’acqua dal rubinetto ti chiarisce ogni cosa. Un ticchettio fastidioso e continuo che, però, non ti lascia scampo. Infilo la testa sotto al cuscino ma è come se continuassi a sentirlo provenire da ogni direzione, ripetendomi il messaggio all’infinito. La mattina sono uno straccio, entro nel bagno, controllo il lavabo ma non vedo nessuna perdita. Maledetti incubi. Si contorcono nella mia testa ed a volte mi sembra proprio di vedere cose che non ci sono, di fare cose che non ho fatto. Mi danno il tormento.

 

    Apro il frigorifero, voglio bere e farmi un caffè. Il sole dovrebbe essere sorto da un pezzo ma è un’altra mattina grigia; la luce che si accende quando scosto lo sportello quasi mi acceca. Afferro la bottiglia d’acqua a tentoni, nessuno mai potrebbe averla spostata ed infatti la trovo lì, esattamente dove ricordavo di averla messa. Nel frigorifero scorgo con gli occhi socchiusi i contenitori per alimenti, non ricordo di aver preparato nulla per il pranzo, meglio così, a volte non ricordare le cose che odio fare mi fa sentire meglio, come se mi trovassi una sorpresa gradita quando ho meno voglia di pensarci. Chiudo lo sportello. Ho un buon presentimento, la giornata potrebbe anche essere piacevole.

 

    Dal pianerottolo del palazzo arriva lo scalpicciare di qualcuno che scende le scale velocemente. Dal casino che fanno quei maledetti tacchi sicuramente una donna. La porta dell’ingresso si apre e si chiude un attimo prima che il caffè inizi a gorgogliare. Ho un sonno assurdo. Prima delle nove, l’orario in cui entro in ufficio, non voglio sentire nemmeno mezza parola, quindi, quando alle otto mi suona il telefono, lo ignoro bellamente nonostante si tratti di una chiamata di mia sorella. Che voglia ha di chiacchierare così presto? Ma soprattutto… cosa cavolo mi telefona a fare se sa che odio che mi si rivolga la parola prima che il sonno se ne sia andato? La giornata sta già iniziando male.

 

    Mi viene da ridere mentre esco di casa e m’infilo in auto. L’importante è avere chiara la direzione di una giornata. Sono coerente come un sasso che prende lezioni di nuoto. Chiamo mia sorella, ora mi viene il dubbio che forse potrebbe aver avuto un buon motivo per cercarmi così presto. Il telefono squilla e lei risponde. Non mi saluta e non mi chiede nemmeno come sto. Le sue prime parole sono:

“Hai sentito cos’è successo?”

“No”

“Non hai letto le news? Dicono che la figlia di Gianni, il meccanico, sia scomparsa”

“Chi?”

“Ma sì, quella che veniva a scuola con te, alle elementari, non te la ricordi?”

“Sì, me la ricordo ma sono decenni che non la vedo”

“La stanno cercando, dicono che abbia lasciato la macchina appena giù dal ponte ma sul sedile c’era la sua borsa con dentro i documenti, i soldi, il telefono, tutto. Lei non si trova da nessuna parte, la stanno cercando nel fiume ma dove vivi?”

“A casa mia”

“Possibile che tu non sappia mai un cazzo?”

“Non mi interessa, non sono affari miei, sto nel mio e non mi piace la gente. Tu stai bene?”

“Sì, certo”

“Ecco, l’unica cosa che m’importa è questa. Entro in ufficio, ci sentiamo più tardi”

 

    Anche in ufficio parlano della donna scomparsa. La collega mi osserva come se fossi un dente marcio:

“Certo che potresti esprimere almeno un filo di empatia”

“Per cosa, se non fosse scomparsa non sapreste nemmeno chi è. Siete falsi come le piste da sci a Dubai”

 

    Vado in pausa che è meglio, questa storia mi sta tormentando. Sfilo il cellulare dalla tasca e mi decido di dare un’occhiata alle notizie locali. Leggo l’articolo che dice esattamente quello che ha detto mia sorella, che fantasia. Osservo la fotografia della sua auto abbandonata di fianco al pilastro del ponte. Allargo la fotografia, l’auto non sembra avere segni evidenti, non dal lato fotografato, almeno. Vedo la schiena di alcuni uomini in divisa, gente che non conosco e poi la fotografia di lei. Sì, me la ricordo quella stronzetta che prendeva in giro tutti… I suoi tratti non sono cambiati così tanto, l’espressione è sempre quella di una bastarda mondiale. Sono passati tanti anni, non posso dire che sia uguale a quando andavamo a scuola assieme ma l’avrei sicuramente riconosciuta. Sui social piovono gli aggiornamenti. Sbuffo e metto in silenzioso quell’aggeggio infernale. Al diavolo; li leggerò tutti assieme quando la storia avrà più risvolti solidi delle chiacchiere da bar e delle supposizioni dei tuttologi. 

 

    Alla fine della giornata l’hanno trovata, fatta a pezzi in un casolare abbandonato in mezzo ai boschi. La gente dovrebbe fare molta più attenzione prima di abbandonare immobili di proprietà, non si sa mai chi potrebbe entrare ed ora, quella casa che è stata disabitata per anni, di proprietà di un agricoltore locale, è una scena del crimine. Bell’affare, fenomeno. Sbuffo ma in fin dei conti il sorriso mi arriva alle labbra. Anche qui sta succedendo qualcosa. Qualcuno mi ha letto nel pensiero ed ha agito prima di me. Non mi rimane altro da fare che continuare con la mia routine. E’ ora di pranzo.

 

***

    A mezzogiorno non ho più bisogno di chiudere gli occhi davanti allo sportello del frigorifero e tutto sommato mi fa anche piacere sapere che quando lo aprirò, troverò il pranzo già pronto. Sfilo dal ripiano un contenitore per alimenti che non mi ricordo di aver preparato e lo apro sul ripiano della cucina. Che avrò mai di buono da mangiare per pranzo? Osservo bene il trancio di carne all’interno, rosso cupo. Quando ho comprato carne fresca? Butto una padella sul fornello. 

 

    Questo pezzo di carne ha qualcosa che non va. Quando lo rigiro mi accorgo di un sottile strato chiaro. Pelle? La osservo da vicino. Peli. C’è decisamente qualcosa di strano, che cazzo ho comprato? Cerco qualche scontrino nel portafogli in cerca di un’intuizione, no, cerco proprio una prova ma non ho scontrini di macelleria ed in quelli del supermercato ci sono i miei soliti prodotti. Che schifo, non ho alcuna intenzione di mangiare quella roba. Richiudo il contenitore e ne apro un altro. Ora ho la certezza di non aver mai messo piede in macelleria, quelle sono dita. Dita umane. 

 

    Cerco il cellulare, le informazioni non sono ancora tutte pubbliche. Fatta a pezzi. Fatta a pezzi. Me lo ripeto diverse volte e poi guardo i contenitori. Li apro tutti. Ce ne sono cinque. In uno c’è un piede tutto intero. perché un piede? E perché sono in casa mia? La prima cosa a cui penso è fare il numero d’emergenza poi ci ripenso. Che cosa posso dire? Ho trovato pezzi di qualcuno nel mio frigorifero in una casa in cui vivo solo io e della quale ha le chiavi soltanto mio padre? Chi è il maniaco omicida? Io o lui? No. E’ fuori questione. Devo far sparire quella roba e devo capire cos’è successo. 

 

    Giro per la casa, se ho fatto qualcosa ci sarà qualche altro indizio. Frugo ovunque. Vado a controllare l’auto, il garage, controllo i sacchi della spazzatura legati che attendono di essere messi fuori per la raccolta settimanale. Nulla. Mi soffermo davanti al filo per stendere i panni. Quando ho steso? Ma chissenefrega, ora non è qualcosa di importante. Devo riuscire ad andare a controllare quel casolare, in qualche modo. Devo aspettare qualche giorno e nel frattempo, l’unica cosa che posso fare con quello schifo è cuocerlo in qualche modo per non farlo puzzare troppo in fretta e buttarlo nell’umido. 

 

    Lancio il sacchetto nel bidone condominiale quando esco. Ho intenzione di farmi un giro verso quel casolare nel bosco. Da ciò che ho letto, ho intuito in quale zona possa trovarsi, non sarà difficile individuarlo. Forse dovrò camminare un pò ma ne varrà la pena. Credo. 

 

    Anche se sta calando la sera, è difficile che mi perda nei boschi che giro da quando ho memoria, la prendo con calma, una passeggiata, devo capire. L’area che illumino con la torcia, davanti a me, mi è famigliare e continuo a proseguire, dal punto in cui è stata ritrovata e rimossa l’auto di lei, verso il folto della boscaglia fino ad arrivare ai nastri che delimitano la zona attorno allo stabile. Mi guardo attorno, non c’è nessuno. Scavalco il nastro, proseguo verso la porta principale. E’ aperta. Spazio con la luce tutto attorno facendo attenzione a non toccare troppo ed a non fare troppo casino. La scala che porta al piano superiore è inagibile, quindi, dev’essere successo in quelle tre stanze che ci sono al piano inferiore.

 

    Mi immobilizzo appena oltre l’ingresso. Un suono leggero e fastidioso cattura la mia attenzione. Non perdo tempo, so dove devo andare. La stanza è buia come l’inferno, l’aria fetida come quella di un mattatoio e nel silenzio, pesante quanto il sentore di morte che si adagia in quell’oscurità profonda lo sento. Gocciola, fastidioso, incessante. Quel ticchettio non mi lascia scampo.


   
   
 
Leggi le 0 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Thriller / Vai alla pagina dell'autore: AK47