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Autore: Longview    27/01/2023    2 recensioni
"Quei ricordi gli formicolavano nella testa e gli sembrava -impossibile, davvero insensato- di starli rivivendo in quel preciso istante. Se ne accorse non appena sentì, in uno sprazzo di lucidità, che quel ladruncolo stava lentamente scivolando sotto le sue dita ormai paralizzate, molli, così come il resto del suo corpo. Una piccolissima parte della sua coscienza gli gridava di svegliarsi, di alzarsi e rincorrerlo, ma il resto del suo cervello era avvolto da una nube densa fatta di consistenti flashback del suo passato; era come in un sogno, anche se era perfettamente consapevole del suo corpo reale e di ciò che stava accadendo nell’ambiente attorno a lui."
Genere: Angst, Generale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Izuku Midoriya, Katsuki Bakugou, Ochako Uraraka, Shouto Todoroki
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Uno.








Shoto era stato il primo a fargli notare che nel suo look, a partire dai capelli fino ad arrivare alle magliette che spesso indossava e al suo costume da eroe che lo accompagnava quasi invariato dall'inizio del liceo, il verde era la sola costante. Sembrava una buffa casualità, ma quel colore che lo definiva così bene esteriormente rispecchiava alla perfezione anche il suo animo: era sinonimo di natura, freschezza, armonia, speranza. Era la rassicurazione, in ogni suo significato, e Izuku aveva sorriso soddisfatto in faccia alla certezza di incarnare l'idea di Simbolo della Pace nella cromia stessa che la genetica gli aveva donato, quasi fosse stato un segno del destino. 
Quelle parole gli avevano dato una strana scarica di adrenalina e gli erano rimaste in testa per giorni. Lui poteva fare grandi cose, aveva quella certezza ormai da molto tempo, ma esisteva davvero la predestinazione? Forse, più semplicemente, era solo una combinazione fortuita.
La sorte non poteva essere inevitabile come la descrivevano nei libri. Izuku non credeva nel fato, nella divina provvidenza o nel karma: la sua vita, ne era certo, si era costruita fino a quel momento solo grazie a una serie di scelte nate dal suo libero arbitrio. Avrebbe potuto compiere altre azioni, comportarsi diversamente, avvicinare a sé persone completamente differenti, e l'universo attorno a lui lo avrebbe indirizzato piano piano verso una realtà simile o diametralmente opposta a quella che stava sperimentando in quel momento.
La teoria a cui si sentiva più affine era forse quella degli universi paralleli. Magari se non fosse stato bullizzato alle medie, non avrebbe mai sviluppato quella sua voglia di rivalsa sociale; oppure se fosse nato con i capelli castani, Shoto non avrebbe mai fatto quella riflessione sul suo aspetto fisico. Le possibilità erano tante, alcune più rilevanti di altre.
La vita, in fondo, è come una versione ingigantita del gioco "Preferiresti se...?", solo che spesso le opzioni a disposizione sono decine e lasciano un senso di vuoto nel petto anziché la spensieratezza di una risata. 
Izuku si fece tornare in mente tutta quella faccenda nella frazione di secondo in cui mosse il primo passo all'inseguimento di un ladro: pochi minuti prima aveva ricevuto una chiamata dal centralino per le emergenza dell'agenzia in cui lavorava; infatti, in un bar del centro era in corso una rapina. Era normale routine per un eroe professionista, ma, per un novellino come lui, correre dietro a un villain in fuga era sempre un momento di grande tensione. L'asfalto sotto ai suoi piedi prese a sfrigolare mentre un baluginio verde avvolse tutto il suo corpo, sprigionando una piccola parte del suo quirk; prese a correre leggero in mezzo ai palazzi schivando persone e macchine, lasciando nei passanti la sola perplessità del sibilo veloce che lasciava al suo passaggio.
Il cuore batteva forte e preciso nella cassa toracica, era un tam tam incessante che gli squassava i sensi: all'improvviso, l'unico suono che potè percepire fu quello del suo respiro affannato che, con incredibile lucidità, entrava dal naso e usciva dalla bocca socchiusa così come gli era stato insegnato durante gli allenamenti in accademia.
Inspirava ed espirava. Le tempie gli pulsavano e il sangue scorreva liquido nelle sue vene. Le gambe si muovevano frenetiche al punto di sentire i muscoli bruciare sotto pelle. 
Quel ladro, avvolto in una logora felpa marroncina e con un cappello di lana calato sulla testa, si lasciò atterrare senza opporre troppe resistenze. Si divincolò appena nella stretta ferrea dell'eroe, nel tentativo di liberare le mani bloccate dietro la schiena. 
Chiaramente, non era la prima volta che Izuku effettuava un arresto: era abile e veloce, pertanto il suo capo lasciava spesso nelle sue mani quei casi minori; era abituato a sbrigarsela da solo. La Yuuei gli aveva insegnato a gestire qualsiasi genere di emergenza e, a dirla tutta, ne aveva affrontate diverse dentro e fuori le mura dei dormitori; quelli erano stati anni di crescita personale oltre che di formazione. 
Con il palmo lievemente sudato, si scostò qualche ciocca smeraldina dagli occhi: forse era arrivato il momento di dare un'accorciata a quei suoi capelli ingestibili. 
In quell'istante di distrazione, il ladro -che pareva un ragazzo poco più che ventenne- si rivoltò con un colpo di reni, mollandogli una ginocchiata ben assestata dritta nello stomaco; Izuku si ritrovò subito a boccheggiare dal dolore. Un conato di vomito gli salì lungo l'esofago, ma lo deglutì indietro; sapeva distintamente del pranzo consumato un paio di ore prima -pollo al curry, tante grazie al gentile ristoratore che glielo aveva offerto con gli omaggi della casa. Doveva restare al suo posto almeno finché il suo apparato digerente non avesse deciso di fare il proprio corso.
Per quanto tentasse di sfuggirgli, Izuku non mollava la presa ora ancorata alla sua caviglia. Quel ragazzo poteva imprecare quanto voleva, lanciare calci, aggredirlo fisicamente: lui lo avrebbe sempre superato in termini di forza bruta, merito degli anni di allenamento e del suo quirk.
A ragionarci attentamente, forse fu proprio quello a far perdere la concentrazione al giovane eroe: quel ragazzo continuava a combattere, ma non attivava alcun potere. Rimaneva lì a subire, cosciente di non poter niente contro il One for All, ma senza mai perdere quell'insensata tenacia che lo faceva dimenare come un pesce fuor d'acqua. 
Forse quel ragazzo non possedeva un quirk. Era come lui o, per meglio dire, come lui era nato. Gli anni da senza-quirk erano passati da un pezzo, tutto merito del suo mentore All Might; quasi non ricordava più cosa si provasse-- 
No. Ad essere sincero, ricordava chiaramente una serie di emozioni spiacevoli e le prese in giro dei suoi compagni. E la tristezza, tanta, tantissima tristezza. La disperazione negli occhi di sua madre, i suoi sensi di colpa avvolti stretti in quelle lacrime pesanti che versava senza vergogna. La voglia di riscatto e la delusione di non poter fare niente. 
E poi, anche dopo aver ricevuto il suo tanto desiderato quirk, era rimasto un miserabile ancora a lungo. Quelle sensazioni amare e dure, dense, cupe, fastidiose e gracchianti gli scivolavano contro le ossa con una tale vividità che gli parve di provarle anche in quel momento; il dolore fisico, morale e mentale della sua totale incapacità di agire, il suo corpo debole e in balia di un potere troppo grande per essere anche solo immaginato; poi, la strana febbrile felicità dei primi successi, quasi fossero arrivati per una piacevole casualità -ma, no, la casualità non esisteva nel suo stile di vita. 
Quei ricordi gli formicolavano nella testa e gli sembrava -impossibile, davvero insensato- di starli rivivendo in quel preciso istante. Se ne accorse non appena sentì, in uno sprazzo di lucidità, che quel ladruncolo stava lentamente scivolando sotto le sue dita ormai paralizzate, molli, così come il resto del suo corpo. Una piccolissima parte della sua coscienza gli gridava di svegliarsi, di alzarsi e rincorrerlo, ma il resto del suo cervello era avvolto da una nube densa fatta di consistenti flashback del suo passato; era come in un sogno, anche se era perfettamente consapevole del suo corpo reale e di ciò che stava accadendo nell’ambiente attorno a lui.
I ricordi continuarono a vorticare per quella che parve un’eternità: All Might che gli consegnava il One for All, l’esame per entrare in accademia, il primo giorno alla Yuuei, le ossa rotte, i test falliti, i litigi con Kacchan, l’amicizia con Shoto, i tirocini, gli eroi, le prove, i problemi, le punizioni condivise, le difficoltà, Ochako. E poi, il diploma e tutto l’anno che aveva vissuto da quel momento fino ad ora, la realtà -a volte dura- del mondo lavorativo e le sue sfide, i traguardi raggiunti ma anche i lati peggiori -e, se proprio doveva dire la verità, da qualche mese a quella parte ne stava sperimentando gli effetti. Era la sensazione peggiore che avesse mai sperimentato, forse perché non lo riguardava; era causata da qualcosa che... era all'infuori del suo controllo.
Quel fiume in piena di ricordi rimase bloccato in un loop su quegli ultimi avvenimenti, sui problemi, sui suoi sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, e per un attimo Izuku credette di star morendo. In fondo, si dice sempre che, prima della morte, la vita scorre davanti agli occhi come in un film. E ci credette, ci credette sul serio in quell'istante.
Il suo corpo rigido cadde a terra, immobile ma cosciente, per essere soccorso dopo poco da una serie di passanti allarmati.
Izuku era vivo, sì, ma quello che gli era appena successo aveva dell’inspiegabile. Forse aveva ragionato superficialmente credendo quel ragazzo un senza-quirk; quando aveva incrociato il suo sguardo spalancato e terrorizzato, a tratti infastidito, aveva percepito come un fremito nel petto. Poi, la sua testa si era riempita fino quasi a scoppiare: gli faceva male il cervello, anche se dubitava fosse una cosa possibile. Dei piccoli spilli si erano conficcati nella sua scatola cranica colpendolo nelle aree adibite alla regolazione degli stimoli visivi, tattili, alla percezione del dolore fisico ed emotivo, alla distinzione della realtà dall'immaginazione. 
Aveva appena vissuto un'esperienza pre-morte oppure-- no, non aveva altre idee su ciò che poteva essere successo. Sbatté le palpebre un paio di volte nel tentativo di riprendere possesso del suo corpo; mise a fuoco un paio di facce preoccupate piegate su di lui, percepì l'asfalto caldo di inizio giugno premergli contro la schiena e delle voci ovattate che gli carezzarono le orecchie. Sembravano tutti molto agitati, e se solo fosse riuscito a parlare avrebbe detto a tutti di stare bene.
Peccato che sarebbe stata una bella bugia; sì, il malessere generale che lo percorreva dalle viscere fino alla punta dei capelli era a dir poco debilitante. Credeva che, se solo avesse mosso un muscolo, si sarebbe dissolto per effetto dei suoi stessi succhi gastrici in subbuglio. 
-Stai bene?- alla fine, riuscì a comprendere quelli che fino a poco prima erano solo flebili versi sconclusionati. Voleva rassicurare quella voce dolce, un po' materna, che lo stava chiamando concitata; sentì una mano posarsi incerta tra i suoi capelli, e un'altra sul polso sinistro: delle dita premettero appena tra i tendini, sulle vene principali, alla ricerca del battito. Era un po' veloce ma regolare, niente di cui allarmarsi. 
La testa di Izuku fece su e giù un paio di volte, molto lentamente. La sua bocca si storse in un'espressione di dolore; la persone attorno a lui si tirarono indietro come scottate, lasciandogli spazio per respirare.
Il giovane eroe si mise a sedere con fatica, senza riuscire a trattenere un mugugno stanco; la sua vista non era ancora totalmente focalizzata su ciò che aveva davanti, ma a poco a poco le immagini del suo passato stavano svanendo, come evaporate nell'aria afosa. Quelle allucinazioni erano finite. 
Inspirò. I suoi polmoni si riempirono piano ma con smania, quasi fosse appena riemerso dall'acqua dopo una lunga sessione di apnea. Gli sembrava di non star respirando da giorni.
Forse era davvero morto. Insomma, non che ora fosse uno spirito che osservava il suo corpo inerme e senza vita gettato sull'asfalto, ma magari per un minuto o due era andato all'altro mondo. Sapeva fosse una cosa possibile per quanto strana; soprattutto per un ragazzo giovane e sano come lui. Non aveva problemi di salute, non ricordava neanche più quando fosse stata l'ultima volta che aveva preso l'influenza. Certamente non poteva essergli preso un infarto o un ictus improvviso.
Si passò entrambi le mani in viso, cercando di riprendersi. Anche se il malessere fisico era quasi scomparso, quello emotivo era ancora presente e gli fece venire ancora qualche capogiro. 
Quei ricordi erano tutti così cupi. Che fine avevano fatto i momenti belli? Gli ultimi anni della sua vita si potevano riassumere con tutta quella sequela di situazioni spiacevoli?
Izuku avrebbe tanto voluto chiedere a quel ragazzo che razza di quirk avesse appena utilizzato su di lui, ma purtroppo era già scappato lontano con la refurtiva.
Si era lasciato sfuggire un villain. Quella realizzazione lo aveva colpito in faccia come uno schiaffo.
Forse complice quella sua improvvisa tristezza, si vergognò molto di se stesso. Lui, proprio lui, che voleva diventare il prossimo Simbolo della Pace, l'erede di All Might, colui che stava già facendo del suo meglio per accaparrarsi il posto di Number One Hero... aveva fatto scappare un ladruncolo di quartiere. Era parecchio imbarazzante.
Doveva fare rapporto, per quanto gli scocciasse dover ammettere pubblicamente di aver fallito. Pensò a Kacchan, e a quanto quei pensieri fossero molto da lui; sorrise amaramente, desiderando un po' egoisticamente che apparisse in mezzo a quella piccola folla a suon di spintoni e lo accusasse di essere un pappamolle. Sì, non avrebbe mai usato quei termini: lui era molto più acido di così. Ma gli voleva bene lo stesso, o forse proprio per quel motivo.
Si torturò attorno a quell'idea per tutto il viaggio di ritorno, che intraprese con lo sguardo basso e il passo pesante. 
Non capiva.
Proprio non comprendeva.
Non riusciva a darsi pace, e non solo per il suo fallimento; era la prima volta che non riusciva a sgarbugliare l'incognita di un quirk. Non aveva il ben che minimo senso nel suo cervello; lui era un esperto in questo ambito, e invece si era lasciato fregare. 
Che stupido.
Contro ogni sua aspettativa, in agenzia nessuno gli fece pesare ciò che era successo. Le ansie erano tutte nella sua testa, gli sbagli potevano capitare. 
Era umano anche lui, per quanto non riuscisse a scendere a patti con ciò.
Perché voleva sempre essere meglio di tutti? Nessuno lo obbligava a flagellarsi con quelle paranoie, nessuno lo costringeva ad essere sempre la versione migliore di se stesso -no, a chi la dava a bere, voleva essere sempre perfetto. E, ragionandoci a sangue freddo, sapeva che la perfezione non esisteva. Se qualcuno gli avesse confidato quelle stesse paure in cui ristagnava da anni, probabilmente lo avrebbe rassicurato, gli avrebbe detto che ogni azione positiva era un piccolo passo in avanti; che non doveva avere fretta. Tuttavia, quando parlava a se stesso era molto più severo, quell'Izuku gentile e comprensivo svaniva nel nulla lasciando spazio a un Izuku più cattivo e prepotente. 
Perché? Era semplice: lui aveva un compito -o, almeno, questo era ciò di cui si era convinto da solo. Lui doveva aiutare tutti, doveva essere sempre pronto a sacrificarsi, doveva intervenire in ogni situazione perché sapeva di potercela fare. Aveva sbagliato troppe volte nella sua vita per permettersi nuovamente il lusso di riposarsi.
Ecco perché. Quello era il motivo per cui stava così male.
Finito il suo turno, andò diretto a casa. Fece tintinnare le chiave contro la serratura della porta d'ingresso del suo piccolo appartamento; piccolo, minuscolo. Si tolse gli stivali e saggiò con un sospiro il pavimento fresco sotto ai suoi piedi, per poi dirigersi stanco verso il bagno: si levò la divisa, aprì l'acqua tiepida e si infilò in doccia. Rimase immobile appoggiato alla parete, rilassandosi finalmente dopo quella giornata difficile. Per un attimo pensò di sedersi a terra, sulla ceramica, e chiudere un po' gli occhi, ma sapeva che se lo avesse fatto non avrebbe più trovato le forze per alzarsi. 
Dopo qualche minuto passato così, a fissare le piastrelle bianche ormai completamente bagnate, afferrò la boccetta di shampoo e iniziò a lavarsi i capelli; come sempre, fece scorrere le dita un po' rozzamente tra le ciocche, ma ben presto dovette fermarsi in un sibilo: passò ancora i polpastrelli vicino alla nuca, nella parte molle tra la fine della spina dorsale e la scatola cranica, quasi a volersi assicurare di ciò che aveva appena provato, e sentì distintamente una stilettata di dolore sotto pelle. Era come un livido, ma più in profondità.
Magari aveva sbattuto la testa a terra quando era stato colpito da quello strano quirk. Non ci diede troppo peso, principalmente perché voleva scordarsi il più in fretta possibile di quel brutto incidente. 
Non appena finì di farsi la doccia, si vestì con degli abiti puliti prelevati dall'armadio e si mise ai fornelli; non si asciugò nemmeno i capelli, faceva troppo caldo e aveva troppa fame per poterci pensare in quel momento.
Le sue capacità culinarie erano decisamente sotto la media, e non aveva mai provato ad impegnarsi per imparare: se una cosa non gli interessava, era difficile che si ricordasse persino della sua esistenza. Non ci pensava, e poi quando arrivava l'ora di pranzo o cena e il suo stomaco iniziava ad attorcigliarsi dalla fame capiva di essersi dimenticato ancora una volta dei suoi bisogni fisiologici. Erano più le volte in cui ordinava cibo d'asporto di quelle in cui mangiava qualcosa di caldo e fatto in casa. 
Anche quella sera, preso dallo sconforto ulteriore che andava ad accodarsi al resto di quella giornata deprimente, non volle prendersi la briga di spadellare e tirò fuori dalla dispensa l'ultima confezione di ramen istantaneo. Lo preparò in pochi minuti e se lo spazzolò in tempi record, troppo affamato per ragionare su quanto fosse poco sano quel suo comportamento. Sua madre glielo diceva sempre: doveva trattare meglio il suo corpo, doveva mangiare meglio, doveva prendersi cura di se stesso.
Gli mancavano i manicaretti di sua madre, era forse ciò che più rimpiangeva da quando era andato a vivere da solo. Anche se era contento di avere la sua indipendenza e di non dover dare conto a nessuno dei suoi orari, tornava spesso a farle visita per un pranzo assieme o semplicemente per chiacchierare. 
Buttò via la confezione e ripulì il tavolo; ora che si era lavato via il sudore e aveva la pancia piena, il sonno aveva preso a pesargli addosso come un macigno. Le palpebre si chiudevano da sole sui suoi occhi smeraldo e, senza pensarci due volte, si infilò il pigiama e andò a letto: quella giornata era stata indubbiamente faticosa e non vedeva l'ora di metterci una pietra sopra; tuttavia, con un sospiro agitato si ricordò che il giorno seguente sarebbe stato ugualmente -o forse più- complesso per i suoi poveri nervi tesi. 
Era felice, sì, ma anche molto preoccupato: mentre il mattino lo avrebbe passato al lavoro, il pomeriggio sarebbe stato dedicato interamente ai preparativi per la serata che gli si prospettava davanti; infatti, dopo anni a rincorrerla e a dissimulare i suoi sentimenti, aveva trovato il coraggio di chiedere un appuntamento a Ochako.
Aveva sognato quel momento così a lungo che non credeva si stesse davvero per avverare.
Avevano trascorso tutti gli anni in accademia a concentrarsi sugli allenamenti, sugli esami, sulle prove e, ultimo ma non meno importante, sul loro futuro; spesso Izuku si era fermato a guardarla, e si era chiesto se sarebbe mai diventato determinato quanto lei. La ammirava dal primo momento in cui l'aveva conosciuta, il giorno del loro esame d'ingresso.
E si era innamorato piano, dolcemente man mano che imparava a conoscerla. 
Aveva sempre cercato di nascondere ciò che provava, ma gli ultimi avvenimenti della sua vita lo avevano portato a pensare che non poteva più rimandare qualcosa di così importante; se gli fosse successo qualcosa, voleva almeno dire addio a quel mondo senza avere rimpianti.
E quindi le aveva chiesto di uscire; Ochako aveva accettato di buon grado, e lui si era sciolto come burro.
Gli sfarfallavano le budella solo al pensiero.
Con un po' di fatica, il sonno sopraggiunse sui suoi sensi. 
 
Il mattino dopo, Izuku riaprì gli occhi piano, abbastanza riposato ma già perplesso -e, forse, un po' infastidito- dalla luce che vedeva filtrare tra le tende spesse della camera; per essere le sei del mattino, fuori c'era decisamente troppo sole. Percepì qualcosa di insolito nell'aria ma, complice quel dolce risveglio, non comprese all'istante che quell'elettricità proveniva direttamente dal retro della sua mente; stava cercando di avvertirlo, se solo le avesse dato ascolto. 
Per metà ancora nel mondo dei sogni, si rigirò tra le coperte fino a buttare uno sguardo verso l'orologio posato sul suo comodino: segnava le otto e trenta.
Era in ritardo.
In un ritardo mostruoso.
Come punto da uno spillo, saltò giù dal letto a tutta velocità e si chiuse in bagno: la serie di imprecazioni che gli scivolarono dalle labbra superarono di numero tutte quelle che aveva mai pronunciato nel corso della sua intera vita. Non se ne accorse nemmeno, era troppo agitato; fortuna che non c'era nessuno a sentirlo.
Allungò una mano rapido verso lo spazzolino, ma si bloccò a mezz'aria: "Che strano", pensò, "Non ricordavo di averne due". Forse sbadatamente si era scordato di buttare quello vecchio. Non ci diede troppo peso, e gettò quello incriminato nella pattumiera. 
Proseguì poi pettinandosi i capelli e lavandosi la faccia; doveva scrollarsi di dosso i residui di sonno il più presto possibile, e già non voleva immaginare il rimprovero che gli avrebbe rifilato il suo capo. Se il giorno prima aveva lasciato correre quel suo errore, quella mattina gliene avrebbe certamente dette quattro. E se le meritava tutte, insomma, si era scordato di puntare la sveglia. Dove aveva il cervello ultimamente?
Infine, in tutta fretta, tornò verso la camera per recuperare la divisa da eroe dall'armadio. La sera prima l'aveva riposta ordinatamente dentro alla sua custodia in tessuto rivestito, per non farle prendere polvere.
La sua piccola corsa si interruppe di colpo non appena si trovò oltre lo stipite della porta, fermo e rigido quasi fosse stato paralizzato da un attacco di Kaminari; se solo avesse potuto sparire, dissolversi nel nulla e mischiarsi alle particelle diventando aria, lo avrebbe già fatto.
Il suo sguardo era puntato al letto, le pupille ridotte a capocchie di spillo e le palpebre che non accennavano a chiudersi; i suoi occhi erano completamente rossi e increduli, terrorizzati, mentre sulle sue guance iniziava a spuntare un lieve rossore che risaltava ancora di più se messo a confronto all'incredibile pallore del resto del viso. Persino le lentiggini sparivano in mezzo a quell'imbarazzo.
Izuku si accorse di star trattenendo il respiro e di aver serrato la mascella in una smorfia di paura. Si morse un labbro, domandandosi se ciò che stava vedendo fosse un'altra allucinazione: dopo ciò che era successo il giorno prima, non si sarebbe stupito più di nulla. E, in fondo, sperava seriamente di essere diventato pazzo.
Perché la scena che aveva di fronte non aveva senso di esistere.
Le coperte si mossero spostate da delle piccole mani chiare, lasciando intravedere una testa castana e tutta scompigliata; quella si voltò piano nella sua direzione e gli rivolse uno sguardo a metà tra il confuso e l'addormentato.
Riconobbe all'istante quei capelli corti, il viso paffuto, la fronte corrucciata e le labbra a cuore; li aveva osservati infinite volte, e li avrebbe riconosciuti anche in mezzo a un milione di persone. 
Ochako, avvolta in una t-shirt azzurrina, si era appena messa a sedere sul suo letto, ancora avvolta dalle coperte leggere di fine primavera. Lei era lì, tranquilla e a suo agio, quasi fosse abituata a quel tipo di routine assieme a Izuku.
La ragazza inclinò il capo di lato, guardandolo perplessa.
-Izu, che fai? Oggi non lavori, giusto?-
  
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