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Autore: blackjessamine    29/01/2023    3 recensioni
[Alex Stern (La Nona Casa)]
[Alex Stern (La Nona Casa)][Abel Turner/Pamela Dawes]
I Grigi.
Fantasmi.
Impronte di persone morte.
Cose che non dovrebbero esistere fuori da un libro dell’orrore, ma che a quanto pare sono ovunque.
O almeno, così dicono loro. Quel gruppo di ragazzini idioti che si divertono a giocare con ciò che non dovrebbe neanche essere, che fanno solo errori, si ritrovano le mani piene di merda e chiamano Turner a cercare di pulire.
La puzza rimane sempre.
[Storia candidata agli Oscar della Penna 2024 indetti sul Forum Ferisce la Penna]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Darling, I hug a pillow




 

I Grigi.

Fantasmi. 

Impronte di persone morte.

Cose che non dovrebbero esistere fuori da un libro dell’orrore, ma che a quanto pare sono ovunque. 

 

O almeno, così dicono loro. Quel gruppo di ragazzini idioti che si divertono a giocare con ciò che non dovrebbe neanche essere, che fanno solo errori, si ritrovano le mani piene di merda e chiamano Turner a cercare di pulire.
La puzza rimane sempre.

 

Turner se la sente addosso in ogni momento: era solo un vago alone che poteva allontanare assieme al sonno con uno spruzzo di dopobarba, prima. Prima che tutto andasse a puttane, prima che le Società si aprissero come frutta marcia lanciando fuori da sé polpa putrida e segreti scadenti.

Prima che Darlington se ne andasse all’Inferno – letteralmente, cazzo –e la Stern lo costringesse a rimestare merda con le braccia immerse nello schifo fino ai gomiti. Non letteralmente, stavolta, ma Turner preferirebbe quello a detenuti che passano attraverso i muri e sciacalli fantasma e un altro fottutissimo cadavere.

 

I Grigi.

Quegli stronzi sono ovunque, lo sa. Turner non voleva sapere, non voleva ascoltare, ma lo ha fatto, e ora sa che ogni volta che va a pisciare probabilmente un idiota con il cranio sfondato se ne sta seduto sul davanzale della finestra a godersi lo spettacolo.

Sa anche che ci sono luoghi schermati, dove i Grigi non possono entrare, ma  non ha idea se la casa della Dawes sia uno di questi luoghi. Non lo sa e non lo vuole chiedere.

Se un guardone di duecento anni fa si è divertito a vederlo scopare con la Dawes, buon per lui.

Turner non ci vuole pensare.

E non vuole neanche pensare a come sia arrivato lì, e a cosa abbia fatto con la Dawes.

L’Oculus.

Quella figura così silenziosa, un’immagine sfocata sullo sfondo della Lethe, pelle di latte rancido e vestiti così sbiaditi e sformati da fargli credere che, forse, una Grigia lui l’abbia vista davvero.

 

Cristo santo, Turner.

 

In un certo senso, però, la Dawes per lui un fantasma lo è sempre stata. 

Una figura di sfondo, un intermediario di cui non ha mai avuto bisogno. Di cui forse non ha mai neanche sentito la voce, prima di quel casino.

Eppure, c’è sempre stata.
Stretta nelle sue cuffie, barricata dietro i suoi foglietti, intenta a servire panini al cetriolo e zuppe al limone a Darlington.

O a preparare bagni di latte e stregoneria per curare le ossa rotte della Stern.

O a servirgli dell’ottimo tè aromatizzato alla tempesta di fulmini.

 

Cazzo, Turner.

 

Forse quello è stato il momento in cui l’ha vista per la prima volta, il labbro sbiancato sotto l’assalto nervoso dei suoi denti, le mani pallide a versare con precisione acqua e tempesta attraverso un colino d’argento.

 

L’ha vista anche accanto alla Stern, alla fine di tutto, quando ha trovato da qualche parte la forza di andare fino in fondo.

 

L’ha vista con i capelli incrostati di sangue e lo sguardo totalmente assente che Turner ha dovuto imparare a conoscere bene. L’ha rivista in un letto d’ospedale, i capelli per una volta sciolti sotto le bende che le avvolgevano la testa, ma non le ha rivolto la parola. 

Sperava di non rivederla più, quando ha saputo che si era rifugiata dalla sorella. 

 

E invece è tornata.

Per andare all’Inferno a salvare il culo di Darlington.

Perché quest’idea gli dia tanto fastidio, Turner non vuole neanche chiederselo. Forse perché la notte appena trascorsa è stata tutta sbagliata, perché finita l’adolescenza Turner sperava di poter chiudere il capitolo scopate imbarazzanti di cui prego nessuno si ricorderà, ma almeno non c’è stata puzza di merda.
La casa della Dawes odora di deodorante per l’ambiente dozzinale, ma umano. Le sue lenzuola di ammorbidente mescolato al sudore di due persone, il suo alito di caffè.

Niente salvia, niente marcio, niente zolfo, niente stranezze, niente stomaco rivoltato.

Solo umanità.

 

Turner si solleva a sedere, la luce polverosa dell’alba che restituisce un po’ di contorni a quel loculo di stanza. Decisamente, la Dawes non dev’essere nelle pagine più interessanti del libro paga della Lethe.

 

Se non posso sottrarmi a una scopata imbarazzante, pensa Turner, posso almeno sottrarmi all’imbarazzo del mattino dopo.

I suoi vestiti sono gettati ai piedi del letto, e lui immagina di infilarseli piano, o di non infilarseli affatto: cacciarseli sotto il braccio, trovare la stanza più lontana dalla camera da letto e vestirsi lì, pregando che la Lethe paghi il suo Oculus abbastanza da permettersi una casa senza coinquilini.

Non è esattamente da gentiluomini filarsela all’alba senza neanche una parola, ma sospetta che anche la Dawes preferirebbe così.

E se volevi un gentiluomo, dovevi scoparti Darlington, si trova a pensare con un ringhio, e per qualche motivo quel pensiero lo irrita.

 

E poi, Turner fa un errore grossolano: si volta verso il corpo con cui ha diviso il letto. E si trova a fissare una schiena avvolta in una felpa sformata.

L’ultima volta che ricorda di aver visto la Dawes, lei era decisamente nuda. E i suoi capelli erano decisamente sciolti, non raccolti in quel nodo informe che anche ora sembra fissarlo minaccioso. Giudicante, anche.

 

Cazzo,  Turner.

 

Lei dev’essersi svegliata, ma ha evitato di scappare via come una ladra.

Scappare da casa propria dev’essere troppo anche per lei.

Turner si alza in silenzio, deciso a cancellarsi dalla mente anche quell’ultima immagine della schiena della Dawes.

“Non preoccuparti di fare piano, tanto sono sveglia”.

Turner si volta di scatto, le mani già intente a rivoltare la stoffa dei suoi vestiti in cerca delle mutande.

La Dawes è immobile, continua a dargli la schiena.

 

Una scopata imbarazzante, sì, ma non così tanto, Dawes.

 

“Ok”, si trova a mormorare lui, sentendosi un perfetto idiota.

“Se vuoi, in cucina ho frutta e cereali. Puoi fare colazione”.

Non, possiamo fare colazione.

Perché ovviamente nessuno dei due ha intenzione di fare colazione insieme, né ora né mai. E Turner non sa se apprezzare la schiettezza della Dawes o risentirsi per quel totale rifiuto.

Nemmeno lui vuole un confronto, ma così è… è assurdo anche per un poliziotto che lavora a fianco degli acchiappafantasmi.

 

“Ok”, mormora di nuovo.

Infila i pantaloni, non trova da nessuna parte il calzino sinistro.

“Hai mai ucciso qualcuno?”
 

Porca troia, Dawes.

 

La Dawes ora è seduta sul letto, ma continua a non guardarlo. Le sue stupide cuffie si sono materializzate di nuovo attorno al suo collo, e lei ha lo sguardo perso nel vuoto davanti a sé.
È concentrata.

Non terrorizzata come la notte in cui lui l’ha trovata rannicchiata davanti al cranio sfondato di Blake Keely.

Solo concentrata.

Poi il suo sguardo si sposta su di lui: le sue palpebre sbattono due volte, come lancette di un orologio rotto.

“Giri con una pistola, no?”

“Sono un detective”.

“Hai mai ucciso qualcuno?”
Lo ripete, questa volta fissandolo.

Turner chiude gli occhi, tiene lontani i lampi di luce – il dolore, immagini sfocate, immagini con troppa luce, la concitazione, tutto ciò che non può uscire dall’ufficio e varcare la soglia della sua vita privata.

“Che cazzo, Dawes, non ho intenzione di parlarne adesso”.

Non ho intenzione di parlarne.

“Blake… io continuo a sognarlo. Ogni notte”.

Turner esita.

Dovrebbe consolarla? Sedersi accanto a lei, metterle una mano sulla spalla e dirle… che cosa? Che diventerà una vecchia sola e mezza pazza, ossessionata dal pezzo di merda che ha ucciso con un busto di marmo?

Forse dovrebbe.

“Perché sei tornata in mezzo a questo schifo?”, le chiede invece.

Allarga le braccia, cercando di andare oltre quell’appartamento in cima a delle scale che puzzano di piscio di gatto. Cerca di abbracciare in un gesto solo Yale, la Lethe, le Società, New Haven, tutto.

Le palpebre della Dawes sbattono ancora. Una, due, tre volte, come lei cercasse parole abbastanza semplici per spiegare una verità tanto evidente a qualcuno come Turner.

“E dove altro dovrei andare?”
Ovunque.

“Da tua sorella. A New York. In Spagna, dove cazzo di pare, ma non qui”.

In Spagna, di tutti i posti.

“In Spagna con Darlington?”
Questa volta c’è un lampo nel suo sguardo solitamente annebbiato – rabbia? Dolore?

Forse Turner vorrebbe scoprire di più di quel dolore. Scoprire perché quella ragazza che per anni si è accontentata di restare sullo sfondo ora sia tanto decisa a rischiare qualsiasi cosa per andare all’inferno a riprendersi l’ennesimo coglione che ha giocato con cose più grandi di lui, ma non ora. 

“La tesi la puoi scrivere dove ti pare, puoi…”
Una risata amara emerge dalla gola della Dawes, ed è forse il suono più vivo che Turner le abbia mai sentito emettere – anche più dei gemiti della notte scorsa.

“La tesi. La tesi di Penelope, certo”.

Turner è confuso, e per un attimo ha paura di essere un detective (e un uomo) così patetico da non ricordare nemmeno che la Dawes si chiama davvero Pamela, non Penelope.

“Non ti capisco”.

“Non importa”, mormora la Dawes, la schiena di nuovo appoggiata alla testiera del letto, lo sguardo fisso al soffitto e le braccia strette attorno al cuscino.

 

È un congedo, Turner questo lo sa, e lo accoglie con gioia, senza neanche guardarsi indietro. 

 

Non si guarda indietro nemmeno quando si chiude alle spalle la porta di quell’appartamento, né scendendo le scale maleodoranti. Non lo fa sul portone della palazzina, ma quando attraversa la strada e l’aria carica di primavera di New Haven lo investe, non si trattiene. 

Alza lo sguardo, percorre rapidamente il susseguirsi di finestre buie e si ferma lì, al terzo piano. Sulla tenda scostata e il viso pallido che a stento riesce a scorgere, contornato da una cascata di capelli sorprendentemente rossi, ora di nuovo sciolti.

Su una mano che si muove in un un minuscolo cenno di saluto.

 

Cazzo.





 

 


 

Note:

Uhm, dunque, dubito che ci sarà davvero qualcuno a leggere queste note, ma nel dubbio, le lascio qui.

Sì, Turner e la Dawes. No, non ho giustificazioni. Sì, credo davvero che il loro rapporto sarebbe estremamente interessante, e spero di riuscire ad approfondirlo, un giorno.

Così come spero di riuscire ad approfondire quello che io penso del rapporto tra Darlington e Pammie, ma considerando che ho iniziato solo oggi “Hell Bent” (niente spoiler, per favore!) e ho il vago sospetto che lì le cose prenderanno una piega diversa, quindi chissà, forse non lo farò mai.

Vorrei anche approfondire moltissimo il personaggio della Dawes, del suo rapporto con la Lethe, con la tesi, con tutto quanto, ma valgono le stesse considerazioni di prima. 

In tutto ciò, sarebbe molto divertente se Turner o Pamela o addirittura entrambi crepassero male in Hell Bent, ma dal momento che sono i miei personaggi preferiti e la Bardugo è bravissima a fare queste cose con i miei personaggi preferiti, me lo aspetto anche (e lo scrivo qui perché almeno tra una settimana quando avrò finito il libro potrò tornare a leggere queste note e a ridere istericamente).

In ogni caso, unica nota davvero necessaria: il titolo della storia è tratto dall’omonimo brano di Morrissey, perché per me ormai la Dawes ha solo lui come colonna sonora.

Insomma, grazie a chiunque arrivi fino a qui!




 

   
 
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