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Autore: ConstanceKonstanz    29/01/2023    0 recensioni
Questa storia inizia nel passato.
In un mondo diverso dalla Terra, più freddo della Terra, più piccolo della Terra.
Dove abbiamo imparato a lavorare il ghiaccio, a usarlo come arma, come sostegno per le case. Dove la pioggia non è acqua, ma un tesoro da conservare. Dove la neve è più di un elemento: è una pietra preziosa. Dove il nostro nemico maggiore è ciò che ha permesso ai vostri antenati di sopravvivere: il fuoco.
Questa storia inizia nel Mondo del Natale.
Ed inizia con un nome.
Quello della mia nemica, o dell’unica persona che abbia mai conosciuto veramente: Dinah.
Genere: Avventura, Fantasy, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 12
LA MORTE E L’OBLIO
Non riuscì mai a terminare la frase perché qualcosa lo distrasse.
Si tastò in tasca ed il suo sguardo si illuminò.
“Ho trovato!” esclamò, stringendo una bomboletta grigia.
Lo guardai preoccupata, mentre la strada si avvicinava sempre di più. “Che cosa?”
Era questione di secondi prima che ci sfracellassimo a terra. Ma Nick non sembrava rendersene conto. Guardò in basso.
“Dobbiamo andare più veloci!” urlò guardandomi, come se io avessi potuto fare qualcosa al riguardo. “Abbracciami!”
“Che cosa?!”
“Abbracciami, così cadremo più velocemente!”
Era la cosa più pazza che avessi mai sentito, ma era anche l’ultima cosa avrei mai sentito, per cui lo feci.
La caduta durò ancora qualche secondo, l’aria mi sferzava il volto. Nick, alle mie spalle, era teso. Guardava suo padre con attenzione, si rilassò solo quando lo superammo. Io tenevo lo sguardo fisso sulla strada. Era questione di una manciata di metri, ormai. Sentii Nick tremare e lo abbracciai più forte, pronta all’impatto.
“Ora!” Ringhiò lui puntando la bomboletta verso terra.
D’improvviso, un’ondata di vento polare mi bruciò la schiena. Un vortice di migliaia di fiocchi di neve uscì dalla bomboletta di Nick e andò a formare una soffice cunetta a terra. Ci piombammo dentro.
Risi. Risi non appena compresi il piano di Nick, risi e mi lasciai che la neve mi bagnasse le braccia, i capelli e non avrei potuto  essere più felice. Nick ,accanto a me, sembrava frastornato, tremava, mi guardava, ma non sembrava riconoscermi.
“Siamo vivi!” gli urlai in faccia “Vivi!”
Lui annuì. Si voltò in tempo per vedere suo padre schiantarsi nel cumulo. A quel punto, Nick mutò espressione e scoppiò a ridere così forte da cadere all’indietro.
“Lo siamo!” esultò, alzandosi in piedi e cadendo un secondo dopo. Nella confusione della caduta aveva perso le stampelle. “Siamo vivi Siena!” mi attirò a sé e cercò di sollevarmi in aria.  Risi ancora più forte e le risate si mischiarono alle lacrime.  Il sollievo divenne ansia, quasi isteria. Per quanto ancora sarei riuscita a sfuggire alla morte?
Abbracciai Nick tentando di calmarmi, ma tremavo.  Attorno a noi le macchine sfrecciavano ad una velocità impressionante, nessuno sembrava essersi accorto di noi.
“Che cos’era quella?” Domandai, accennando alla bomboletta.
Lui scosse le spalle “Era un esperimento a cui aveva lavorato mio padre un po’ di tempo fa. Avrebbe dovuto produrre tempeste di neve per attirare il big foot, ma non si è mai andati oltre il prototipo”
“Beh, qualunque cosa fosse, ci ha salvati” lo fissai “tu ci hai salvati Nick”
Lui tossì imbarazzato, ma una luce orgogliosa brillava nei suoi occhi. “E’ stata Rosa a darmelo”  borbottò  
A quelle parole, sentii il mio cuore farsi pesante.
Ma il padre di Nick ci interruppe. “Sei stata tu” sibilò indicandomi.
Io indietreggiai.
“Sei stata tua farci cadere! Come hai iniziato a canticchiare, io mi sono sentito strano ed un secondo dopo eravamo in caduta libera!” Muoveva le mani come se non potessi crederci, scuoteva la testa e teneva gli occhi fissi nel cielo.
Non capivo cosa volesse, ma mi sentivo in pericolo. Nick, accanto a me, tentò di alzarsi.
“Sei ancora più potente di quello che credevo!” esclamò il padre, estraendo una specie di scatolina blu dalle sue tasche -I Grace erano pieni di risorse- “Per questo non correrò il rischio di perderti una seconda volta”
Toccò la scatolina e un ronzio sinistro si diffuse nell’aria.
“Quella è una pistola elettrica!” urlò Nick, agitandosi. Qualcosa, nel suo tono, mi fece sospettare di essere in pericolo. 
“Non ti preoccupare, figliolo. La stordirà e basta, ma non possiamo permetterci il lusso di un altro giochino come quello di prima, vero?” continuò sorridendomi.
Rabbrividii. “Lei è pazzo”
Lui si immobilizzò, la mano che reggeva la pistola tremò. “Pazzo?” sibilò “Pazzo io? Io che credevo in te?”
Nick, accanto a me, mi sfiorò il polso. “Scappa, capo”
“Pazzo!” gridò il padre di Nick ed il suo grido mi perforò il cuore  “Visionario, semmai, ma pazzo mai. Io sono il più grande scienziato di tutti i tempi! E tu, tu sei il mio biglietto di riscatto. Vieni qui, piccola” proseguì, brandendo la pistola elettrica “Non sentirai tanto dolore, te lo prometto” E prima che potessi replicare, Aldobraldino si lanciò su di me.
“Scappa Siena!” urlò Nick nello stesso istante, frapponendosi tra me e suo padre.
Lo vidi, lo vidi spiccare il salto e chiudere gli occhi, vidi lo sguardo di suo padre passare dalla follia all’incredulità. Vidi la pistola bruciare il petto di Nick, sentii un ronzio fastidioso diffondersi  nell’aria.
Nick cadde a terra, esamine.
Suo padre si fermò.
Lo guardò.
Poi, iniziò a tremare.
Tentò di gridare, ma la voce gli morì in gola, si guardò le mani e alla vista della pistola, sobbalzò e l’allontanò da sé.
Mi guardò. Non sembrava vedermi. Iniziò a piangere, nascose il volto nel petto del figlio.
“Nick” chiamò disperato “Nick …”
Le lacrime rigavano il suo volto e bagnavano la maglia di Nick. Suo padre tremava, mentre le persone attorno a noi iniziavano a fermarsi, urlare, bisbigliare. Qualcuno chiamò la polizia, altri l’ambulanza.
“Avevo regolato la pistola ad un livello troppo alto … era regolata per lei” singhiozzava “Per lei …”
Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma cercai di respingerle. Allungai una mano verso quella di Nick e gliela strinsi. Fu allora che sentii qualcosa di sottile tra le sue dita fredde. La presi e con dolcezza, la guardai. Era un foglietto bianco, spiegazzato, di quelli che solo poche ore prima avevo trovato in camera sua. Nel centro, a chiare lettere, si leggevano due parole: Ground zero.
Sobbalzai al ricordo del passaggio e del mio mondo, al ricordo di una vita che non mi era mai sembrata più lontana.
Ma Nick aveva creduto, aveva creduto fermamente in quel piano ed in me, aveva fatto la tacita promessa di riportarmi a casa e aveva dato la sua vita perché io potessi salvarmi.
Ricordai le parole di Bianca in un vortice confuso di emozioni, ricordai cosa aveva detto di quel mondo e come mio padre avesse voluto tenermi lontana, anche a costo di sacrificare il suo popolo. Per la prima volta in vita mia, lo vidi per quel che era. Per la prima volta, vidi mio padre come un uomo e non come un eroe. Riconobbi nel suo sguardo fiero e nel suo passo deciso, l’ombra della paura e dello sbaglio. Mio padre, il re del mio mondo, il valoroso guerriero, non era altro che un uomo. Un uomo che aveva compiuto scelte sbagliate e che ,per certi versi, era simile al padre di Nick.
Ma fu quest’ultimo pensiero a darmi la spinta necessaria.
Dovevo cambiare le cose.
Lo dovevo al mio popolo e lo dovevo a Nick.
Dovevo tornare a casa.
A casa avrei aggiustato tutto.
Casa era dove le cose si sistemavano.
Casa era dove sarei stata salva.
Dove i miei genitori sarebbero stati salvi.
A casa sarei stata al sicuro.
Dovevo tornare a casa.
Mi alzai e strinsi forte il foglietto, poi, malferma sulle gambe, corsi via di lì.
 
Corsi a perdifiato per le strade di New York. Avevo un vuoto allo stomaco che mi intimava di non fermarmi. Superai vie, persone, palazzi. Le vedevo scivolare accanto a me come ombre indistinte. Se mi persi, non lo ricordo. So solo che a un certo punto, quando ormai i polmoni erano sul punto di collassare e la gola mi bruciava ad ogni respiro, sbucai su di una piazza aperta e densa di tristezza. E capii di essere nel posto giusto. I volti delle persone portavano con sé i segni inequivocabili di un lutto. I bambini non correvano, le madri non sorridevano, i padri non richiamavano. Tutti tenevano lo sguardo basso, le mani intrecciate, si muovevano in silenzio o parlavano sottovoce. Passavano accanto ad una rete metallica e lasciavano cadere fiori o biglietti. La neve ricopriva tutto, cercava di mascherare anche quelle immense macerie che erano molto più visibili ora, di quando avevano svettato su tutte le loro teste. Con cautela mi avvicinai. Avrei desiderato avere qualcuno accanto a me per avere la certezza di essere viva, ma l’unica cosa che mi accompagnava era il biglietto di Nick e lo strinsi con tutte le mie forze. Cercai di individuare dove sarebbe apparso il passaggio, provai a concentrarmi. Sperai che un segnale, un bagliore o un suono, mi avrebbero aiutata, ma non sentii niente. Intanto, le prime stelle erano apparse in cielo. La piazza iniziò a svuotarsi, ma rimanevano ancora molte persone. Per lo più, stavano immobili, di fronte alla rete e la fissavano. Fissavano cosa c’era dietro, le macerie. Mi resi conto che, come me, erano alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che non volevano rassegnarsi a lasciar andare. D’improvviso un movimento attirò la mia attenzione. Mi voltai ed avvertii un sibilo che mi fece accapponare la pelle. Sobbalzai, ma non distinsi nulla di strano. Sbuffai e tornai a concentrarmi sulle macerie.
Fu proprio allora che la vidi.
Stava seduta su un pezzo di cornicione e mi guardava. I suoi occhi fiammeggiavano di rabbia. Una rabbia antica che già una volta aveva divorato il mondo. Era più grossa delle altre volte, il corpo più snello ed il viso più tondo. I capelli ricadevano morbidi sulle sue spalle fino a sfumare nella gonna, nella mani, in una nebbia densa come la notte.
Era bella ed immensamente spaventosa.
Tentai di gridare, ma la voce mi morì in gola.
L’ombra mi sorrise.
Un sorriso diabolico che rischiò di uccidermi in tanti modi. Puntò le mani sulla roccia e con un movimento aggraziato si avvicinino a me. Prova ad indietreggiare, ma una forza invisibile mi inchiodò sul posto.
 L’ombra fissò il suo sguardo nel mio e fu come bruciare dall’interno.
Caddi e terra e sentii l’aria mancarmi. Lei sorrideva e più il suo sorriso si allargava, più io sentivo il mio cuore fermarsi. Un fuoco inestinguibile scorreva nelle mie vene, faceva ribollire il mio sangue, avviluppava le gambe, le braccia, la gola, i capelli. Cercai conforto nella neve, la strinsi, la bevvi, me  la passai su tutto il corpo, ma quella si sciolse un attimo dopo. Iniziai a sudare, tentai di oppormi a quella fiamma, ma non riuscivo a pensare chiaramente.
 Ecco perché quando sentii una voce chiamare il mio nome, quando mi sembrò di distinguere Maria tra i milioni di puntini che danzavano nei miei occhi, pensai di stare sognando. Rantolai qualcosa, ma dal sguardo capii che vedeva anche lei l’ombra e come me, ne era spaventata. Tentai di andarle in contro, ma non riuscii. Lottavo contro le fiamme, ma era una resistenza sempre più disperata.
Poi, proprio quando mi ero sentita vicino alla fine, l’aria tornò ad accarezzare il mio viso, nei miei polmoni. Sentii il fuoco abbandonarmi e la neve stringermi dolcemente. Gradualmente i miei occhi tornarono a vedere, i miei muscoli a rilassarsi. Mi guardai attorno e incontrai lo sguardo di Maria. Era in piedi, tremante e teneva un coltello tra le mani, ma era lei.  Davanti a me.
“M-maria …” chiamai.
Lei scosse la testa e rinfoderò il coltello. Ero felice di vederla. Più che felice e se ne avessi avutole forze, l’avrei abbracciata, ma riuscivo a malapena a muovermi. Lei sembrò accorgersene.
“Riesci a muoverti?”
Annuii, ma quando provai a rialzarmi, emisi un gemito di dolore.
“Lascia che ti aiuti” ordinò dolcemente e con un movimento veloce, si avvicinò e  mi rimise in piedi. “Appoggiati a me finché non recuperi le forze”
 
Quando mi fui totalmente rimessa, iniziarono le domande. Ma io non avevo risposte. Non sapevo dove fosse il passaggio, né cosa fosse quell’ombra, non sapevo dov’era andata, né se ne fosse davvero andata. Sapevo solo che Nick era morto, che Nico e Dinah mi avevano abbandonata e che io volevo tornare a casa. Le mostrai il biglietto di Nick e le spiegai come ci fosse arrivato. Lei ascoltò tutto il tempo, lo sguardo fisso sulle macerie.  
“Sai perché sono qui?” domandò.
Io seguii il suo sguardo. “Perché vuoi farti perdonare”
“Ho bisogno di ottenere il loro perdono, in qualche modo. Devo riuscirci. Solo così potrò scacciare i miei fantasmi”
“Credo che sia la battaglia più dura di tutte” sussurrai “E che non si vinca mai del tutto”
Lei mi lanciò uno sguardo indecifrabile.
Io mantenni lo sguardo sulle macerie. “Significa che mi aiuterai?”
“Sì”
Eravamo vicine. E per un attimo, mi sembrò di riconoscere il suo profumo. Ma nello stesso istante Maria si allontanò ed io tornai ad osservare la piazza. Era semideserta ormai.
“Manca poco alla mezzanotte” mormorò Maria.
Ed il passaggio non si era ancora rivelato.
Cercai conforto nel suo viso.  
Lei si limitò a stringersi nelle spalle. “Alle volte, bisogna solo avere fede”
Non risposi e tornai ad osservare le macerie. Fissai la mia attenzione sul cornicione su cui l’ombra era apparsa poco prima e un brivido mi attraversò la nuca.
Un’intuizione improvvisa.
Era quello il posto, il portale sarebbe apparso lì.
Inconsciamente mi aggrappai alla rete.
“Siena?” domandò Maria.
“E’ lì”
Lei non rispose subito. Aguzzò lo sguardo e cercò un segno che confermasse la mia teoria, ma non lo trovò.
“Ne sei sicura?
Io mi voltai e la guardai negli occhi.
Non ne ero solo sicura. Lo sentivo. Come se quel detrito mi avesse chiamata. Ogni singola particella del mio corpo gridava che quello era il posto, che lì sarebbe apparso il passaggio. Era una sensazione. Come quando rileggi un libro che avevi dimenticato da molto tempo e ti accorgi di sapere cosa succederà nel capitolo dopo; era un meccanismo di cui non dubitavo.
“Sì”
Nessuna di noi due aggiunse nulla, Maria si limitò a sollevarmi sulle spalle e farmi scavalcare la rete.
 
Dopo molte acrobazie riuscii a cadere dall’altra parte. Maria, alle mie spalle, tentò di arrampicarsi, ma i fori erano troppo piccoli e i suoi stivaloni da meccanico troppo grossi. 
“Non riesco” borbottò “Devo trovare un’altra entrata, magari se vado …”
“No!”
“No?”
Attese, in silenzio, lo sguardo curioso.
“Ho paura” risposi infine “Rimani qui”
Lei annuì, la bocca curvo in un’espressione di protezione. Io la guardai ancora per qualche secondo, poi, con un movimento secco, prima di cambiare idea, iniziai a correre. Il cornicione, visto da vicino, assomigliava più ad un davanzale. Era grigio, rotto per metà e annerito dal fumo, ma sapevo che quello era il posto. Iniziai a girarci attorno. Più la mezzanotte si avvicinava, più mi innervosivo. Facevo saettare di continuo il mio sguardo da lui a Maria, da Maria a lui. Più volte mi venne voglia di toccarlo, ma qualcosa, nella mia testa, mi diceva che era meglio  lasciare perdere.
Infine, arrivò la mezzanotte. Il lontananza sentii delle macchine strombazzare, dei ragazzi ridere. Vidi alcune luci spegnersi, altre accendersi. Immaginai che proprio in quel momento milioni di genitori stessero depositando i regali di Babbo Natale e promisi a me stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta. Un’energia improvvisa, inebriante si impossessò di me. Sentii il mio corpo rilassarsi, rivitalizzarsi ad ogni tocco. Le ferite, il fuoco distruttivo dell’ombra sparirono, la fatica abbandonò il mio corpo, la paura, la diffidenza vennero annientate. Qualcosa di molto più bello, molto più potente scorreva nelle mie vene, era come acqua, gocce di rugiada che lavavano via il dolore. Era la magia del natale. La sentivo, la riconoscevo, come se fossi stata appena risvegliata da un lungo sonno. Sentivo che era parte di me, che lo era sempre stata, solo che quella sera bussava più forte. Chiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere. Altre migliaia di persone, in tutto il mondo, stavano facendo lo stesso. Pensai che qualcuno, per la prima volta da molto tempo, si permetteva di credere di nuovo nei miracoli, in una persona, in se stessa e ne fui felice. Il mio popolo aveva bisogno di quella magia, il mio mondo ne aveva bisogno e io gliela avrei ridata. Delle immagini iniziarono ad ammassarsi nella mia mente, immagini sfocate, disordinate, scure che riguardavano quel mondo, la mia vita, un segreto che avevo nascosto così bene da dimenticarlo. Mi rividi da piccola, mi rividi a camminare per quelle stesse strade, per quella città. Rividi le torri gemelle ancora in piedi, sentii una mano stringere la mia, una risata sbiadita colorare quel mondo, una voce sottile chiamarmi, insegnarmi quell’alfabeto. Cercai un volto, ma non lo trovai. C’era solo uno sguardo, un paio di occhi scuri come la notte. Gli occhi di Dinah.
Rabbrividii.
Quelle non erano immagini, ma ricordi. Li sentivo spingere, sentivo il mio cuore battere, la magia del Natale cullarmi e smisi di opporre resistenza. Fu come aprire un argine, i ricordi presero a scorrere ad una velocità insostenibile. Ricostruii tutta la mia infanzia, tutto quel pezzo di vita che non ero mai riuscita a riempire, d’improvviso si arricchì di emozioni, posti, sapori.
Avevo tre anni e un vestitino rosso, rincorrevo le foglie di Central Park mentre ingiallivano e si staccavano, seguivo il loro volo aggraziato e soffiavo affinché non si posassero mai a terra. Dinah accanto a me, rideva e saltava nelle pozzanghere. Una voce di donna mi chiamò da lontano, il mio nome, urlato con una dolcezza materna, mi voltai e la foglia era caduta.
Il ricordo cambiò. Ora avevo quattro anni, i capelli rossi bagnati ed ero senza Dinah. Era sera a New York e faceva caldo, l’Estate non avrebbe dato tregua fino a Ottobre. Stavo sdraiata sul letto a pancia in giù e sentivo una voce, alle mie spalle, cullarmi dolcemente mentre delle mani gentili mi intrecciavano i capelli. “Sei bellissima, stellina” Mormorò la voce, ma prima che potessi riconoscerla, il ricordo cambiò di nuovo.
Era Inverno. La neve cadeva e ricopriva tutto. Mi affacciai ad una finestra e osservai il vetro appannarsi.
“E’ una magia!” strillò Dinah divertita, ma prima che potessi ribattere, qualcuno mi strappò bruscamente da lì. Un lampo, una donna che veloce, di spalle, chiudeva le tende.
“State lontane da lì, bambine. Stasera siamo in pericolo”
“Ma è Natale” protestai “Niente può andare storto a Natale”
Lei sospirò “Vorrei avessi ragione, stellina”
Nello stesso istante, l’aria si fece rarefatta e una donna apparve nella stanza. Il corpo era snello, il volto aggraziato, ma sfocato, i capelli dei colori dell’autunno.
“Sorella” salutò e l’altra donna si strinse con forza alla tenda.
“Sono qui solo per dirti che è tardi, ormai” Continuò “Sanno dove sei e stanno venendo a prenderti. Arrenditi finché puoi”
“Mai”
La donna sospirò “Dammele, dammi mia figlia e mia nipote”
“Piuttosto la morte”
“Ci sei molto vicina”
A queste parole lei sobbalzò “Lui oserebbe farmi questo?” sibilò “A me? Alla madre di …”
“Non sei più solo una madre” la interruppe l’altra “Ora sei anche una traditrice”
Lei ringhiò, un suono selvaggio e oscuro che mi fece rabbrividire “Che vuole fare? Vuole togliermi mia figlia?”
“Non lo so, ma non lo escluderei. E’ il re, può fare quello che vuole”
Lei rise, una risata disperata che graffiava la pelle, poi si avvicinò a me e mi afferrò.
“Che vuoi fare?” domandò preoccupata sua sorella, muovendo un passo verso di noi. Ma l’altra non la sentiva, rideva e mi stringeva sempre più forte. “Farò quello che voglio ”gridò “Gli toglierò la stessa cosa che lui vuole togliere a me”
Non  farlo, sorella!” La pregò l’altra.
D’improvviso qualcuno bussò violentemente alla porta e la voce di mio padre ordinò di aprire. Sentii la donna iniziare a tremare, implorare di stare indietro, di lasciarla stare, ma le sue preghiere furono vane. Mio padre sfondò la porta ed entrò. Non era da solo, con lui c’era un manipolo di guardie ed un altro uomo. Era più grande di mio padre, più alto e grosso. Ma aveva gli stessi occhi verdi, gli stessi capelli rossi e ispidi, gli stessi tratti duri e secchi. Si muoveva rapidamente e i suoi occhi studiavano la stanza con una brutalità urtante, eppure non c’era rabbia nel suo volto, ma preoccupazione. Quando vide Dinah sorrise sollevato, poi incontrò gli occhi dell’altra donna, di sua moglie e il volto assunse i contorni del dolore.
Quell’uomo era mio zio.
“Tu …” sibilò mio padre, indicando mia zia, negli occhi la luce del tradimento “Che ci fai qui?”
“Sono venuta per …”
Ma sua sorella fu più veloce “E’ qui per Dinah” s’intromise “E’ qui per Dinah e per aiutarmi con sua nipote”
“No” balbettò mio zio, cadendo in ginocchio, vidi le spalle dei miei genitori curvarsi sotto il peso del tradimento
“Oh sì” esultò l’altra donna “Invece sì. Lei ha sempre saputo dove mi trovavo. Sempre. Ma non ve lo ha detto, ha preferito proteggermi. Vi ha tradito. Esattamente come me”
Mia zia cercò lo sguardo di suo marito, ma non lo trovò. Mio padre la fissò ed in quello sguardo le sputò addosso tutta la sua rabbia. Lei sostenne il suo sguardo, ma le tremava il labbro.
Ma quando le parlò, la voce era bassa, il tono sommesso. Non c’era rabbia, ma tristezza. “Perché?”
Mia zia scosse la testa. Il volto era oscurato dalla penombra della stanza, ma vidi della lacrime luccicare sulle sue guance.
“E’ vero?” continuò lui “L’hai sempre saputo?”
Sapevo cosa voleva. Cosa volevano tutti loro. Una smentita. La muta preghiera che sua sorella avesse mentito, che lei li avesse preceduti per caso o per fortuna. Tutto era meglio della verità. Ma mia zia stava piangendo, teneva la testa china e aveva ferito l’uomo che amava. Non aveva più le forze di mentire.
“Sì” rispose.
Sua sorella scoppiò a ridere, di una risata diabolica e spietata e finalmente allentò la presa su di me facendomi cadere.
Fu un attimo, poi il buio.
 
Lancia un urlo e rinvenni ansimando. Nella mia mente i ricordi si ammassavano e aumentavano di velocità, perdendo di significato. Maria, dall’altra parte della rete, mi chiamò, ma non le risposi.
Io ero già stata sulla Terra.
Qualcuno, per chissà quale ragione, mi aveva strappata alla mia famiglia e mi aveva portata lì. E così anche con Dinah. Mi appoggiai al cornicione, ma sobbalzai un secondo dopo. Maria era sparita.
“Maria!” chiamai allarmata, cercandola con lo sguardo, mentre un brutto presentimento si faceva largo in me. Corsi verso la rete e urlai più forte. Ma lei sembrava sparita.
“Maledizione!” imprecai, tirando un calcio alla rete e nello stesso istante avvertii una presenza alle mie spalle. Non ebbi bisogno di voltarmi. Riconobbi il fuoco che incendiò la mia schiena. L’ombra era dietro di me e mi aspettava, ma stavolta non era sola.
“Siena …” sentii Maria rantolare e senza fiato per la paura, mi voltai. 
CAPITOLO 12
L’OBLIO
Non riuscì mai a terminare la frase perché qualcosa lo distrasse.
Si tastò in tasca ed il suo sguardo si illuminò.
“Ho trovato!” esclamò, stringendo una bomboletta grigia.
Lo guardai preoccupata, mentre la strada si avvicinava sempre di più. “Che cosa?”
Era questione di secondi prima che ci sfracellassimo a terra. Ma Nick non sembrava rendersene conto. Guardò in basso.
“Dobbiamo andare più veloci!” urlò guardandomi, come se io avessi potuto fare qualcosa al riguardo. “Abbracciami!”
“Che cosa?!”
“Abbracciami, così cadremo più velocemente!”
Era la cosa più pazza che avessi mai sentito, ma era anche l’ultima cosa avrei mai sentito, per cui lo feci.
La caduta durò ancora qualche secondo, l’aria mi sferzava il volto. Nick, alle mie spalle, era teso. Guardava suo padre con attenzione, si rilassò solo quando lo superammo. Io tenevo lo sguardo fisso sulla strada. Era questione di una manciata di metri, ormai. Sentii Nick tremare e lo abbracciai più forte, pronta all’impatto.
“Ora!” Ringhiò lui puntando la bomboletta verso terra.
D’improvviso, un’ondata di vento polare mi bruciò la schiena. Un vortice di migliaia di fiocchi di neve uscì dalla bomboletta di Nick e andò a formare una soffice cunetta a terra. Ci piombammo dentro.
Risi. Risi non appena compresi il piano di Nick, risi e mi lasciai che la neve mi bagnasse le braccia, i capelli e non avrei potuto  essere più felice. Nick ,accanto a me, sembrava frastornato, tremava, mi guardava, ma non sembrava riconoscermi.
“Siamo vivi!” gli urlai in faccia “Vivi!”
Lui annuì. Si voltò in tempo per vedere suo padre schiantarsi nel cumulo. A quel punto, Nick mutò espressione e scoppiò a ridere così forte da cadere all’indietro.
“Lo siamo!” esultò, alzandosi in piedi e cadendo un secondo dopo. Nella confusione della caduta aveva perso le stampelle. “Siamo vivi Siena!” mi attirò a sé e cercò di sollevarmi in aria.  Risi ancora più forte e le risate si mischiarono alle lacrime.  Il sollievo divenne ansia, quasi isteria. Per quanto ancora sarei riuscita a sfuggire alla morte?
Abbracciai Nick tentando di calmarmi, ma tremavo.  Attorno a noi le macchine sfrecciavano ad una velocità impressionante, nessuno sembrava essersi accorto di noi.
“Che cos’era quella?” Domandai, accennando alla bomboletta.
Lui scosse le spalle “Era un esperimento a cui aveva lavorato mio padre un po’ di tempo fa. Avrebbe dovuto produrre tempeste di neve per attirare il big foot, ma non si è mai andati oltre il prototipo”
“Beh, qualunque cosa fosse, ci ha salvati” lo fissai “tu ci hai salvati Nick”
Lui tossì imbarazzato, ma una luce orgogliosa brillava nei suoi occhi. “E’ stata Rosa a darmelo”  borbottò  
A quelle parole, sentii il mio cuore farsi pesante.
Ma il padre di Nick ci interruppe. “Sei stata tu” sibilò indicandomi.
Io indietreggiai.
“Sei stata tua farci cadere! Come hai iniziato a canticchiare, io mi sono sentito strano ed un secondo dopo eravamo in caduta libera!” Muoveva le mani come se non potessi crederci, scuoteva la testa e teneva gli occhi fissi nel cielo.
Non capivo cosa volesse, ma mi sentivo in pericolo. Nick, accanto a me, tentò di alzarsi.
“Sei ancora più potente di quello che credevo!” esclamò il padre, estraendo una specie di scatolina blu dalle sue tasche -I Grace erano pieni di risorse- “Per questo non correrò il rischio di perderti una seconda volta”
Toccò la scatolina e un ronzio sinistro si diffuse nell’aria.
“Quella è una pistola elettrica!” urlò Nick, agitandosi. Qualcosa, nel suo tono, mi fece sospettare di essere in pericolo. 
“Non ti preoccupare, figliolo. La stordirà e basta, ma non possiamo permetterci il lusso di un altro giochino come quello di prima, vero?” continuò sorridendomi.
Rabbrividii. “Lei è pazzo”
Lui si immobilizzò, la mano che reggeva la pistola tremò. “Pazzo?” sibilò “Pazzo io? Io che credevo in te?”
Nick, accanto a me, mi sfiorò il polso. “Scappa, capo”
“Pazzo!” gridò il padre di Nick ed il suo grido mi perforò il cuore  “Visionario, semmai, ma pazzo mai. Io sono il più grande scienziato di tutti i tempi! E tu, tu sei il mio biglietto di riscatto. Vieni qui, piccola” proseguì, brandendo la pistola elettrica “Non sentirai tanto dolore, te lo prometto” E prima che potessi replicare, Aldobraldino si lanciò su di me.
“Scappa Siena!” urlò Nick nello stesso istante, frapponendosi tra me e suo padre.
Lo vidi, lo vidi spiccare il salto e chiudere gli occhi, vidi lo sguardo di suo padre passare dalla follia all’incredulità. Vidi la pistola bruciare il petto di Nick, sentii un ronzio fastidioso diffondersi  nell’aria.
Nick cadde a terra, esamine.
Suo padre si fermò.
Lo guardò.
Poi, iniziò a tremare.
Tentò di gridare, ma la voce gli morì in gola, si guardò le mani e alla vista della pistola, sobbalzò e l’allontanò da sé.
Mi guardò. Non sembrava vedermi. Iniziò a piangere, nascose il volto nel petto del figlio.
“Nick” chiamò disperato “Nick …”
Le lacrime rigavano il suo volto e bagnavano la maglia di Nick. Suo padre tremava, mentre le persone attorno a noi iniziavano a fermarsi, urlare, bisbigliare. Qualcuno chiamò la polizia, altri l’ambulanza.
“Avevo regolato la pistola ad un livello troppo alto … era regolata per lei” singhiozzava “Per lei …”
Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma cercai di respingerle. Allungai una mano verso quella di Nick e gliela strinsi. Fu allora che sentii qualcosa di sottile tra le sue dita fredde. La presi e con dolcezza, la guardai. Era un foglietto bianco, spiegazzato, di quelli che solo poche ore prima avevo trovato in camera sua. Nel centro, a chiare lettere, si leggevano due parole: Ground zero.
Sobbalzai al ricordo del passaggio e del mio mondo, al ricordo di una vita che non mi era mai sembrata più lontana.
Ma Nick aveva creduto, aveva creduto fermamente in quel piano ed in me, aveva fatto la tacita promessa di riportarmi a casa e aveva dato la sua vita perché io potessi salvarmi.
Ricordai le parole di Bianca in un vortice confuso di emozioni, ricordai cosa aveva detto di quel mondo e come mio padre avesse voluto tenermi lontana, anche a costo di sacrificare il suo popolo. Per la prima volta in vita mia, lo vidi per quel che era. Per la prima volta, vidi mio padre come un uomo e non come un eroe. Riconobbi nel suo sguardo fiero e nel suo passo deciso, l’ombra della paura e dello sbaglio. Mio padre, il re del mio mondo, il valoroso guerriero, non era altro che un uomo. Un uomo che aveva compiuto scelte sbagliate e che ,per certi versi, era simile al padre di Nick.
Ma fu quest’ultimo pensiero a darmi la spinta necessaria.
Dovevo cambiare le cose.
Lo dovevo al mio popolo e lo dovevo a Nick.
Dovevo tornare a casa.
A casa avrei aggiustato tutto.
Casa era dove le cose si sistemavano.
Casa era dove sarei stata salva.
Dove i miei genitori sarebbero stati salvi.
A casa sarei stata al sicuro.
Dovevo tornare a casa.
Mi alzai e strinsi forte il foglietto, poi, malferma sulle gambe, corsi via di lì.
 
Corsi a perdifiato per le strade di New York. Avevo un vuoto allo stomaco che mi intimava di non fermarmi. Superai vie, persone, palazzi. Le vedevo scivolare accanto a me come ombre indistinte. Se mi persi, non lo ricordo. So solo che a un certo punto, quando ormai i polmoni erano sul punto di collassare e la gola mi bruciava ad ogni respiro, sbucai su di una piazza aperta e densa di tristezza. E capii di essere nel posto giusto. I volti delle persone portavano con sé i segni inequivocabili di un lutto. I bambini non correvano, le madri non sorridevano, i padri non richiamavano. Tutti tenevano lo sguardo basso, le mani intrecciate, si muovevano in silenzio o parlavano sottovoce. Passavano accanto ad una rete metallica e lasciavano cadere fiori o biglietti. La neve ricopriva tutto, cercava di mascherare anche quelle immense macerie che erano molto più visibili ora, di quando avevano svettato su tutte le loro teste. Con cautela mi avvicinai. Avrei desiderato avere qualcuno accanto a me per avere la certezza di essere viva, ma l’unica cosa che mi accompagnava era il biglietto di Nick e lo strinsi con tutte le mie forze. Cercai di individuare dove sarebbe apparso il passaggio, provai a concentrarmi. Sperai che un segnale, un bagliore o un suono, mi avrebbero aiutata, ma non sentii niente. Intanto, le prime stelle erano apparse in cielo. La piazza iniziò a svuotarsi, ma rimanevano ancora molte persone. Per lo più, stavano immobili, di fronte alla rete e la fissavano. Fissavano cosa c’era dietro, le macerie. Mi resi conto che, come me, erano alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che non volevano rassegnarsi a lasciar andare. D’improvviso un movimento attirò la mia attenzione. Mi voltai ed avvertii un sibilo che mi fece accapponare la pelle. Sobbalzai, ma non distinsi nulla di strano. Sbuffai e tornai a concentrarmi sulle macerie.
Fu proprio allora che la vidi.
Stava seduta su un pezzo di cornicione e mi guardava. I suoi occhi fiammeggiavano di rabbia. Una rabbia antica che già una volta aveva divorato il mondo. Era più grossa delle altre volte, il corpo più snello ed il viso più tondo. I capelli ricadevano morbidi sulle sue spalle fino a sfumare nella gonna, nella mani, in una nebbia densa come la notte.
Era bella ed immensamente spaventosa.
Tentai di gridare, ma la voce mi morì in gola.
L’ombra mi sorrise.
Un sorriso diabolico che rischiò di uccidermi in tanti modi. Puntò le mani sulla roccia e con un movimento aggraziato si avvicinino a me. Prova ad indietreggiare, ma una forza invisibile mi inchiodò sul posto.
 L’ombra fissò il suo sguardo nel mio e fu come bruciare dall’interno.
Caddi e terra e sentii l’aria mancarmi. Lei sorrideva e più il suo sorriso si allargava, più io sentivo il mio cuore fermarsi. Un fuoco inestinguibile scorreva nelle mie vene, faceva ribollire il mio sangue, avviluppava le gambe, le braccia, la gola, i capelli. Cercai conforto nella neve, la strinsi, la bevvi, me  la passai su tutto il corpo, ma quella si sciolse un attimo dopo. Iniziai a sudare, tentai di oppormi a quella fiamma, ma non riuscivo a pensare chiaramente.
 Ecco perché quando sentii una voce chiamare il mio nome, quando mi sembrò di distinguere Maria tra i milioni di puntini che danzavano nei miei occhi, pensai di stare sognando. Rantolai qualcosa, ma dal sguardo capii che vedeva anche lei l’ombra e come me, ne era spaventata. Tentai di andarle in contro, ma non riuscii. Lottavo contro le fiamme, ma era una resistenza sempre più disperata.
Poi, proprio quando mi ero sentita vicino alla fine, l’aria tornò ad accarezzare il mio viso, nei miei polmoni. Sentii il fuoco abbandonarmi e la neve stringermi dolcemente. Gradualmente i miei occhi tornarono a vedere, i miei muscoli a rilassarsi. Mi guardai attorno e incontrai lo sguardo di Maria. Era in piedi, tremante e teneva un coltello tra le mani, ma era lei.  Davanti a me.
“M-maria …” chiamai.
Lei scosse la testa e rinfoderò il coltello. Ero felice di vederla. Più che felice e se ne avessi avutole forze, l’avrei abbracciata, ma riuscivo a malapena a muovermi. Lei sembrò accorgersene.
“Riesci a muoverti?”
Annuii, ma quando provai a rialzarmi, emisi un gemito di dolore.
“Lascia che ti aiuti” ordinò dolcemente e con un movimento veloce, si avvicinò e  mi rimise in piedi. “Appoggiati a me finché non recuperi le forze”
 
Quando mi fui totalmente rimessa, iniziarono le domande. Ma io non avevo risposte. Non sapevo dove fosse il passaggio, né cosa fosse quell’ombra, non sapevo dov’era andata, né se ne fosse davvero andata. Sapevo solo che Nick era morto, che Nico e Dinah mi avevano abbandonata e che io volevo tornare a casa. Le mostrai il biglietto di Nick e le spiegai come ci fosse arrivato. Lei ascoltò tutto il tempo, lo sguardo fisso sulle macerie.  
“Sai perché sono qui?” domandò.
Io seguii il suo sguardo. “Perché vuoi farti perdonare”
“Ho bisogno di ottenere il loro perdono, in qualche modo. Devo riuscirci. Solo così potrò scacciare i miei fantasmi”
“Credo che sia la battaglia più dura di tutte” sussurrai “E che non si vinca mai del tutto”
Lei mi lanciò uno sguardo indecifrabile.
Io mantenni lo sguardo sulle macerie. “Significa che mi aiuterai?”
“Sì”
Eravamo vicine. E per un attimo, mi sembrò di riconoscere il suo profumo. Ma nello stesso istante Maria si allontanò ed io tornai ad osservare la piazza. Era semideserta ormai.
“Manca poco alla mezzanotte” mormorò Maria.
Ed il passaggio non si era ancora rivelato.
Cercai conforto nel suo viso.  
Lei si limitò a stringersi nelle spalle. “Alle volte, bisogna solo avere fede”
Non risposi e tornai ad osservare le macerie. Fissai la mia attenzione sul cornicione su cui l’ombra era apparsa poco prima e un brivido mi attraversò la nuca.
Un’intuizione improvvisa.
Era quello il posto, il portale sarebbe apparso lì.
Inconsciamente mi aggrappai alla rete.
“Siena?” domandò Maria.
“E’ lì”
Lei non rispose subito. Aguzzò lo sguardo e cercò un segno che confermasse la mia teoria, ma non lo trovò.
“Ne sei sicura?
Io mi voltai e la guardai negli occhi.
Non ne ero solo sicura. Lo sentivo. Come se quel detrito mi avesse chiamata. Ogni singola particella del mio corpo gridava che quello era il posto, che lì sarebbe apparso il passaggio. Era una sensazione. Come quando rileggi un libro che avevi dimenticato da molto tempo e ti accorgi di sapere cosa succederà nel capitolo dopo; era un meccanismo di cui non dubitavo.
“Sì”
Nessuna di noi due aggiunse nulla, Maria si limitò a sollevarmi sulle spalle e farmi scavalcare la rete.
 
Dopo molte acrobazie riuscii a cadere dall’altra parte. Maria, alle mie spalle, tentò di arrampicarsi, ma i fori erano troppo piccoli e i suoi stivaloni da meccanico troppo grossi. 
“Non riesco” borbottò “Devo trovare un’altra entrata, magari se vado …”
“No!”
“No?”
Attese, in silenzio, lo sguardo curioso.
“Ho paura” risposi infine “Rimani qui”
Lei annuì, la bocca curvo in un’espressione di protezione. Io la guardai ancora per qualche secondo, poi, con un movimento secco, prima di cambiare idea, iniziai a correre. Il cornicione, visto da vicino, assomigliava più ad un davanzale. Era grigio, rotto per metà e annerito dal fumo, ma sapevo che quello era il posto. Iniziai a girarci attorno. Più la mezzanotte si avvicinava, più mi innervosivo. Facevo saettare di continuo il mio sguardo da lui a Maria, da Maria a lui. Più volte mi venne voglia di toccarlo, ma qualcosa, nella mia testa, mi diceva che era meglio  lasciare perdere.
Infine, arrivò la mezzanotte. Il lontananza sentii delle macchine strombazzare, dei ragazzi ridere. Vidi alcune luci spegnersi, altre accendersi. Immaginai che proprio in quel momento milioni di genitori stessero depositando i regali di Babbo Natale e promisi a me stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta. Un’energia improvvisa, inebriante si impossessò di me. Sentii il mio corpo rilassarsi, rivitalizzarsi ad ogni tocco. Le ferite, il fuoco distruttivo dell’ombra sparirono, la fatica abbandonò il mio corpo, la paura, la diffidenza vennero annientate. Qualcosa di molto più bello, molto più potente scorreva nelle mie vene, era come acqua, gocce di rugiada che lavavano via il dolore. Era la magia del natale. La sentivo, la riconoscevo, come se fossi stata appena risvegliata da un lungo sonno. Sentivo che era parte di me, che lo era sempre stata, solo che quella sera bussava più forte. Chiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere. Altre migliaia di persone, in tutto il mondo, stavano facendo lo stesso. Pensai che qualcuno, per la prima volta da molto tempo, si permetteva di credere di nuovo nei miracoli, in una persona, in se stessa e ne fui felice. Il mio popolo aveva bisogno di quella magia, il mio mondo ne aveva bisogno e io gliela avrei ridata. Delle immagini iniziarono ad ammassarsi nella mia mente, immagini sfocate, disordinate, scure che riguardavano quel mondo, la mia vita, un segreto che avevo nascosto così bene da dimenticarlo. Mi rividi da piccola, mi rividi a camminare per quelle stesse strade, per quella città. Rividi le torri gemelle ancora in piedi, sentii una mano stringere la mia, una risata sbiadita colorare quel mondo, una voce sottile chiamarmi, insegnarmi quell’alfabeto. Cercai un volto, ma non lo trovai. C’era solo uno sguardo, un paio di occhi scuri come la notte. Gli occhi di Dinah.
Rabbrividii.
Quelle non erano immagini, ma ricordi. Li sentivo spingere, sentivo il mio cuore battere, la magia del Natale cullarmi e smisi di opporre resistenza. Fu come aprire un argine, i ricordi presero a scorrere ad una velocità insostenibile. Ricostruii tutta la mia infanzia, tutto quel pezzo di vita che non ero mai riuscita a riempire, d’improvviso si arricchì di emozioni, posti, sapori.
Avevo tre anni e un vestitino rosso, rincorrevo le foglie di Central Park mentre ingiallivano e si staccavano, seguivo il loro volo aggraziato e soffiavo affinché non si posassero mai a terra. Dinah accanto a me, rideva e saltava nelle pozzanghere. Una voce di donna mi chiamò da lontano, il mio nome, urlato con una dolcezza materna, mi voltai e la foglia era caduta.
Il ricordo cambiò. Ora avevo quattro anni, i capelli rossi bagnati ed ero senza Dinah. Era sera a New York e faceva caldo, l’Estate non avrebbe dato tregua fino a Ottobre. Stavo sdraiata sul letto a pancia in giù e sentivo una voce, alle mie spalle, cullarmi dolcemente mentre delle mani gentili mi intrecciavano i capelli. “Sei bellissima, stellina” Mormorò la voce, ma prima che potessi riconoscerla, il ricordo cambiò di nuovo.
Era Inverno. La neve cadeva e ricopriva tutto. Mi affacciai ad una finestra e osservai il vetro appannarsi.
“E’ una magia!” strillò Dinah divertita, ma prima che potessi ribattere, qualcuno mi strappò bruscamente da lì. Un lampo, una donna che veloce, di spalle, chiudeva le tende.
“State lontane da lì, bambine. Stasera siamo in pericolo”
“Ma è Natale” protestai “Niente può andare storto a Natale”
Lei sospirò “Vorrei avessi ragione, stellina”
Nello stesso istante, l’aria si fece rarefatta e una donna apparve nella stanza. Il corpo era snello, il volto aggraziato, ma sfocato, i capelli dei colori dell’autunno.
“Sorella” salutò e l’altra donna si strinse con forza alla tenda.
“Sono qui solo per dirti che è tardi, ormai” Continuò “Sanno dove sei e stanno venendo a prenderti. Arrenditi finché puoi”
“Mai”
La donna sospirò “Dammele, dammi mia figlia e mia nipote”
“Piuttosto la morte”
“Ci sei molto vicina”
A queste parole lei sobbalzò “Lui oserebbe farmi questo?” sibilò “A me? Alla madre di …”
“Non sei più solo una madre” la interruppe l’altra “Ora sei anche una traditrice”
Lei ringhiò, un suono selvaggio e oscuro che mi fece rabbrividire “Che vuole fare? Vuole togliermi mia figlia?”
“Non lo so, ma non lo escluderei. E’ il re, può fare quello che vuole”
Lei rise, una risata disperata che graffiava la pelle, poi si avvicinò a me e mi afferrò.
“Che vuoi fare?” domandò preoccupata sua sorella, muovendo un passo verso di noi. Ma l’altra non la sentiva, rideva e mi stringeva sempre più forte. “Farò quello che voglio ”gridò “Gli toglierò la stessa cosa che lui vuole togliere a me”
Non  farlo, sorella!” La pregò l’altra.
D’improvviso qualcuno bussò violentemente alla porta e la voce di mio padre ordinò di aprire. Sentii la donna iniziare a tremare, implorare di stare indietro, di lasciarla stare, ma le sue preghiere furono vane. Mio padre sfondò la porta ed entrò. Non era da solo, con lui c’era un manipolo di guardie ed un altro uomo. Era più grande di mio padre, più alto e grosso. Ma aveva gli stessi occhi verdi, gli stessi capelli rossi e ispidi, gli stessi tratti duri e secchi. Si muoveva rapidamente e i suoi occhi studiavano la stanza con una brutalità urtante, eppure non c’era rabbia nel suo volto, ma preoccupazione. Quando vide Dinah sorrise sollevato, poi incontrò gli occhi dell’altra donna, di sua moglie e il volto assunse i contorni del dolore.
Quell’uomo era mio zio.
“Tu …” sibilò mio padre, indicando mia zia, negli occhi la luce del tradimento “Che ci fai qui?”
“Sono venuta per …”
Ma sua sorella fu più veloce “E’ qui per Dinah” s’intromise “E’ qui per Dinah e per aiutarmi con sua nipote”
“No” balbettò mio zio, cadendo in ginocchio, vidi le spalle dei miei genitori curvarsi sotto il peso del tradimento
“Oh sì” esultò l’altra donna “Invece sì. Lei ha sempre saputo dove mi trovavo. Sempre. Ma non ve lo ha detto, ha preferito proteggermi. Vi ha tradito. Esattamente come me”
Mia zia cercò lo sguardo di suo marito, ma non lo trovò. Mio padre la fissò ed in quello sguardo le sputò addosso tutta la sua rabbia. Lei sostenne il suo sguardo, ma le tremava il labbro.
Ma quando le parlò, la voce era bassa, il tono sommesso. Non c’era rabbia, ma tristezza. “Perché?”
Mia zia scosse la testa. Il volto era oscurato dalla penombra della stanza, ma vidi della lacrime luccicare sulle sue guance.
“E’ vero?” continuò lui “L’hai sempre saputo?”
Sapevo cosa voleva. Cosa volevano tutti loro. Una smentita. La muta preghiera che sua sorella avesse mentito, che lei li avesse preceduti per caso o per fortuna. Tutto era meglio della verità. Ma mia zia stava piangendo, teneva la testa china e aveva ferito l’uomo che amava. Non aveva più le forze di mentire.
“Sì” rispose.
Sua sorella scoppiò a ridere, di una risata diabolica e spietata e finalmente allentò la presa su di me facendomi cadere.
Fu un attimo, poi il buio.
 
Lancia un urlo e rinvenni ansimando. Nella mia mente i ricordi si ammassavano e aumentavano di velocità, perdendo di significato. Maria, dall’altra parte della rete, mi chiamò, ma non le risposi.
Io ero già stata sulla Terra.
Qualcuno, per chissà quale ragione, mi aveva strappata alla mia famiglia e mi aveva portata lì. E così anche con Dinah. Mi appoggiai al cornicione, ma sobbalzai un secondo dopo. Maria era sparita.
“Maria!” chiamai allarmata, cercandola con lo sguardo, mentre un brutto presentimento si faceva largo in me. Corsi verso la rete e urlai più forte. Ma lei sembrava sparita.
“Maledizione!” imprecai, tirando un calcio alla rete e nello stesso istante avvertii una presenza alle mie spalle. Non ebbi bisogno di voltarmi. Riconobbi il fuoco che incendiò la mia schiena. L’ombra era dietro di me e mi aspettava, ma stavolta non era sola.
“Siena …” rantolò Maria. 
Senza fiato, mi voltai. 
   
 
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