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Autore: Traumerin_    24/01/2023    1 recensioni
Dopo anni passati a cercare di ricucire la ferita lasciata dalla partenza di Magnus, Alec può finalmente godere del nuovo equilibrio che è riuscito a raggiungere: lavora come avvocato presso la Penhallow Fell, ha una relazione stabile con un uomo e le sue giornate sono piene dei sorrisi e dei pasticci di suo figlio.
Ancora non sa, mentre il passato avanza insidioso nelle crepe della sua felicità, che Magnus sta facendo ritorno a New York, animato dalla necessità di recuperare il tempo perso con il suo piccolo Max – e pronto a sconvolgere qualsiasi armonia.
Convinti di doversi disporre su fronti nemici, Alec e Magnus saranno costretti ad accantonare le ostilità per affrontare un ostacolo che non avrà pietà delle loro intenzioni – e se nel percorso decideranno di tenersi la mano o continuare guardarsi con disprezzo, dipenderà solo da loro.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane, Max Lightwood-Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ci fu un attimo, un istante, una frazione di secondo in cui il tempo sembrò fermarsi, congelarsi, smettere di scorrere.
Un momento che si dissociava con forza dalla linea temporale in cui era collocato, spaccando i cardini che lo tenevano attaccato agli altri eventi e proiettandosi in una realtà proibita e utopica, bellissima ed inammissibile, che se ne infischiava delle circostanze e si crogiolava in un’esistenza consapevole della propria caducità.
Era una scena racchiusa in un battito di ciglia: era lui che eliminava ogni barriera fisica tra i loro corpi e assecondava quel vortice di impetuosa passione e inarrestabile desiderio, succube di un’irrazionale libidine che sottometteva crudele tutte le sue vittime, privandole di ogni via di fuga e annientando qualsiasi tentativo di evasione.
Soggiogato dalla sorpresa del momento chimerico, Alec si trovava prigioniero di mani vessatorie e labbra fameliche, privato della capacità di ribellione.
Erano sprofondati in un universo di piacere comune e volontà contrastanti: perché se uno si stava abbandonando alla più peccaminosa voluttà, l’altro non era pronto a fingersi sordo alle motivazioni che avrebbero dovuto esercitare un potere deterrente su quella vecchia e ineluttabile attrazione.
«Torna da me.»
Una frase talmente amorevole da stonare tra le note della lite che ancora vibrava tra i loro corpi. Un’implicita preghiera a mettere da parte quei pensieri così sbagliati – seppur così giusti – e a concentrarsi su di lui, su di loro, su quel momento che entrambi avevano immaginato e che mai avrebbero pensato si sarebbe realizzato. Mai avrebbero creduto di poter provare emozioni così forti, capaci d’insediarsi sottopelle e minacciare con tanta spietatezza la loro razionalità, trasformandoli in burattini nella presa di un ardore totalizzante.
Quello che nessuno dei due poteva sapere, era che la fiamma della passione avesse creato un gioco d’ombre illusionistico sulle loro percezioni, che quella bolla ovattata in cui s’erano nascosti non era invisibile, né irraggiungibile.
Non potevano sapere che la loro imprudenza sarebbe stata la loro condanna.
 
 
 

 
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
 

CAPITOLO UNO
Un segreto malcelato 

 
Una leggera pioggia scese silenziosa nel tepore dell’alba, sospinta da una brezza che pareva voler mitigare la calura abbattutasi su tutta New York con l’arrivo della stagione estiva.
Rufoli d’aria fresca oltrepassarono le finestre spalancate del grande attico sulla Fifth Avenue, raffreddando la stanza immersa nella penombra e portando Alec a rannicchiarsi su se stesso. Con gli occhi ancora chiusi e la mente in balia del sonno, il ragazzo accettò di buon grado il corpo caldo che andò a stringersi al proprio, accoccolandosi in braccia che ormai avevano imparato ad accoglierlo.
Avvertì la mano di Ralf, cui corpo temprato non si lasciava scalfire da qualche grado centigrado in meno, strofinare la sua schiena nuda per infondergli ulteriore calore.
Alec adorava quei momenti, quando ogni cosa sembrava sospesa, cristallizzata nella sua forma più bella – più autentica.
Microscopici granelli di polvere e polline danzavano lenti nell’aria, apparendo e scomparendo nel gioco d’ombre creato dai flebili raggi del sole che si accingeva a spuntare sotto il cielo plumbeo di Manhattan. Tutto gli appariva pervaso da una serenità che gli regalava il più alto stato di pienezza dell’anima – e forse Alec aveva uno spirito antico, ma credeva che non vi fosse niente di più poetico di poter ammirare il risveglio di un nuovo giorno.
Sentì il naso di Ralf affondare tra i suoi capelli, inspirando quella fragranza che aveva dichiarato d’amare ma di cui non riusciva a riconoscere gli odori: il flacone dello shampoo non riportava alcuna etichetta ed Alec era estremamente divertito dai suoi tentativi d’indovinare quale fosse l’elemento alla base del suo profumo. Avrebbe potuto rivelargli che si trattasse di legno di sandalo, ma non vedeva perché privarsi dell’opportunità di avere il volto di Ralf costantemente attaccato al proprio.
Alec fece scorrere le nocche sull’addome dell’uomo accanto a sé, in una carezza distratta che fu sufficiente per avvertire Ralf del suo imminente risveglio. Sorrise quando sentì le labbra dell’altro lasciare un umido bacio sulla sua fronte, ma rimandò l’incontro con il suo sguardo ancora per qualche minuto, rifugiandosi nell’incavo del suo collo e portandogli un braccio attorno al busto, regalandogli una dose d’affetto che sapeva lo avrebbe rallegrato. 
È che quello – quel momento poetico – era l’unico della giornata in cui Alec non aveva ancora innalzato dei muri, in cui le difese erano basse e si concedeva un po’ di quel calore umano che, quando era vigile, continuava a metterlo tremendamente a disagio. Solo nella quiete mattutina, tra le braccia di chi accettava quella sua ritrosia sentimentale, Alec si sentiva libero di mostrare la sua parte più vulnerabile – più autentica.
Persino con Ralf, nonostante fossero impegnati in una relazione stabile, c’erano giorni in cui faceva difficoltà ad ignorare la sua avversione per qualsiasi forma di romanticismo, ritrovandosi a compiere una serie di gesti dettati più dalla necessità di tranquillizzare il suo compagno sulla veridicità dei suoi sentimenti che dalla voglia di soddisfare un bisogno di tenerezza. Ultimamente, poi, oppresso da un crescente turbamento per ciò che continuava a tacergli, si sentiva in dovere di dimostrargli il suo amore.
«Caffè» fu la prima parola che lasciò le labbra di Alec, seguita da un bacio alla mascella di Ralf.
Il maggiore gli accarezzò i capelli scuri, portandogli poi un dito sotto il mento per spronarlo ad alzare la testa «Buongiorno anche a te» mugugnò con voce ancora assonnata.
Il ragazzo bofonchiò quello che sembrava essere un saluto, sbadigliando sonoramente prima di ribadire «Caffè», sottintendendo un implicito comando.
Ralf inarcò un sopracciglio e Alec sapeva che a momenti avrebbe iniziato a farsi beffe della sua dipendenza da caffeina. Ma Ralf, contrariamente alle sue previsioni, non parlò: rimase in silenzio, con il ciuffo castano tratteggiato da riflessi brizzolati a cadergli disordinatamente sulla fronte e le iridi di un verde quasi trasparente a scrutarlo con attenzione.
Alec era consapevole delle intenzioni del suo fidanzato, del tentativo di penetrare quella patina oltre cui aveva nascosto il proprio turbamento, ma gli occhi blu di Alec erano abituati a rendersi indecifrabili quando avevano un segreto da tenere al sicuro.
Mosso dalla consapevolezza di doversi rassegnare ai suoi dubbi o dalla fiducia nel fatto che il suo ragazzo non gli avrebbe mai mentito, i lineamenti duri del volto di Ralf iniziarono lentamente a distendersi, fino ad aprirsi in un sorriso che riuscì a far rilassare persino Alec.
«Come faccio a dirti che abbiamo finito il caffè senza che ti venga una crisi?» domandò, fingendosi pensieroso «Però abbiamo il tè.»
Alec contrasse i suoi muscoli facciali in una smorfia disgustata «Bevilo tu il tè, vecchio
«Avere qualche anno in più di te non mi rende vecchio, Alec» chiarì, indispettito «E per la cronaca, un sacco di persone bevono tè, non soltanto gli anziani.»
«Sei sulla soglia dei quaranta» gli ricordò, inarcando un sopracciglio per sottolineare la differenza d’età «E poi lo sai che il caffè è l’unica cosa che mi aiuta a lasciare questo letto.»
«Magari farti lasciare questo letto non è nei miei piani.»
«Mi credi una preda così facile?»
Ralf si sollevò quel poco che bastava per raggiungere le labbra del ragazzo, calandosi per lasciarvi una serie di baci lenti e languidi. Alec non oppose alcuna resistenza al tentativo di seduzione dell’altro, al contrario: accoglieva sempre con entusiasmo l’intraprendenza di Ralf. E fu solo quando lo sentì ridacchiare – dopo esserselo tirato addosso ed aver approfondito quel contatto – che capì di avergli appena dato prova di aver ragione: la sua sola presenza era sufficiente per tenerlo inchiodato tra quelle lenzuola.
«Dicevi?» lo punzecchiò Ralf, divertito.
Alec gli morse dispettosamente il labbro «È solo perché abbiamo finito il caffè e mi serve altro con cui svegliarmi» lo ammonì, sollevando lo sguardo per incontrare le iridi chiare dell’uomo, talmente vicine da non essere messe chiaramente a fuoco.
«Mi darai mai la soddisfazione di vincere?» chiese, sbuffando la propria esasperazione.
Il giovane avvocato sorrise apertamente e per Ralf, che ormai vantava una discreta conoscenza del suo compagno, quella fu una risposta sufficiente.
 
 
 
Alec fissava con malcontento il panorama al di là della finestra. La piacevole pioggerellina di quella mattina si era trasformata in un acquazzone che sembrava non avere alcuna intenzione di acquietarsi, costringendoli a restare in casa e rinunciare al giro turistico della città che avevano programmato la sera prima.
«I meteorologi di New York sono pessimi» sbuffò, stretto in una maglietta scolorita ed un paio di pantaloncini di tuta, osservando gli alberi di Central Park piegarsi sotto un vento inarrestabile.
Ralf, sdraiato sul lungo divano in pelle nera e coperto soltanto da un boxer, spostò lo sguardo in direzione dell’altro «Già» confermò, stiracchiandosi pigramente «Cos’è, non vedi l’ora di evadere?» chiese con sarcasmo, mal celando la sua reale preoccupazione: Alec era riuscito a distrarlo con la straordinaria sessione di sesso mattutino, ma Ralf sembrava non aver messo da parte il sospetto che gli stesse nascondendo qualcosa.
Il moro roteò gli occhi, sedendosi sul tappeto in finta pelliccia ai piedi del divano «Sì, è proprio una tortura stare qui con te» ironizzò, mentre il Presidente Miao – un gatto di piccola statura dal morbido pelo striato – andò ad accoccolarsi sulle sue gambe, in cerca di carezze «Max potrebbe seriamente odiarmi se dovesse svegliarsi nel pieno di un temporale senza di me» aggiunse poi, tornando a fissare con ostilità le goccioline che sporcavano il vetro e continuando a grattare il gatto dietro le orecchie.
«Alec» lo ammonì dolcemente l’altro, abbassando appena il volume della televisione «Tu e Max vivete in simbiosi, smettila di sentirti in colpa per aver passato una serata lontano da lui.»
Alec non era solito andare a dormire da Ralf senza suo figlio – non era solito muovere un passo senza coinvolgere Max, in verità – e sebbene il suo risveglio fosse stato incredibilmente piacevole, non poteva che sentire la mancanza del calore che soltanto l’abbraccio del suo bambino era in grado di donargli.
Alec aprì la bocca per rispondere, ma si rese conto di non poter ribattere: Ralf non aveva figli, non poteva capire quale effetto la lontananza da Max suscitasse in lui. Scosse la testa e si alzò «Colazione?» chiese, lasciandosi il salone alle spalle con il Presidente Miao che gli correva dispettosamente tra le gambe.
I colori scuri e le linee limpide ed essenziali si riproponevano in tutta la casa, rispecchiando l’eleganza e il gusto minimale rintracciabili nelle preferenze di Ralf. La cucina, disposta nel tradizionale taglio americano, ospitava un’ampia isola laccata di nero costeggiata da alti sgabelli in legno di noce, in un netto richiamo ai pannelli decorativi della sala pranzo adiacente.
Il piccolo profumatore posto sulla composizione di mensole all’ingresso inondava l’ambiente di una fragranza dolciastra, coprendo l’odore sgradevole proveniente dal pacco delle patatine al formaggio che Ralf dimenticava costantemente aperto sul ripiano dell’isola.
Alec si affrettò a chiudere la principale fonte di nutrimento del suo ragazzo, spostandosi poi verso l’anta della dispensa «Cosa ti va di mangiare?» domandò, quando sentì Ralf raggiungerlo.
L’uomo si poggiò con una spalla allo stipite della porta scorrevole, un ghigno divertito dipinto sul volto «Hai intenzione di cucinare tu?» chiese, incrociando le braccia al petto.
«Io so cucinare» chiarì Alec in tono saccente «È il tuo forno a far schifo.»
Ralf scosse la testa in un gesto di palese esasperazione «Chissà perché Doris non se n’è mai lamentata.»
«Dov’è oggi, a proposito?»
«È andata a trovare il figlio in Connecticut, starà fuori tutta la settimana.»
Alec sgranò gli occhi «Cosa?» domandò, stupito «Perché non lo sapevo? Vuol dire che mangeremo solo patatine al formaggio?»
Il maggiore tra i due si diede una piccola spinta in avanti, percorrendo a passo lento il parquet fino al bancone a cui era poggiato Alec, posando le mani ai lati del suo corpo ed intrappolandolo tra le proprie braccia.
«Non sapevo di doverti avvisare delle ferie del mio personale domestico, Alec» soffiò a qualche centimetro dalle sue labbra, in un flirt che nascondeva una verità più profonda – la consapevolezza che Alec ormai fosse di casa, tra quelle mura «E comunque, io so cucinare davvero
Il giovane avvocato, stordito dalla vicinanza con il fisico scolpito di Ralf quanto dalla libido che aveva reso i suoi occhi più scuri, ignorò la provocazione del suo ragazzo e si avventò sulla sua bocca, facendo scontrare i loro corpi e coinvolgendolo in un bacio passionale.
Alec si domandò se avesse agito perché raramente avevano la possibilità di godersi una mattinata di relax o perché era più facile soffocare il senso di colpa tra le coperte, ma decise di non rimuginarvi a lungo.
Quando Ralf lo fece sedere sul bancone e s’infilò tra le sue gambe, Alec fu certo che avrebbero utilizzato la cucina per uno scopo ben diverso da quello programmato, ma proprio mentre la sua maglietta volava sul pavimento e le labbra di Ralf scendevano a lambirgli il collo, il telefono di quest’ultimo prese a squillare.
Il padrone di casa non diede segno di volersi allontanare, ma Alec sapeva che quel cellulare non avrebbe smesso di dar loro il tormento finché non avesse accettato la chiamata. Difatti, nonostante l’ostinazione di Ralf, la suoneria riprese a coprire il suono dei loro baci.
«Sarà meglio per loro che qualcuno stia morendo» ringhiò l’uomo, allontanandosi dal corpo dell’altro con uno scatto nervoso. 
La conversazione si protrasse per qualche minuto e ad Alec bastò vedere l’espressione infuriata di Ralf per capire come sarebbe andata a finire: essere il direttore della Praetor Lupus – una delle più importanti aziende nel mercato globale dell’industria tessile – implicava l’essere costantemente reperibile, a qualsiasi ora, che si trattasse di un giorno festivo o feriale.
Malgrado quel sabato Ralf avesse raccomandato ai suoi collaboratori di non disturbarlo, sapeva di non potersi aspettare di non essere contattato: dopotutto, aveva delle responsabilità a cui non poteva sottrarsi.
«Mi dispiace» sospirò, lasciando cadere malamente il telefono sul tavolo e tornando verso Alec, allungando una mano per accarezzargli la guancia liscia «Devo proprio andare.»
Il moro annuì, circondandogli i fianchi con le proprie gambe «Tranquillo» rispose, lasciandogli un leggero bacio sulle labbra «Credo ne approfitterò per passare un po’ di tempo a casa. Sono settimane che mia madre si lamenta di non vedere abbastanza suo nipote, ieri mi ha dovuto minacciare per lasciarlo a dormire lì.»
Ralf si lasciò sfuggire una risata ilare «Sarà meglio non farla arrabbiare, allora. Tua madre riesce a mettere in soggezione persino me.»
«Non hai motivo di temerla finché mi rendi felice… anche se in effetti senza Doris non sono molto felice» mormorò tra sé e sé, gettando un’occhiata ostile al forno che solo la cuoca sembrava essere capace di far funzionare.
«Lo sai che sei un viziato?» domandò Ralf, mordendogli dispettosamente la mascella «E poi si presuppone che uno a venticinque anni sappia cucinare almeno l’essenziale.»
«Tu mi hai viziato» gli rinfacciò, imbronciandosi «Nell’ultimo anno non mi hai mai dato modo di sperimentare in cucina, mi hai sempre portato a cena fuori.»
«Dovrei chiederti scusa per questo?»
«In effetti dovresti trovare un modo per farti perdonare.»
Ralf ridacchiò, scuotendo la testa «Sai cosa? Penso tu abbia ragione» ammiccò, tirandosi indietro e porgendo una mano ad Alec.
Il ragazzo scese dal bancone con un saltello e sorrise «Non abbiamo già fatto un po’ troppa attività per un uomo della tua età?»
«Non puoi fare a meno di provocarmi, mh?» domandò Ralf, incamminandosi all’indietro verso l’uscita della cucina «Eppure non mi pare tu abbia qualcosa di cui lamentarti.»
«Assolutamente no.»
 
 
 
Una mezz’ora più tardi, con l’irritazione appicciata addosso come i vestiti bagnati dalla pioggia ormai fitta, Alec giunse all’entrata del proprio palazzo. Rivolse un saluto al signor Bernard, il portinaio panciuto dall’aria cordiale che occupava quella scrivania dacché Alec ne avesse memoria, e sgattaiolò verso l’ascensore prima che potesse trattenerlo con le sue domande indiscrete.
Il sollievo per aver scampato la vena pettegola di Bernard – principale fonte di gossip dell’intero Upper West Side – durò solamente il tempo d’arrivare alla propria abitazione: ad un passo dalle porte dell’ascensore, con le braccia incrociate al petto ed il sopracciglio inarcato in un’accusa, Maryse lo accolse in tutta la sua austerità.
Alec l’aveva sempre definita spigolosa, un aggettivo che sembrava addirsi sia ai lineamenti taglienti che alla personalità dura e inflessibile. Indossava un sobrio abito bordeaux lungo fino al ginocchio e portava i capelli neri in una coda bassa, restituendogli un’immagine immutata nel tempo – da bambino, Alec credeva che sua madre non avesse espressioni all’infuori di quella.
I suoi occhi, quei grandi occhi blu che Alec aveva ereditato, gli indirizzarono un’occhiata ammonitrice «Grazie al cielo sei qui. Sto raggiungendo tuo padre a Boston per un convegno e tua sorella ha invitato i vostri amici, assicurati che non diano fuoco alla casa» si raccomandò.
A Maryse erano sempre servite poche parole per farsi obbedire, specialmente se accompagnate da occhiate capaci di far tremare persino il più stoico dei soldati.
Forse perché, rifletteva Alec mentre faceva uscire il Presidente Miao dal trasportino, Maryse somigliava più ad un generale che ad una madre, e casa Lightwood era stata trasformata in un’accademia militare dove ad ogni trasgressione corrispondeva una punizione.
Si chiese se rientrare a mezzogiorno, completamente fradicio, si potesse considerare una violazione delle regole e si rese conto che, a quasi ventisei anni, non era accettabile sentirsi ancora come un quindicenne rincasato dopo il coprifuoco – doveva assolutamente cercare un posto tutto suo.
Poi, però, quelle spalle irrigidite s’ammorbidirono e il suo sguardo lasciò trapelare un affetto che aveva imparato a mostrare solo negli ultimi anni «Max sta ancora dormendo, ieri sera abbiamo giocato sino a tarda ora» disse, accennando un sorriso «E ora fila di sopra a darti una ripulita.»
Alec annuì e corse in bagno prima di darle modo di impartirgli un altro ordine.
Lasciò all’acqua calda della doccia il compito di sciogliergli i nervi, allontanando i pensieri scomodi e concentrandosi sulla felicità che gli trasmetteva l’idea di passare un’intera giornata con la sua famiglia: era sempre più raro che si trovassero tutti sotto lo stesso tetto, e il suo Max sembrava soffrire quel distacco più di chiunque altro. 
Uscì dal bagno che condivideva con Jace per entrare nella propria camera, o il “tugurio”, come era solita definirla Isabelle dall’alto della sua laurea in architettura. Difatti, contrariamente ai suoi fratelli, Alec non aveva mai avvertito la necessità di riarredare la propria stanza secondo la fase evolutiva che stava vivendo, limitandosi a sostituire il lettino ad una piazza con uno matrimoniale che adesso giaceva imponente a ridosso di una parete.
Nonostante le offese di Isabelle e le sue occhiate sdegnate quando notava l’ennesima macchia sul legno bianco della scrivania o un graffio inciso nel navy della cabina-armadio, Alec si sentiva pienamente soddisfatto della propria camera: tutto quel blu aveva sempre esercitato un effetto calmate sul suo animo irrequieto, offrendogli un rifugio confortante in cui nascondersi quando il mondo esterno diventava impossibile d’abitare.
Appollaiato sul tappeto che un tempo aveva vantato una tonalità azzurra decisamente più vivace, il Presidente Miao giocava con i raggi di un sole appena visibile provenienti dalla finestra che s’affacciava sull’Hudson e da cui si potevano scorgere le rive vicine del New Jersey, emettendo dei miagolii che Alec riconobbe essere di pura gioia: adorava tornare a casa dopo una lunga permanenza da Ralf.
Rasserenato, dopo essersi asciugato e aver indossato una semplice tuta estiva, uscì dalla propria camera per controllare Max. Lo trovò ancora addormentato nel suo lettino, circondato da una miriade di peluche e con i riccioli neri sparpagliati sul cuscino.
Alec avrebbe potuto osservare suo figlio per ore, interrogandosi per l’ennesima volta su come fosse possibile che quel bambino così perfetto fosse suo – la parte migliore della sua vita – ed affascinato dal modo in cui la sua sola presenza riuscisse a cancellare qualsiasi pensiero.
Si sedette accanto a lui, passandogli dolcemente una mano tra i capelli.
«Ehi, dormiglione» sussurrò, baciandogli una tempia.
Max emise dei versetti contrariati, girando il volto dall’altro lato e mugugnando una serie di parole sconnesse “Buio, nanna, notte”.
Alec ridacchiò, continuando ad accarezzargli la schiena «Vuol dire che i biscotti al cioccolato li daremo al Presidente Miao» farfugliò tra sé e sé, facendo leva sulla dipendenza da cacao di suo figlio.
Difatti, la testolina di Max scattò verso l’alto «Miei!» esclamò, girandosi per poter guardare suo padre «I biscotti al cioccolato sono miei» ribadì, corrugando il volto ancora segnato dalle pieghe del cuscino «A Miao no cioccolato, gli fa la bua il pancino.»
«Giusto! Menomale che me lo hai ricordato» disse Alec, portandosi una mano sulla testa per evidenziare la sua sbadataggine.
Max annuì soddisfatto, togliendosi un paio di peluche da dosso e saltando tra le braccia del padre senza alcun preavviso. Alec gli aveva detto innumerevoli volte che quella fosse una pessima abitudine, ma nessun rimprovero era servito a far desistere il piccolo dal gettarsi sul suo papà all’improvviso, certo che niente al mondo avrebbe impedito ad Alec di afferrarlo.
«’Giorno» sbadigliò Max, affondando il volto nel petto di Alec.
Il giovane adulto lo strinse a sé, perdendosi nella consapevolezza che quello fosse il suo buongiorno preferito.
«Ciao, piccolo mio» lo salutò, baciandogli rumorosamente la guancia paffuta «Andiamo a fare colazione anche se è quasi ora di pranzo?»
Max rise, aggrappandosi ad Alec mentre questi si sollevava per uscire dalla stanza «Colazione per pranzo!» esclamò, allegro.
Alec si avviò verso il piano inferiore, chiedendosi dove fossero i suoi fratelli e senza dover percorrere molti gradini prima di avere una risposta: avvinghiati in una morsa contorta e stretti al punto da non poter riconoscere dove finisse uno ed iniziasse l’altra, Jace e Clary, entrambi in pigiama, si baciavano frenetici e scomposti contro la vetrata che percorreva tutta la scalinata, talmente presi dal loro scambio passionale da non rendersi conto d’essere in uno dei passaggi più frequentati della casa.
«Vi ricordate che in questa casa abita un bambino?» li rimproverò Alec, mettendo una mano sugli occhi di Max.
Jace, preso alla sopravvista, lasciò la presa sulla ragazza e si voltò verso suo fratello. I capelli biondi, solitamente in perfetto ordine, erano stati arruffati dalle mani sottili di Clary; gli occhi dorati lo osservavano con un luccichio colpevole, e la porzione di petto visibile riportava i segni di una notte passata a recuperare settimane di lontananza.
Fu proprio dopo aver notato un succhiotto particolarmente scuro alla base del collo del fratello, che Alec spostò lo sguardo sull’amica, intenta a sistemare alcune ciocche rosse sfuggite dallo chignon.
Gli occhi verdi della ragazza si assottigliarono «Non ci siamo visti per settimane» si giustificò, consapevole dell’accusa nascosta dietro l’occhiata divertita del primogenito dei Lightwood, portando le mani sui fianchi magri in una mossa più autoritaria.
Il maggiore roteò gli occhi, ma fu Max, abbassando la mano del padre, a prendere parola «Zio Jace e zia Clary si danno i baciiini» ridacchiò.
Clary sorrise «Si danno i bacini perché si vogliono tanto bene» spiegò, solleticandogli il fianco prima di afferrare la mano di Jace «E ora se ne vanno» aggiunse, correndo lungo la scalinata.
Alec, scuotendo la testa in un moto di rassegnazione, si affrettò a scendere le scale, constatando che sua sorella avesse nuovamente stravolto l’arredamento dell’ampio salone: adesso ospitava colori freddi e angoli spogli, creando un ambiente nettamente contrapposto a quello precedente, che era stato caratterizzato da tinte accoglienti e da un’abbondanza di decorazioni d’ogni forma e colore – sul lungo divano in pelle bianca giaceva Church, il vecchio gatto persiano dal pelo grigio che pareva odiare chiunque osasse incrociare il suo cammino.
«Hai già cambiato tutto?» domandò Alec entrando in cucina – anch’essa in linea con il nuovo stile – e adagiando Max su uno sgabello, accendendogli la tv già sintonizzata sul canale dei cartoni.
Isabelle, poggiata contro il mobile della dispensa e intenta a leggere qualcosa dal tablet, portò le iridi nere sul fratello, continuando a mescolare con distrazione una zuppa dall’aspetto poco invitante. I lunghi capelli scuri erano ordinatamente raccolti in una coda alta e il fisico allenato era nascosto sotto una maglietta con la stampa di Pacman che le arrivava sin sopra il ginocchio – e che Alec era certo appartenesse a Simon, il suo ragazzo.
«Mamma credeva che lo shabby chic fosse grezzo» spiegò la ragazza, mostrando la sua completa disapprovazione «Questo è scandinavo, elegante ma dannatamente freddo» commentò, avvicinandosi a Max per lasciargli un bacio tra i capelli.
«A me piace» intervenne una terza voce, richiamando l’attenzione di Alec.
Maia, in un paio di pantaloncini neri strappati ed un misero top bianco che metteva in evidenza la carnagione scura, se ne stava seduta sul davanzale della finestra, la schiena contro uno stipite e i piedi – coperti dal solito paio di anfibi – sull’altro; i capelli ricci, portati in un taglio sbarazzino, erano mossi da un vento caldo e gli occhi scuri seguivano il diradarsi delle nuvole.
«Tu che ci fai qui?» domandò Alec, sistemando i biscotti al cioccolato davanti a Max.
«I tuoi sono andati a Boston per un convegno e Izzy ha ben pensato di organizzare un pranzo con la sua compagnia inappropriata» rispose, ricalcando il termine con cui, anni prima, Maryse era solita riferirsi a quei loro amici provenienti da un diverso ambiente sociale.
Il ragazzo rivolse un’occhiata divertita ad Isabelle, che ricambiò con un sorriso fugace.
«Tu, piuttosto» continuò Maia, saltando già dal davanzale «Come mai sei sceso dall’Olimpo per venire tra noi comuni mortali?»
«Ralf è stato chiamato a lavorare» rispose, stringendosi nelle spalle «Stai cucinando tu, Iz?»
«Qualcosa in contrario?»
L’incapacità culinaria era un fattore che accomunava tutti i Lightwood e che trovava massima espressione in Isabelle: sua sorella non soltanto era negata per la cucina, ma diventava persino un pericolo quando si metteva ad armeggiare vicino ai fornelli – Alec era certo che la scelta di mettere una cucina ad induzione non fosse stata propriamente casuale.
«Già quei due infami di Jace e Clary si sono dileguati dicendo che si sarebbero nutriti di altro» disse Isabelle, puntandogli il mestolo contro «Non ti permetterò il disprezzare il mio impegno!»
«Zio Jace e zia Clary si danno i bacini» commentò distrattamente Max, con gli occhi incollati alla tv.
Alec lanciò uno sguardo incerto in direzione di Maia, che gli rispose con un occhiolino complice, segno che avesse già ordinato del cibo commestibile da qualche locale nelle vicinanze. 
«Hai ragione. Sono proprio scostumati» rispose dunque Alec, utilizzando un altro termine tra i preferiti di Maryse.
«Lascia che si divertano!» lo rimproverò Maia, dandogli un leggero schiaffo sulla spalla «Non possono mica avere tutti una vita noiosa come la tua!»
«Ehi! La sua vita non è noiosa!» si oppose Isabelle, tirandole dispettosamente una ciocca di capelli «È l’avvocato più promettente della Penhallow Fell, ha un figlio meraviglioso e un fidanzato bellissimo che lo soddisfa pienamente!»
Alec, inizialmente intenerito dal senso di protezione che la sorella mostrava nei suoi confronti, si ritrovò a tossire quando Isabelle nominò la sua vita sessuale, facendogli andare il biscotto di traverso e costringendolo a recuperare dell’acqua dal frigo. Rischiò di strozzarsi anche con quella, poi, quando Maia affermò «Ralf deve essere proprio bravo a letto, considerando che Alec ormai non lo vediamo più.»
«Scusate!» sbottò, richiamando l’attenzione di entrambe «Potreste smetterla di sparlare della mia vita privata?» domandò, indicando Max.
«Oh, Alec, ma è naturale che voi facciate...che vi diate i bacini!» ammiccò l’amica con l’intento di metterlo in ulteriore imbarazzo, facendogli rimpiangere i tempi in cui faticava a dargli confidenza e pentendosi di aver introdotto Lily nel gruppo, certo che avesse avuto una pessima influenza su Maia.
Alec le lanciò la bottiglietta d’acqua contro, ma Maia riuscì a scansarsi in tempo, afferrandola al volo e dichiarando che fosse arrivato il momento di svegliare Simon, uscendo dalla cucina canticchiando.
«Mamma lo sa che Simon ha dormito qui?» domandò Alec, controllando distrattamente i messaggi sul proprio telefono: Lily aveva appena scritto sul gruppo di aver comprato il pranzo per tutti – Alec sperò vivamente che Isabelle non lo leggesse.
«No» rispose l’altra, voltandosi verso di lui ed incrociando le braccia al petto, squadrandolo con attenzione.
Alec, sentendosi osservato, le indirizzò uno sguardo vacuo «Cosa?» domandò, stranito dal disappunto dipinto sul volto della sorella.
La mora inarcò un sopracciglio prima di domandare – con una smorfia tremendamente simile a quella di sua madre «Come vanno le cose con Ralf?»
«Bene» si mise immediatamente sulla difensiva il maggiore.
«E dov’è?»
«Al lavoro, te l’ho detto.»
Isabelle scosse la testa, contrariata «Alec, sono settimane che-»
«Izzy, non devi intrometterti» affermò, con meno sicurezza di quanta avrebbe voluto mostrarne.
«Non mi piace quando mi nascondi la verità.»
Alec strinse i pugni e indurì lo sguardo «Restane fuori» le ordinò, perentorio, abbassando la voce affinché Max non si insospettisse.
La minore sospirò, ben consapevole dell’impossibilità di scalfire la testardaggine di suo fratello, ma ostinata a non arrendersi: avanzò verso Alec e lo chiuse in un abbraccio, lasciando che lui trovasse conforto nelle braccia di chi, da sempre, aveva rappresentato un porto sicuro.
«Voglio solo che tu stia bene, Alec» sussurrò, accarezzandogli la schiena «Ma» continuò, senza dargli possibilità di ribattere «La scelta è tua. Noi siamo qui in ogni caso.»
Alec alzò il capo, rispecchiandosi negli occhi della sorella – diverso colore ma medesima essenza – e si sentì soffocare dall’angoscia.
«Grazie» rispose, accennando un sorriso e sperando che Isabelle non lo conoscesse così bene da capire cosa si celasse dietro il suo comportamento.
Con la mano della sorella ed accarezzargli una guancia, Alec si convinse a non cedere: non era ancora pronto a dirle la verità.
 
 
 
Il bagliore delle lampade che pendevano dal soffitto illuminava scarsamente l’ampia sala del Downworld, l’odore di alcol era appena percepibile sotto i profumi dei clienti che occupavano l’ambiente ed il vociare era pressoché inaudibile tra le note di una canzone pop che si diffondeva a tutto volume.
Le scie colorate dei faretti si riflettevano ipnotiche negli occhi spenti di Alec e si proiettavano in una danza disordinata di luci ed ombre tra le pieghe della camicia blu scelta per l’occasione. Era completamente assorto, dissociato dal mondo circostante, incapace di avvertire la presenza della testa di una Lily quasi incosciente poggiata sulla sua spalla o di identificare le figure che si muovevano freneticamente dinnanzi a lui.
Come d’abitudine, a seguito della cena formale organizzata dalla Penhallow Fell – lo studio legale più prestigioso della città, gli ricordava la voce di sua madre nella sua testa –, Alec aveva lasciato un Max ormai dormiente nelle braccia di suo padre e tutti si erano riversati nel bar di Maia, dove avevano dismesso i panni di ricchi viziati per calarsi in quelli di ragazzi ordinari.
Il Downworld era nato da poco più di un anno, figlio dell’impegno e della determinazione della sua proprietaria: quello che era un magazzino abbandonato nella periferia di Brooklyn era stato trasformato in un locale dallo stile industriale, con un lungo bancone in metallo ad occupare un’intera parete di mattoncini bianchi e una fornita esposizione di alcolici alle sue spalle; tavoli squadrati in legno scuro erano disposti ordinatamente sul pavimento vinilico, mentre nella zona più appartata erano sparsi dei divanetti in pelle leggermente consumata. Nel fondo del locale vi era un palchetto che ogni sera ospitava qualche band esordiente, attirando così una clientela più vasta e giovanile.
Il palchetto, quella volta, era occupato da Simon. Il ragazzo aveva un paio di enormi cuffie gialle che stonavano sui capelli castani, corti e disordinati, la maglietta nera con la scritta “DJ SIMON” fluorescente che i suoi amici gli avevano regalato lo scorso Natale a mettere in evidenza il fisco allenato, i lineamenti marcati del viso deformati da un sorriso euforico e gli occhi color cioccolato velati da una patina di ebbrezza.
Probabilmente, rifletteva Alec dalla sua postazione periferica, era quella palese ubriachezza il motivo per il quale non si era accorto degli individui che ronzavano attorno alla sua ragazza, intenta a saltellare e cantare a squarciagola al centro dell’improvvisata pista da ballo.
Alec avrebbe voluto spostarsi per avere una migliore visuale su Isabelle – non che sua sorella avesse bisogno di protezione, giusto per placare quell’apprensione da fratello maggiore che non lo abbandonava mai – ma il peso sulla sua spalla non glielo permetteva.
Lily aveva barcollato verso di lui una mezz’ora prima ed Alec l’aveva aiutata ad accomodarsi al suo fianco, sorridendo al “Mi sa che ho esagerato” della sua amica e lasciando che si mettesse comoda contro di lui.
La ragazza era crollata qualche minuto dopo, incurante di aver assunto una posizione non propriamente elegante – era completamente stravaccata sul divanetto, aveva scalciato via le scarpe e la bocca aperta la faceva apparire in uno stato semicomatoso. Se quella non fosse stata Lily, la sua sfacciata, impertinente e svergognata Lily, si sarebbe premurato di svegliarla per farle assumere una postura meno scomposta, ma conosceva la sua amica e sapeva che sarebbe stata capace di ucciderlo se l’avesse disturbata per una tale idiozia.
Tornando alla realtà con un cambio improvviso di canzone – delle note rock iniziarono a risuonargli martellanti ed assordanti nella testa – si guardò attorno, cercando di individuare con lo sguardo i restanti componenti del suo gruppo.
La verità era che Alec stesse inutilmente tentando di propinarsi una serie di bugie poco convincenti che gli impedissero di lasciare quell’angolo buio ed appartato ed entrare in contatto con gli altri. Se le circostanze fossero state diverse, si sarebbe lasciato convincere dai suoi amici a ballare e sorseggiare un drink, accantonando la sua avversione alle feste in favore del divertimento che il suo gruppo riusciva sempre a procurargli.
Ma le circostanze non erano diverse e Alec non poteva assolutamente permettersi di perdere il controllo: Dio solo sapeva cosa sarebbe stato capace di fare, se la sua razionalità fosse stata appannata dall’alcol – l’avrebbe cercato all’istante, ne era certo.
Prima che potesse elaborare l’ennesima scusante per incoraggiarsi a non allontanarsi da quel divanetto, però, vide Clary dirigersi verso di lui. I capelli rossi ricadevano in morbidi boccoli su un elegante vestito azzurro e gli occhi stanchi fissavano avidi la poltrona rimasta libera.
«Credo che potrei lanciare i tacchi nel fuoco» disse, spostando poi lo sguardo su Lily «Ha di nuovo esagerato?»
Alec si strinse nelle spalle «La conosci, le piace bere.»
«Com’è giusto che sia!» esclamò Isabelle, balzando leggiadra alle spalle dell’amica.
Isabelle, che quella sera aveva deciso d’indossare un aderente abito rosso e tacchi vertiginosamente alti, si ravvivò i lunghi capelli scuri con una mano e si lasciò cadere sul bracciolo accanto ad Alec, circondandogli le spalle con un braccio e rivolgendogli un sorriso rassicurante – le iridi a trasmettergli il muto supporto per quel segreto che non conosceva, ma che sapeva lo stesse logorando.
Alec si voltò per rivolgerle uno sguardo di gratitudine, ma si fermò quando sentì Isabelle rafforzare la presa attorno al suo corpo, proprio mentre Jace correva verso di loro.
Suo fratello gli rivolse soltanto un’occhiata fugace prima di abbassarsi per sussurrare qualcosa all’orecchio di Isabelle, facendola irrigidire ulteriormente ed alzare di scatto.
«Dobbiamo andarcene» disse, afferrandogli un braccio per spronarlo a seguirla.
Alec si corrucciò «Che sta succedendo?» domandò allarmato, ignorando le proteste di Lily per aver perso il suo cuscino.
Isabelle continuava a far vagare gli occhi alle spalle di Alec, alla ricerca di un obiettivo a lui invisibile. Jace sembrava altrettanto impegnato ad ispezionare l’ambiente, il volto contratto in una smorfia d’ansia.
«Isabelle» la richiamò, portandole le mani sulle spalle «Che succede?»
La sorella alzò lo sguardo e Alec si agitò nel rendersi conto che stesse trattenendo le lacrime con forza. Intuendo il motivo di quel drastico cambiamento d’umore, le accarezzò una guancia, incoraggiandola a parlare.
«Mi dispiace» sussurrò Isabelle «Mi dispiace, me lo avevano detto ma non ho voluto crederci. Avrei dovuto dirtelo prima, avrei…» tirò su col naso e lanciò un’altra occhiata nervosa alle spalle di Alec «È tornato, Alec. Magnus è tornato.»
Alec sospirò. Se non ne fosse già stato a conoscenza, la notizia lo avrebbe sicuramente fatto cadere in uno stato di shock. Ma Alec non solo sapeva che Magnus fosse tornato in città, aveva persino avuto modo di parlargli – più o meno.
Aveva subìto un tracollo emotivo e stava ancora realizzando ciò che era accaduto, ma aveva sorpassato la fase di stupore iniziale.
«Aspetta» disse Isabelle, quando non ottenne alcuna reazione dal fratello «Tu lo sapevi già!»
Alec annuì «L’ho visto» rispose, omettendo di raccontarle del loro incontro «Era qui da prima di noi.»
«Vuoi andar via?»
«Sì.»
«Avviso-»
«No, tu resti qui. Sai di essere l’unica a poter gestire un Simon ubriaco.»
«Vado io con lui» s’intromise Jace, in un tono che non ammetteva repliche.
Isabelle si lanciò sul corpo del fratello, stringendolo in un abbraccio soffocante «Ti voglio bene. Io ci sono, lo sai, vero?»
Alec sforzò un sorriso «Ti voglio bene anch’io» sussurrò, lasciandole un bacio sulla testa.
Jace si scambiò uno sguardo significativo con Isabelle e mise una mano sulla schiena di Alec, spingendolo verso l’uscita.
Mentre cercava di farsi spazio tra la calca di persone, gli occhi di Alec vennero prepotentemente richiamati dall’individuo che da settimane torturava il suo senno. Era appoggiato contro il bancone, circondato dagli amici di sempre – amici che erano stati anche suoi –, con un drink in una mano e il cellullare nell’altra. Le gambe lunghe erano messe in risalto da un aderente pantalone scuro, il profondo scollo della camicia a fantasia astratta lasciava intravedere le linee definite del suo corpo e la pelle ambrata risaltava sotto l’innumerevole quantità di collanine scintillanti poggiate sul suo petto.
Il viso sottile dai lineamenti orientali mostrava un’espressione serena e ad Alec venne da ridere perché anche a metri di distanza, anche dopo anni di lontananza, riusciva a cogliere la sfumatura di quel sorriso e a riconoscervi una palese stanchezza – sembrava esausto.
Richiamato da un inarrestabile magnetismo, lo sguardo di Magnus si spostò in direzione di Alec e il sorriso prese una piega incerta, dolce e furiosa allo stesso tempo. Parve improvvisamente ignaro d’essere circondato da altre persone e mosse un passo verso di lui, ma il suo intento venne ostacolato su più fronti: Ragnor gli afferrò un braccio, Maia si sporse oltre il bancone per posargli una mano sulla spalla, Isabelle gli si parò dinnanzi e Jace si frappose tra lui e Alec.
Nessuno lì dentro voleva dargli modo di raggiungerlo. Nessuno, realizzò Alec, avrebbe concesso a Magnus di avvicinarsi nuovamente a lui, non dopo averlo mandato in pezzi.
Ma tu ci sei già ricascato, gli ricordò meschina una voce nella sua testa. 
Amareggiato e deluso, confuso, si destò con l’intenzione di andarsene – non importava dove, voleva solamente uscire di lì – ma si ritrovò bloccato, inchiodato sul posto dagli occhi supplicati di Magnus. Fu allora che venne percorso dal brivido più feroce, dal terrore che Magnus avesse ancora potere su di lui.
Guardò Jace, a cui fu sufficiente scorgere quella scintilla di panico nello sguardo del fratello per capire cosa fare: lo trascinò via dal bar e lo portò in un vicoletto buio. Al sicuro tra mura anonime, tra le braccia di chi aveva sempre rappresentato uno scudo dal mondo intero, Alec si sentì libero di crollare – e crollò.







Note dell’autrice

Salve gente!
Innanzitutto, se siete arrivati a leggere sin qui, vi ringrazio di cuore. È la prima volta che scrivo in questo fandom, ed è anche la mia prima long... spero di non combinare disastri per la via!
Questa storia ha iniziato a ronzarmi nella testa circa un annetto fa e, dato che proprio non voleva andare via, ho deciso di buttarla giù e di pubblicarla. Seppur nella mia testa sia già completa (dettagliata in un modo che dubito mi sarà concesso riportare, perché altrimenti risulterebbe infinita) la sto ancora scrivendo e sono in piena sessione, per cui gli aggiornamenti saranno certamente lenti – i primi sei capitoli sono già pronti, però, hanno solo bisogno d’essere revisionati!
Comunque, in questo primo capitolo abbiamo già incontrato i personaggi che ci accompagneranno per tutta la storia e se non avete capito molto di quello che è successo state tranquilli, perché nel prossimo sarà tutto più chiaro!
So che leggere di Alec con una persona che non sia Magnus potrebbe essere difficile, ma in questa AU la separazione è stata necessaria, non me ne vogliate!
Alla prossima,
Traumerin 
   
 
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