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Autore: FiloRosso    28/01/2023    0 recensioni
Se non siete amanti dei racconti post apocalittici, dei mangia-carne e non amate le imprese stoiche di alcuni sopravvissuti...be' allora questa storia non fa per voi.
-Tutti abbiamo una storia.
La fine del mondo è iniziata, per ciascuno di noi, all'improvviso. Ma non ha spazzato i ricordi del passato.
Ci siamo lasciati alle spalle morti, cari, persone a cui volevamo bene. Qualcuno si è anche sacrificato per darci la possibilità di sopravvivere. Non è giusto dimenticarli così.-
Genere: Erotico, Horror, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
Capitoli:
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“L’amore reca più male che bene”

 

10.


 


 

E’ notte fonda e non riesco a chiudere occhio. Alcune pattuglie sono ai lati dell’ingresso principale del Ranch, posso vederle dalla finestra della baita, appostate sulle torrette di vedetta che M.C. ha ordinato di far costruire subito dopo l’attacco dei notturni un anno fa.

I fari squarciano il buio girando su loro stessi e le luci led chiodate su ogni lato della palizzata ci restituiscono una sensazione di sicurezza che ben poche volte si riesce a provare di questi tempi.

Capen Hocks, ora, sembra uno dei pochi posti sicuri in cui provare a sistemare i cocci di una vita che non tornerà mai come prima. 

Eppure, io mi sento rinchiusa in una gabbia, costantemente in pericolo. 

M.C. gestisce questo posto come meglio può: procacciando cibo, formando eserciti di giovani pronti a difendere la sua città in miniatura; si preoccupa soprattutto dei bambini e delle donne. E’ una brava persona nonostante sia un uomo burbero e se io non fossi presa così tanto dalla mia disperata ricerca, forse, lui mi aiuterebbe.

Ruoto su un fianco e le molle del materasso ballano appena.

Nella mia testa, un caleidoscopio di pensieri si proietta in ogni direzione.

Penso a Kael, a questo posto, a quella notte in cui tutto è capitolato per la seconda volta.

Il blocchetto nero è ancora sul pavimento.

«Mel…»

Chi è quella ragazza? 

«Hai ancora molto di cui parlare, Karina. Facciamo così: tu mi dai la tua storia ed io in cambio darò qualcosa a te.»

Mi tornano in mente le sue parole.

Cosa mai potrebbe darmi in cambio della mia storia e perché è così importante che io gliela racconti? Dannazione!

Schiaccio il viso sul cuscino e ci affondo dentro.

La cinepresa.

La Jeep di Mel è stata sequestrata da M.C. e molto probabilmente si trova nella rimessa dei cavalli.

Devo trovare quell’auto, dentro potrebbe esserci qualsiasi cosa.

Poi rifletto: sicuramente M.C. l’ha fatta controllare.

Sono certa che l’abbia svuotata.

Un leggero sentore di angoscia mi stringe lo stomaco. 

E se Mel avesse portato con sé documenti che riguardano il Morbo?

Torno a guardare il blocchetto.

Quel dannato simbolo sta per contagio biologico e l’ho visto una miriade di volte nei film ma, questa volta è vero, tutto vero. Che sia un militare?

Sposto lo sguardo al soffitto con le travi di legno.

“In cambio darò qualcosa a te”.

«Cosa dovevi darmi, Mel?».

Perseguitata da questa domanda, socchiudo gli occhi.


 

Ore dopo, un pugno pesante contro la porta mi sveglia di soprassalto.

«Karina, è l’alba!»

Sento la voce di Callum provenire dall’altra parte della lastra lignea.

Non è mai corso buon sangue fra di noi. Sin dall’inizio, dalla prima volta che Kael ed io siamo arrivati in questo posto, Callum si è mostrato astioso nei nostri confronti. Lui non ci voleva qui e ha sempre dichiarato di vederci come un peso più che come sopravvissuti.

Questo perché, molto probabilmente, suo padre, M.C. considerava Kael molto più pronto alla fine del mondo rispetto a lui e suo fratello gemello.

«Ho quasi fatto.», mi affretto a dire alzandomi.

Si gela. L’inverno è alle porte e sono pochi i giorni in cui l’aria mite scalda la terra nelle ore diurne.

Stringendomi nelle braccia, cerco con lo sguardo le mie cose.

C’è un comò stipato accanto ad una parete della baita. Dentro poche cose.

Apro il cassetto e afferro un maglione pesante, una T-shirt, un paio di jeans.

Indosso il tutto e mi infilo le scarpe.

«Ce ne hai messo di tempo.».

Quando apro la porta, Callum è davanti a me.

La pelle ambrata, gli occhi chiari.

«Anche tu con me?»

Annuisce.

Callum ha un’espressione baldanzosa che lo caratterizza. Credo sia una specie di sorrisetto furbo che ai miei occhi lo rende particolarmente antipatico.

Per non parlare della sua arroganza.

Mi tende un borsone scuro e un fucile che mi affretto a raccogliere.

«Andremo a cavallo.», proferisce rigido. «Sai andare a cavallo?»

Onestamente questa è la prima volta ma non intendo diglielo.

«Si», mento.

«Bene perché dovrai starmi al passo, non intendo farti da scorta.»

«Non ce ne sarà bisogno.»

Callum sta per scendere i pochi gradini che ci separano dall’ampio spiazzo d’erba quando, si gira e mi fissa dritto in faccia.

I suoi occhi stillano veleno «Solo perché mio padre ti crede pronta non significa che tu lo sia realmente.»

Resto in silenzio.

Non ho intenzione di accapigliarmi con questo stronzo. Lo sorpasso precedendolo e mi dirigo verso i cancelli principali.

Ci sono diversi uomini e qualcuno ha già messo le briglie  al proprio cavallo.

Vedo M.C. parlare con uno di loro, sembra stia dando direttive.

«Qualsiasi cosa succeda lì fuori, ricordatevi che questo sacrificio è per un motivo ben più grande delle vostre stesse vite.», dice.

Non mi piace quello che sento.

E’ come se stesse chiedendo ai suoi uomini di rinunciare alla loro vita per tenere il suo culo al sicuro.

Mantengo lo sguardo su di lui.

Non l’ho mai visto uscire da questo posto, nemmeno una volta. Quando i notturni ci hanno attaccato, lui è sparito dal Ranch assieme a Callum e suo fratello. A dirla tutta, credo che anche Joel fosse con loro, ma forse mi sbaglio.

Ho dimenticato quella notte. Ricordo solo le urla, il prato cosparso di sangue e i colpi di fucile.

E Kael. Quella parte, purtroppo, non sono riuscita a farla sparire dalla mia testa.

«Scappa, Karina!»

Se mi concentro, posso vedere gli artigli di tutti quei notturni conficcarsi nella sua carne e le loro fauci spalancarsi e mordere il suo collo.

Posso…

«Mi hai sentito, Karina?», la voce profonda e severa di M.C. mi riscuote da quell’incubo ad occhi aperti.

«Cosa?»

Aggrotta leggermente la fronte «Ho detto di fare attenzione. Lo stadio è un posto pericoloso e pullula di persone altrettanto pericolose.»

«Già…Lo stadio.» Avevo dimenticato l’obiettivo di questa spedizione.

«Dovrete procurare tutto ciò che ho scritto sulla lista che ho dato a mio figlio Callum. Sarà lui a dirvi cosa prendere una volta lì.»

Annuiamo.

Siamo in quattro ad uscire quest’oggi ed oltre Callum, non conosco nessuno.

C’è un uomo che dice di chiamarsi Gregory e ammette di avere quarant’anni, mentre l’altro, Carlos, dice di averne pochi di meno.

Sono già stati lì fuori. A differenza della maggior parte di persone che vivono qui al Ranch e ci vivevano anche prima di tutto questo, loro vengono dal centro di Los Angeles proprio come me.

«E’ tutto pronto.» Afferma un giovane, rivolgendosi ad M.C.

«Perfetto», l’uomo fa cenno alle due sentinelle di azionare la leva dei cancelli.

Lentamente la bocca del Ranch si spalanca davanti ai miei occhi.

«Ecco i vostri cavalli.» Una ragazza mi porge la briglia, non mi ero quasi accorta della sua presenza.

«Grazie.»

Incespicando leggermente, riesco a montare sulla sella.

Callum sperona il suo animale con i punteruoli agganciati ai suoi stivali e mi precede.

Lo imito e anche se, agganciate alle mie Converse, non ho alcuno sperone, l’animale comprende subito il comando e parte al galoppo in fretta.

Pochi metri dopo, per qualche ragione, mi volto a guardare il Ranch.

I cancelli si stanno chiudendo. Ho un flash.

Kael sta tirando la leva per chiudere gli stessi cancelli con tutte le sue forze, nonostante sia stato morso innumerevoli volte e quelle bestie non lo lascino andare. Dietro le sue spalle, fiamme altissime si levano su nel cielo squarciando il buio.

Uno spasmo mi contorce le budella.

Schiocco la briglia e il cavallo comincia a correre.

Voglio scappare da quel ricordo.

Vorrei che Kael non fosse mai arrivato al Ranch.

Mi sfioro il collo e tiro la medaglietta in modo che la piastrina di metallo dondoli appena sotto le mie dita. Quando passo il pollice sul suo nome, avverto un fremito di malinconia. Vorrei poterla strappare dal mio collo e buttarla fra i cespugli che scorrono veloci accanto a me, perché sono furiosa nei confronti di Kael. Non doveva abbandonarmi. Non doveva sacrificarsi: lui doveva restare qui con me.

Ma non ho il coraggio di farlo, di gettarla, e perciò la ricaccio dentro il giubbotto.

«Più veloci, dobbiamo arrivare allo stadio prima del calar del sole!», ordina Callum con un tono di voce abbastanza forte perché tutti e tre possiamo sentirlo.

E’ lui a capo di questa spedizione e anche se l’idea mi fa accapponare la pelle dai nervi, non posso far altro che obbedirgli.

 

Dopo qualche chilometro battuto al galoppo decidiamo di rallentare. I cavalli non sono stanchi, ma il viaggio di ritorno sarà più frenetico e non possiamo rischiare di rimanere a piedi.

«Propongo di fermarci al Preston Lake Park». Gregory tira verso sé la briglia e il cavallo rallenta lentamente.

«No, è una zona troppo esposta.». Callum fa fare un mezzo giro su se stesso al suo cavallo, fino a che non arriva ad un passo da noi altri.

«Io non la trovo una cattiva idea», dico, «-lì c’è un piccolo laghetto artificiale, gli animali potrebbero rifocillarsi, mentre noi…».

«Ho detto di no.» Lo sguardo austero di Callum mi passa da parte a parte.

Di riflesso resto in silenzio.

«Presto sopraggiungerà la notte, non possiamo rischiare di trovarci per strada quando il buio ci inghiottirà.».

«Sono d’accordo con Callum», interviene Carlos.

«Come non detto», mormoro appena. Callum deve avermi sentito perché mi lancia uno sguardo arido. «Come hai detto?»

Sostengo il suo sguardo «Niente. Non ho detto niente.»

Colpisco all’istante la coscia dell’animale che, dapprima nitrisce sollevandosi sulle zampe posteriori e poi riparte al galoppo senza esitare.

 

Dopo circa un’ora, il Ranch è ormai lontano come i prati sterrati e il vuoto cosmico che lo circonda. Inizio ad intravedere il profilo di un edificio a due piani. Una libreria abbandonata che conosco bene e che ricordo fosse situata molto più lontano. Evidentemente, nell’ansia di raggiungere la città prima del calar del sole, dobbiamo aver battuto parecchia strada senza accorgercene.

«Siamo vicini a Glendale.», afferma Callum spaginando una cartina geografica. Sul retro del foglio, scritto caratteri cubitali: “Los Angeles”.

Ci sono stata. Ero piccola, ma lo ricordo come fosse ieri.

Mia madre mi aveva portata lì molti anni prima di ammalarsi e di finire in coma, chiusa in una clinica.

Amava i libri e leggere, specie se doveva farlo per me.

«Lo stadio è a pochi isolati da qui.», Conclude, chiudendo la cartina.

Ha un’espressione strana sul viso, non sono certa che sia convinto di ciò che dice. 

Quando torniamo in marcia, me ne accerto «Sei sicuro che la strada sia questa?»

Glendale non esiste più. Il grande vialone costernato di vetrine, ristoranti e sale Bowling  ora è solo un cumulo di macerie informe. Carcasse di auto, muri con scritte che inneggiano alla morte e corpi che ormai sono più che putrefatti, oltre a tanta, tantissima, erba alta che spunta fra le auto abbandonate in coda al centro dell’asfalto.  Poi ci sono i loro grugniti gutturali: lontani, nascosti nel buio, in attesa che la notte scenda per poter tornare a caccia in quelle che, ora, sono le LORO strade e non più le nostre.

«Certo che sono sicuro, ho la cartina con me!», protesta stizzito.

Guardo dritto a me, oltre la mia fronte. Il tramonto, con le sue venature biancastre estese in una profonda distesa arancio, sta quasi per sparire. E’ tardi e anche Callum lo sa.

Lo scorgo con la coda dell’occhio: ha la fronte imperlata di sudore e guarda in ogni direzione mentre ci guida a passo lento tra le traverse e gli incroci di Glendale.

Carlos e Gregory ci seguono in silenzio ma, sono certa che siano titubanti quanto me.

Mentre procediamo lenti, un rumore fra l’erba ci fa impugnare i fucili d’istinto. C’è un attimo di raggelo generale e tutti restiamo ammutoliti a fissare i ciuffi d’erba che si muovono. Non c’è vento, perciò ci deve essere per forza qualcosa nascosto lì dietro.

Deglutisco. Qualsiasi cosa sia è vicina. Troppo vicina.

Un movimento brusco e uno dei cavalli nitrisce, all’improvviso.

Zoccoli scuri battono l’asfalto e lunghe zampe nocciola, saltellano spaventate fra le auto: un capriolo.

Quasi mi scoppia il petto.

«Cazzo…»

Callum sbotta in una risata nervosa «Solo un capriolo!»

«Che spavento», commenta Gregory mentre mette giù l’arma.

Abbiamo, indubbiamente, i nervi a fior di pelle.

 

                                               ****

 

Dopo esserci ritrovati per l’ennesima volta al centro di una strada anonima, sbotto.

«E’ la strada sbagliata! Callum devi darmi retta, torniamo indietro.»

Frettolosamente, tira fuori la cartina «No, non è possibile, lo stadio è proprio qui!» e mi indica un punto con l’indice.

Costringo il mio cavallo ad avvicinarsi all’animale di Callum e gli strappo la cartina dalle mani.

«Sesta Avenue.», dico, «Questa è una traversa della Sesta Avenue.»

Lo vedo impallidire e poi i suoi lineamenti tornano duri, rabbiosi.

«Ok, ascoltatemi», dice, rivolgendosi a Gregory e Carlos che nel frattempo si erano allontanati leggermente da noi, «Abbiamo imboccato una traversa, torniamo indietro. Lo stadio è vicino.»

I due annuiscono anche se leggo nelle loro espressioni una punta di stizza.

Quando fanno dietrofront, Callum si rivolge a me di nuovo: «Non dirglielo.»

«Cosa?»

«Che ho letto male quella dannata cartina, penseranno che non sono in grado di guidare questa spedizione e sai benissimo il panico cosa riesce a scaturire.»

Resto impassibile e annuisco.

Non voglio spalleggiare Callum, non lo sopporto, ma ha ragione.

Il panico genera caos e il caos, in una situazione come la nostra, sta per morte certa.

 

Il silenzio agghiacciante che ci accompagna verso lo stadio si trascina al seguito il freddo dell'inverno che è alle porte.

Stretta nelle mie stesse braccia, fatico a tenere le mani attorno alla briglia del cavallo. Quando respiro, piccole volute bianche si dissipano dalle mie labbra arrossate e screpolate. Non riesco a smettere di tremare ma devo, perché, pochi attimi dopo, vedo lo stadio: è qui, davanti ai miei occhi.

Un uomo imbraccia un fucile e fa capolino da una cabina rimediata, fatta di pezzi di copertone e metallo. Ci fa cenno di scendere dai cavalli e ordina di mostrare le mani.

«Da dove venite?»

«Capen Hocks»

Il tipo tracagnotto mi ricorda uno a cui deve piacere parecchio la birra. Ha una profonda ferita che gli solca la guancia sinistra, una folta barba nera e un cappellino blu dei Dodgers a coprirgli la testa.

Occhi scuri e minacciosi con cui sonda ogni nostra espressione.

Fa una smorfia compiaciuta «Temerari…E’ quasi notte.».

Callum sembra spazientito, socchiude per un istante le palpebre, sospira, e poi  torna a sostenere lo sguardo dell’uomo «Siamo qui per trattare. Dicci dove possiamo trovare El Gringo.»

«El…». Cogliendoci tutti alla sprovvista, l’uomo scoppia in una risata sguaiata quasi quanto quella di una iena. «Nessuno incontra El Gringo di persona, a meno che non si tratti della sua merce.»

Ho un brivido. Quindi è vero, El Gringo possiede una tratta di esseri umani!

Le palpebre mi scattano senza che io lo voglia e l’uomo se ne accorge all’istante. Fa un passo verso me, lo sguardo viscido. «Molto probabilmente, però, voi avete merce di scambio.»

E’ rivoltante il modo in cui mi guarda e quello con cui mi sfiora una mano portandosela accanto alle labbra.

Sto per tirargli un pugno quando, Gregory afferra di colpo il suo polso: «Lei non è merce di scambio.». Per un momento i due si lanciano un’occhiata all’arsenico «E’ la nostra contrattatrice.»

L’espressione sulla faccia di cappello dei Dodgers si fa terribilmente sorpresa, incredula.

 «Una donna?…Sarà divertente.» sibila venefico, recuperando il polso.

Il ghigno perfido sulla sua bocca non accenna a sparire.

Si volta e ci fa cenno di seguirlo verso la cabina. «Sapete come funziona?».

«E’ la prima volta che…», Callum esita per un momento.

Non è pronto, suo padre ha ragione.

«No, non lo sappiamo.», dico.

Il figlio di M.C. ed io ci scambiamo uno sguardo rapido. So che mi sta fulminando, sento i suoi occhi sulla mia guancia ma, al momento, non mi interessa. Stiamo perdendo tempo prezioso.

«Per prima cosa, i vostri cavalli…», il viscido allunga una mano verso la briglia che stringo fra le mie dita.

Gliela porgo e così fanno anche gli altri.

«…E le armi.»

«Nessuno di noi ti lascerà i fucili.» Callum fa un passo in avanti. Lo vedo irrigidirsi per i nervi.

Le labbra dell’uomo a guardia dello stadio si stirano notevolmente. Schiocca la lingua al palato e mimando un sorrisetto sfottente dice: «Allora nessuno di voi entrerà.»

«Dannazione Callum, lasciamogli le armi e chiudiamo questa storia.», proferisce Carlos fra i denti.

Siamo tutti tesi come le corde d'un violino.

Callum sospira arrendevole, «Ecco a te le armi.», e poggia il suo fucile nella fessura della cabina, poi invita noi a fare lo stesso.

L’uomo con il cappello dei Dodgers ci indica la strada con un movimento plateale del braccio e un inchino beffeggiatorio.

«Lo voglio morto.», ringhia Gregory fra i denti, mentre lo sorpassiamo imboccando l’ingresso laterale dell’ Eagles Stadium.

«A suo tempo, Greg.».


 

Il breve tunnel che separa il cuore dello stadio dall’esterno è coperto da un enorme telo e un secondo uomo fa da usciere spostandolo di volta in volta.

Tocca a noi. Quando ci libera l’ingresso, il bagliore accecante dei fari mi piomba sugli occhi e di riflesso li serro.

«Che cos’è questo posto?», mormora Callum incredulo.

Sbatto un paio di volte le palpebre per abituarmi a tutta quella luce e un'immensa tendopoli si materializza lentamente davanti a me.

Non posso crederci.

Ci sono bancarelle di ogni tipo. Vedo donne di ogni etnia barattare polli per barattoli di legumi, uomini scambiare proiettili per armi semiautomatiche, e tanti, tantissimi sopravvissuti.

Ho l’impressione di trovarmi in un campo pieno di cicale tanto è alto il vociare.

Non riesco a trattenere un sorriso.

«Non posso crederci…Non può essere vero…». Sembro una bambina al Luna Park. Non ho mai visto tanta gente e tutta insieme da quando il mondo è finito.

Gregory, che mi cammina accanto, accenna un breve sorriso divertito.

E’ da così tanto tempo che non vediamo detersivi e prodotti per lavarsi o Phon per i capelli.

Ho voglia di fiondarmi sulle bancarelle e barattare qualsiasi cosa.

«Non siamo venuti qui per divertirci, questo non è un momento ricreativo.» Ci canzona Callum bruscamente. Lo vedo guardingo indagare con gli occhi: questo posto non lo convince affatto.

«Mio padre mi ha lasciato questa lista di medicinali, sembra che Caroline, la figlia di una delle ultime  sopravvissute arrivate al Ranch la settimana scorsa, sia malata.»

«Sappiamo cos’ha?», gli domando.

«Febbre alta e fiato corto.»

Mi porge la lista.

«Noi ci procureremo provviste, tu pensa alle medicine.», comanda.

«Perché devo andare da sola?»

Callum mi fredda con lo sguardo ceruleo.

«Fa come ti dico.»

Non obietto. Vorrei spaccargli la faccia, ma so che il compito che abbiamo è molto più importante di Callum e del suo caratteraccio.

Rimasta sola, sommersa dalla moltitudine di bancarelle e sopravvissuti, mi addentro verso il fulcro pulsante del “mercato”.

«Scorte di proiettili!», grida qualcuno, «E’ un affare! Una scatola intera di proiettili sedici millimetri per soli sei pacchi di carne essiccata!»

«Bottiglie d’acqua!», grida un’altra donna. «Non vorrete far bere ai vostri piccoli acqua piovana! Avanti!»

Sono confusa, tutte quelle voci mi stordiscono. 

Guardo in ogni direzione alla ricerca di qualcuno che smerci medicinali ma sembrano merce rara.

Ad un tratto, una gabbia sospesa a mezz’aria e trattenuta da lunghe corde di cui non scorgo l’intera lunghezza, attira la mia attenzione. C’è una ragazza dentro: è terrorizzata. 

Qualcuno la sta barattando pochi metri sotto di lei e una folla di uomini sembra giocare al rialzo pur di accaparrarsi la preda. Una rabbia pulsante mi fa ribollire il sangue.

«Ehy! Ehy, tu!», cerco di raggiungere la sagoma di spalle che sta maneggiando un paio di blister contenenti medicinali.

Senza accorgermene, di punto in bianco, mi ritrovo al centro di un fiume umano: vengo spintonata in ogni direzione e annaspo un paio di volte.

Merda!

Mi becco un paio di gomitate in un fianco e una, la seconda, mi toglie quasi il fiato. 

Se non riemergo dalla corrente finirò schiacciata.

Sta succedendo tutto troppo velocemente: ho il cuore in gola per la paura.

Sembra che nessuno si sia accorto di me e nonostante stia gridando non incrocio nemmeno uno sguardo.

Mi manca l’aria.

Morirò.

Nel momento in cui lo penso, tutti quei volti diventano pallidi. Teste glabre, occhi senza iride, denti pronti a dilaniare la carne.

«Lasciatemi! Lasciatemi!...», grido. 

Qualcuno mi spinge lontano, rifilandomi un’occhiata torva.

Un momento prima sento le gambe molli come gelatina e troppo deboli per sostenere il mio peso, quello dopo, sono così rigida che potrei perdere i sensi e restare comunque in piedi.

Che mi sta succedendo?

Improvvisamente, una mano ruvida mi circonda il polso strappandomi alla folla.

Per un attimo, uno soltanto, il flash distorto della testa riccioluta di Kael si piazza davanti a me e mi sembra di vedere i suoi occhi scuri. Poi sparisce di colpo.

Capelli biondi, occhi chiari é «Joel?».

«E’ tutto ok, adesso.»

Mi tiene stretta, premuta contro il suo petto. Sembra che le persone non lo sfiorino nemmeno. 

Cosa sta succedendo?

«Stavi avendo un attacco di panico.», mi dice. La voce ridotta ad un sussurro, pacata e amorevole.

«Come sei arrivato qui? M.C. ha detto che non dovevi lasciare il Ranch.»

«Ero preoccupato per te.»

Ho uno spasmo.

Anche se stretta fra le sue braccia mi sento più al sicuro che mai in questo momento, so che lui non dovrebbe essere qui e che ha rischiato di farsi ammazzare per raggiungermi.

«E’ notte,», mi separo da lui bruscamente, «-potevi farti ammazzare!».

I suoi occhi profondi e fumosi mi penetrano fino ad accarezzarmi il cuore «Non è successo, perciò non preoccuparti.»

Perché diavolo fai tutto questo per me, Jo?

Ho il magone allo stomaco. E’ tutto sbagliato, questo è sbagliato.

Rischio di trascinare Joel chissà in quale disastro se non ci do un taglio. Lui è troppo preso, prova molto più di quanto non provi io per lui e questo lo farà ammazzare un giorno o l’altro.

«Sei un irresponsabile!», il vociare è troppo convulso perciò grido, «E’ pericoloso girare di notte, lo sai!-» e poi esplodo battendogli un pugno sul petto. «Non posso perdere anche te! Non posso!».

Jo fa uno scatto con le braccia, così veloce da risultarmi impercettibile. Mi stringe come non ha mai fatto prima ed io, non curante di ciò che sto creando in lui, mi lascio andare alle lacrime.

E’ vero, non posso perdere Joel: ho già perso una persona che amavo e amo tutt’ora, perdere anche lui mi devasterebbe.

«Promettimi che non uscirai più di notte.», mormoro fra i singhiozzi. Sono pietosa, sto solo aumentando le sue aspettative.

Mima di no con la testa.

Non so quanto tempo resto abbracciata a lui, ma quando ci separiamo mi pizzicano gli occhi e la sua giacca di camoscio è umida vicino alla spalla.

«Cosa ti ha mandato a cercare, mio zio?»

«Medicinali.»

Mi passo il dorso della mano sotto l’occhio che mi prude di più e scaccio una lacrima.

«Ti do una mano a cercarli.»

Annuisco. Sto provando a sorridere ma ora che lui è qui, mi rendo conto che la paura di quello che può succedere è aumentata a dismisura.

Stiamo attraversando lo stadio girando fra le bancarelle, quando Joel aggrotta la fronte e improvvisamente, la sua espressione cambia.

«Perché eri da sola?», mi domanda.

«Ordini di Callum.». Calcio un sasso che rimbalza un paio di volte, ruzzolando poi, sotto una bancarella.

Adesso so cosa sta pensando: finita la missione, sicuramente, vorrà avere un tu per tu con suo cugino.

«Callum non c’entra, Jo. Lui vuole dare dimostrazione di essere all’altezza.» Le mie parole attirano la sua attenzione. «E’ colpa di M.C., gli ha sempre fatto pesare la questione dell’essere pronto al mondo qui fuori.»

«Lo so.» E’ terribilmente serio in volto.

«Gli ho detto mille volte che deve allentare la presa con Callum. E’ terrorizzato.»

Non riesco a mettere nella stessa frase “Callum” e “terrore” ma molto probabilmente, Jo ha ragione.

«Ciò che continuo a non capire è il motivo per cui tu, unica donna, sia stata mandata da sola a barattare medicinali.»

Faccio spallucce «Che importa?»

L’espressione di Joel è un misto di pensieri e parolacce che vorrebbe dire.

Sospiro e provo a sorridere: «L'ho fatto sfigurare per ben due volte oggi-», ammetto, «prima, quando ci ha fatto sbagliare strada per arrivare qui e dopo, con la guardia di questo posto.»

Il viso di Joel si rilassa appena da potergli permettere di sorridere «Se lo hai fatto, c’era un motivo.».

Sto per dire qualcosa ma la direbbe anche M.C. e perciò ingoio le parole stando zitta per qualche minuto.

«Quelle non ti sembrano medicine?».

Noto una bancarella più piccola. C’è un uomo che assomiglia molto ad un Marines dietro il tavolo posticcio ricco di scatoline bianche e boccette di plastica scura.

«Credo proprio di si.»

Joel ed io ci avviciniamo svelti e guardiamo meglio cosa c’è di esposto.

«Medicine?»

L’uomo annuisce.

«Quanto vuoi per quella?»

«Amoxicillina?»

«Si.»

«Una scatola di proiettili.»

«Ci avete fatto lasciare le armi fuori.», gli fa notare il biondo.

«Le armi, non i proiettili.»

Deduco subito che sono proprio loro la nuova moneta di scambio.

«No, non hai capito. La guardia lì fuori mi ha fatto lasciare tutto ciò che avevo nello zaino, proiettili compresi!»

Il venditore ambulante resta impassibile.

Lo vedo mimare un’alzata di spalle e guardare altrove un secondo dopo.

«Dannazione, mi stai ascoltando?»

I muscoli delle gambe di Joel si irrigidiscono, è pronto a sferrare un pugno a quel Marines se deve.

«Jo.», gli poso il palmo della mano al centro del petto «Jo! Lascia perdere.»

Joel guarda l’uomo poi guarda me confuso.

«Non credo che ci darà quello che vogliamo senza proiettili e francamente, non ci tengo a farmi buttar fuori senza Callum e gli altri.»

Joel deve concentrarsi parecchio per riuscire a prendere aria e allontanarsi dalla bancarella.

«A che gioco stanno giocando qui dentro?», protesta.

«Non lo so, ma mi sembra tutto molto strano.»

Dodgers ci ha fatto lasciare praticamente tutto fuori e siamo disarmati, senza neanche le poche provviste che M.C. ci ha dato per il viaggio.

«Dobbiamo cercare Callum e gli altri.», dico con una certa sicurezza.

«Saranno qui da qualche parte», Joel cerca di guardare oltre le teste parlanti dei sopravvissuti, ma cercare gli altri in questo marasma è come cercare un ago in un pagliaio.

«Vieni.»

La sua mano scivola nella mia e mi invita ad attraversare una lingua di terriccio non più coperta dall’erba sintetica, in direzione di una costruzione di legno.

Sembra un chiosco, c’è anche un’insegna dipinta a mano. 

«Magari qui dentro potremo chiedere informazioni-», mi spiega «quando sono arrivato, alcuni tizi le stavano chiedendo al barista.»

Afferro il battente posticcio di una fatiscente lastra di legno che funge da porta e proprio mentre alcune campanelle tintinnano sulla mia testa, da un interfono dello stadio, viene dettato qualcosa.

«Avviso per tutti i sopravvissuti ed acquirenti-», riconosco la voce, è quella del viscido. Sembra divertito mentre parla e il suo tono di voce lo fa sembrare fuori di testa più di quanto non lo sia già. «-le porte dello stadio si sono appena chiuse, perciò, chi è dentro è dentro e chi è fuori…Bè, ormai non c’è più.» gloglotta una risata «Per chiunque volesse un comodo posto letto, nella baracca 802 Austyn regala dolci sogni su veri materassi, affrettatevi!».

Joel ed io ci guardiamo atterriti. 

«Cosa? E’ uno scherzo?».

«Non credo proprio.» Ora lo vedo, è preoccupato.

«Ascolta Karina, dobbiamo trovare gli altri e uscire in qualche modo, questo posto non mi piace per niente.»

«Io non azzarderei nulla, al posto vostro.» La terza voce fra di noi appare all’improvviso da dietro la porta posticcia. Ci voltiamo.

E’ un uomo anziano a parlare: abito elegante di colore nero, capelli lunghi sulle spalle, bianchi e sporchi.

«Chi diavolo sei?», gli domanda Joel bruscamente.

«Joel!», spalanco le palpebre. Dobbiamo cercare di non dare nell’occhio e rispondere in maniera aggressiva non è esattamente il modo migliore per non finire nei guai.

«Già-» guarda di nuovo l’uomo «scusa.»

L’anziano sghignazza e tossisce contemporaneamente.

«Sono Austyn».

L’Austyn dell’interfono.

«L’affitta camere?»

Annuisce.

E’ strano che si rivolga solo a Joel, ma cerco di non dargli importanza.

«Se proverete a scappare, spegneranno le luci UV che si riflettono sulla strada.»

Alzo lo sguardo e le vedo dentro e fuori dall’edificio.

«Qui dentro siete al sicuro, per lo meno, se non decidete di cercare guai. Sapete, le facce nuove, qui dentro, non piacciono a nessuno.» Ci fa l’occhiolino.

Jo aggrotta la fronte «Immagino quindi, che per non averne dovremmo alloggiare da te.»

Ride di nuovo.

«Si, ma siccome mi sembrate due persone a posto-» ci invita a seguirlo, con il gesto di una mano, dentro la baracca «vi affitterò una stanza gratis.»

Quello che vedo quando entro è il bancone di un bar, un paio di sgabelli e diverse bottiglie senza etichetta con liquidi di colori diversi.

«Affitta camere e barista…Però! Quello che fa un’apocalisse non lo fa una vita intera.»

Austyn mi guarda e sorride mostrando un fila di denti gialli.

«Sono tempi duri, ci si reinventa.»

Seguiamo l’anziano dietro una seconda porta. Noto che trascina una gamba e si caracolla a fatica. E’ magro, emaciato e ad occhi e croce anche ubriaco fradicio.

«Dobbiamo per forza?», bisbiglio all’orecchio di Jo.

«Dammi solo un po’ di tempo per capire come muoverci.»

La baracca è abbastanza grande da ospitare tre stanze da letto. Una è libera, mentre dalle altre si sente di tutto e non sono suoni o rumori piacevoli.

Austyn sorride quasi imbarazzato «Non sono insonorizzate, ma mi adopererò per migliorarle.»

Piega una maniglia intagliata nel legno e ci indica una torcia ad olio.

«E’ già pronta, vi basterà un accendino.»

Per fortuna ne ho uno, cappello dei Dodgers non se l’è tenuto.

«Grazie Austyn.», gli dico.

Lui piega il capo per un attimo e abbozza un altro sorriso sdentato.

Joel raggiunge velocemente la torcia e gli porgo l’accendino.

Non c’è nulla nella stanza se non una vecchia rete cigolante, un materasso logoro e una cassapanca accanto ad esso.

Schiaccio le labbra tra di loro, vorrei commentare tutto questo ma non mi escono le parole.

«Non è sicuramente Capen Hocks.», mormora Jo mimando un sorriso stentato. Affonda a sedere dalla sua parte di letto e si toglie la giacca.

«Quel posto mi ha viziata.».

Faccio lo stesso e abbandono il piumino sul pavimento, poi ci sdraiamo entrambi.

Per un momento restiamo tutti e due in silenzio a fissare il soffitto. Ho mille pensieri per la testa e per la prima volta mi rendo conto che non sto pensando al passato.

«Mi è mancato condividere il letto con te.», dice quasi sottovoce, all’improvviso.

«Anche a me, ma resto dell’idea che hai ragione Jo, è meglio stare lontani per un po’.»

Non ho il coraggio di voltarmi e scoprire che espressione ha il suo viso. Lo sento sospirare sommessamente.

Ci sarebbero così tante cose da dire, da chiarire, ma proprio non riesco a parlare. Qualsiasi pensiero adesso è sconnesso.

Joel allunga una mano verso la mia testa e infila le dita fra i miei capelli, giocherellandoci.

Non riesco a chiedergli di smettere.

«Lo rifarei altre mille volte…Venirti a cercare, intendo.»

Solo adesso, ruoto su un fianco e lo guardo.

«Non voglio che tu venga a cercarmi.»

«Lo so.»

E’ così triste. 

Se solo non fossi così disperata.

«Continuo a ferirti nonostante tu faccia qualsiasi cosa per me.», ho un groppo in gola, «Perché lo fai? Perché ti fai del male?»

Incrocia il suo sguardo al mio «Perché sento che è la cosa giusta da fare», fa una piccola pausa e poi riprende «Credi che non sappia che usciti da questo posto, tu prenderai il tuo cavallo per tornare chissà dove?».

Sento gli occhi pizzicarmi perché è proprio ciò che ho pensato di fare in segreto.

Fa spallucce «So come sei, so quello che ti passa per la testa e so che c’è quel fantasma che ti perseguita. Ormai l’ho capito.»

Ruota su un fianco anche lui ed ora il nostro viso è a un palmo di distanza «Ma questo non mi impedisce di amarti lo stesso, anche se tu non ami me.»

Con il cuore a mille, faccio l’errore più stupido che posso commettere in un momento come questo: lo bacio.

Ed è il bacio più disperato che io gli abbia mai dato.

Uno di quei baci che grida “aiutami” ma che lo grida alla persona sbagliata.

Senza tradire le emozioni, gli salgo cavalcioni sopra.

Lui si tira leggermente su con la schiena e la sua mano mi scivola lungo la spina dorsale risalendola fino ad intrecciare le dita fra i capelli.

Ho un sussulto di piacere quando mi bacia scendendo lungo il collo.

C’è meno rabbia, meno tensione adesso ed è bellissimo sedergli in grembo quando il nome di Kael non esce dalle nostre bocche.

«Non sei costretto a farlo se pensi che questo peggiorerà le cose.», mormoro contro la sua bocca.

«Credo sia un po’ troppo tardi per pensare a questo.»

Mi viene da sorridere: una curva spontanea delle labbra che non comando.

Non mi sto chiedendo perché sia io a sfilargli il maglione e sia sempre io a chiedergli di fare lo stesso con ciò che indosso. Non voglio pensare.

Se questa è la fine del mondo, se ho già perso chi amo, voglio mettere il cervello in off e vivere ogni singolo istante che mi resta.

Rimango a fissarlo per un secondo: il torace allenato e tutte le cicatrici che questo inferno in terra gli ha inferto.

Ha un ciondolo legato con una corda di caucciù. Una pietra celeste come i suoi occhi.

«Era di tua madre?»

Annuisce.

«Non sei l’unica che non riesce a separarsi dai fantasmi», indica la piastrina con il nome di Kael.

Per un istante, mi vergogno. Non voglio che quello che sta per succedere sia impresso nella sua mente insieme allo scintillio di questa medaglietta.

Respiro affondo e infilo le dita fra la pelle e la catenina di acciaio. Me la sfilo.

Le palpebre di Joel si spalancano inavvertitamente.

Non riesco a dirgli che lo faccio per lui, per correttezza e perché c’è una parte di me che lo ama, davvero.

L’abbandono sul materasso e torno a baciarlo.

Mi sfilo i pochi indumenti che ancora indosso e scopro che la sensazione di essere nudi, il contatto della nostra pelle, suscita in me mille emozioni diverse e contrastanti.

Mi solleva leggermente e mi sento riempire quando mi abbassa su di sé.

Tengo gli occhi socchiusi e muovo lentamente i fianchi, cercando di alleviare la pressione. Non è di certo la prima volta che ho un rapporto con qualcuno, eppure, ogni volta ho l’impressione che sia la prima.

Emette un gemito di piacere e si scusa, mi promette di lasciarmi un po’ di tempo per abituarmi. Non so quanto tempo passa, ma poi ricomincio a muovere i fianchi. Più mi muovo più il fastidio si allevia e con esso il timore e il senso di colpa. Joel mi tira più vicina a sé. Gli poso una mano sul petto e continuo a muovermi così.

Tengo gli occhi aperti per poter continuare a guardarlo; ha la fronte imperlata di sudore.

Vederlo così, con il labbro stretto fra i denti, gli occhi fissi sul mio viso tanto che sento il suo sguardo bruciarmi addosso, è travolgente.

«Sei tutto per me. Non posso perderti», dice, mentre gli bacio il collo e la spalla. Ha la pelle salata, umida, perfetta. 

Mi si stringe lo stomaco e tradendo i miei pensieri, aumento la velocità.

Joel non è uno stupido, si accorge subito del mio disagio.

Mi costringo a non piangere: è già successo dopo essere tornata dal bosco.

Non voglio separarmi da lui e non voglio rovinare questo momento.

Infilo le dita dietro la sua schiena, conficcando le unghie nella pelle delle sue scapole. Jo geme ancora e mi accarezza la schiena.

Che sto facendo?

Sappiamo entrambi come andrà a finire: io non resterò al suo fianco.

Magari non fuggirò a cavallo uscita da questo posto, ma di sicuro lo farò dopo aver raggiunto la Jeep di Mel.

Devo ispezionare quell’auto, assolutamente.

I nostri gemiti si intrecciano ai nostri corpi mentre raggiungiamo il culmine insieme.

Non ora, Karina. Scaccio violentemente il pensiero.

Joel si lascia ricadere all’indietro sul materasso e io con lui.

«Fa attenzione, Karina.», ha il respiro affannato.

Vorrei potergli dire di non preoccuparsi ma sarebbe superfluo.

«Non posso assicurarti che sopravviverò, ma combatterò perché questo accada.»

Lo sento irrigidirsi per un solo istante anche se continua ad accarezzarmi la testa intrecciando le dita ai fili scuri dei miei capelli.

Gli appoggio la testa sul petto e sento rallentare progressivamente il battito del cuore.

Ci addormentiamo così, ignorando se l’indomani ci saremmo rivisti.



































 

 











 

 

   
 
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