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Autore: AMYpond88    30/01/2023    2 recensioni
Suguru lo sogna ormai ogni notte.
Non ha idea di chi sia lui... anche se dopo così tanti giorni inizia a pensare di conoscerlo.
A volte è un adulto, un suo coetaneo, a volte solo un ragazzino... anche piuttosto petulante.
A volte sembra in pericolo, a volte è Il pericolo.
Ma questa volta il ragazzo con i capelli bianchi pare davvero nei guai...
Genere: Angst, Fantasy, Hurt/Comfort | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Geto Suguru, Gojo Satoru, Okkotsu Yuta
Note: AU, Lime, What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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"Quei jeans sembrano quelli delle mie sorelle..."
Satoru ripete a pappagallo, facendo il verso all'altro uomo.
Che frase antipatica da dire, pensa tra sè e sè.
Anzi, proprio idiota, conclude, mentre racconta ad Utahime l'incontro di qualche ora prima, con il nuovo insegnante di Megumi.
In qualche modo devono passare il tempo mentre, fermi sulla soglia della stanza, osservano il ragazzino giocare.
"Chi se lo aspettava che dal vivo fosse un tale stronzo?", aggiunge con tono melodrammatico, grattandosi la nuca.
Deve ammettere che l'altro è decisamente un bell'uomo.
E probabilmente anche piuttosto interessante, con quell'abbigliamento impeccabile che fa a pugni con i dilatatori ai lobi delle orecchie. 
Senza contare quell'aria da maestrino saccente, che gli calza anche bene.
Mettersi d'impegno per far scendere l'altro dal piedistallo, potrebbe diventare la missione della sua vita.
Anzi, probabilmente lo sarà, però non ha ancora deciso le modalità.
Rendere un inferno tutte le riunione genitori - insegnanti? Infilarsi nei suoi pantaloni?
Entrambe le opzioni?
Gli piacerebbe di più vederlo pregare perché la pianti di farlo ammattire con i vestiti addosso o perché non smetta di farlo in un letto?
Di nuovo, se si tratta di Suguru, entrambe le possibilità gli paiono allettanti.
Geto sensei, cos'è questa confidenza, Satoru?, si ripete, sicuro di star usando il tono che avrebbe l'insegnante.

"...Per la tua cotta mi vesto come un'adolescente?"
Utahime lo distrae dal suo monologo interiore, con un tono talmente esasperato, che finisce per chiedersi se realmente il suo sproloquio sia avvenuto nella sua testa o se abbia spiattellato tutto ad alta voce.
Appoggiata allo stipite opposto della porta, Iori gli lancia un'occhiata veloce, prima di tornare con lo sguardo all'interno della stanza, a Megumi seduto ai piedi del letto.
Il bambino canticchia una filastrocca con voce sottile, senza alzare gli occhi dai cani di peluche che fa saltellare sulle coperte, attori inconsapevoli del suo piccolo spettacolo.
"Ma soprattutto, entri davvero nei miei jeans?", rincara lei, guardando storto i pantaloni che indossa, borbottando un 'effettivamente paiono i miei' che trasuda scetticismo.
Decide di ignorare la domanda e passare oltre, prima che la donna possa scagliarsi contro il suo metabolismo.
"Non è la mia cotta...", risponde, senza alzare lo sguardo dal ragazzino.
"No, è solo il tipo che sogni tutte le notti da mesi...", lo corregge l'altra, sbuffando. "Non hai pensato di parlarmene? Lo sai che faccio la psicologa, vero?"
"Infantile", sottolinea lui in risposta.
"Eh, appunto", ribatte la donna.
"Scusa, ma mi sono persa il momento in cui sei diventato adulto. Quando è successo?"
Il tono sinceramente curioso dell'amica lo fa ridere di gusto, tanto da costargli un'occhiataccia da parte di un inserviente.
Alza una mano in segno di scusa, ricordandosi del posto in cui si trovano.

"Tornando all'incontro", riprende Utahime, "Il fantastico Gojo Satoru che non fa colpo al primo sguardo?".
"Hai perso il tocco?", chiede, fin troppo soddisfatta.
Gojo esita, prima di convincersi che sì, può levare gli occhi da Megumi almeno per un istante.
Non è in una stazione iper affollata e non sta salendo su un treno che straripa di persone. Non rischia di perdere il ragazzino.
Senza contare che il bambino pare davvero troppo impegnato ad elencare, contandoli sulle dita, i nomi dei suoi nuovi compagni, per far caso a loro.
Sbuffa, divertito e incuriosito dal fatto che "Yuji Itadori", registrato nella sua testa come capelli rosa a riccio, cappuccio rosso che sporge dalla piccola uniforme, banco sulla destra, sia già comparso tre volte nel computo.
Fa un'alzata di spalle e canticchia tra sè, con un piccolo ghigno che danza sul suo viso.
"Dici?"
Sembra quasi sul punto di darle ragione. Quasi.
Si mostra indifferente, annoiato, mentre si china ad allacciarsi una scarpa.
Nel piegarsi, gli occhiali gli scivolano sul ponte del naso, ad evidente rischio caduta.
"Hime, gli occhiali per favore", riprende, tranquillo e casuale, le mani impegnate a riallacciare, dopo averli allentati con un gesto tanto rapido da passare inosservato, i nastri delle sue sneakers.
Lancia un'occhiata veloce verso l'alto per assicurarsi che il giochetto di prestigio sia passato inosservato.
Lo sguardo della donna non si è mosso, fisso sul suo piccolo paziente.
Al suo tono petulante, lei alza gli occhi al cielo, prima di allungare distratta una mano a sfilargli le lenti.
Fregata. Il ghigno si apre, mentre prende tra le dita il polso di Utahime, avvicinando la mano che tiene i suoi occhiali al viso.
Alza gli occhi ad incontrare quelli dell'altra, ora fissi su di lui, mentre sfiora con le labbra la pelle del dorso della destra, sussurrando un "grazie".
Cerca di non ridere mentre l'amica borbotta qualcosa che ricorda vagamente un 'prego', guardandola arrossire fin alla radice dei capelli.
Si alza in piedi, chinandosi piano su di lei, le labbra ad un centimetro dalle sue.
È vicino, tanto vicino, ma non abbastanza per non riuscire a mettere a fuoco il panico puro che prende la ragazza.
"Gojo che diam..."
"No", sussurra con il tono più basso possibile, arrivando quasi a sfiorare la pelle del collo e il guscio dell'orecchio, solleticando l'epidermide tenera con il respiro.
"Direi che non ho perso il tocco", conclude, tornando leggero e giocoso.
Le stampa un bacio innocente sulla guancia e si trattiene dallo scoppiare a ridere, godendosi il momento in cui l'espressione dell'altra passa da eccitata e confusa a furiosa.
"Direi piuttosto che sto sulle palle a Geto sensei", conclude.
Il calcio che quasi arriva sulle sue, di palle, lo schiva per un pelo.

"Idiota", borbotta Utahime, incrociando le braccia.
Ridacchia in risposta, cercando di ignorare il dolore alla caviglia raggiunta da un secondo colpo, che non se l'era sentita proprio di evitare. Alla fine era stato scorretto.
I suoi occhi tornano veloci su Megumi. Seduto sul bordo del letto, il bambino sbadiglia stanco, dannatamente simile ai suoi lupetti.
Sembra sul punto di accoccolarsi e cedere al sonno, ma proprio quando Gojo è pronto di entrare nella stanza, il piccolo si riscuote, si siede a gambe incrociate, un peluche per fianco, quasi a proteggerlo, e ricomicia a parlare.
Questa volta è una favola. Qualcosa su una principessa addormentata, uno stregone che la salva e chissà che altro...
"Quindi è voluto venire qui subito uscito da scuola?", ripredere Iori.
Il tono, tornato serio e professionale, non nasconde la dolcezza che riserva al suo paziente.
Satoru fa un cenno di assenso.
"Sì, è la prima cosa che mi ha chiesto uscito dall'aula", prosegue, "ha detto che voleva raccontarle dei suoi nuovi amici".
Il suo cuore si stringe a guardare Megumi, tutto serio mentre racconta la storia inventata o, più probabilmente, l'insieme di storie sentite qua e là e messe insieme nella sua piccola testolina a riccio, alla ragazza distesa sul letto, priva di coscienza.
Immobile, legata a macchine che la tengono in vita: è così che Gojo ha sempre visto Tsumiki Fugushiro.
Megumi no, era con lei che il bambino viveva prima che lui entrasse nelle loro vite. Però ora Satoru teme che con il tempo questa immagine diventerà l'unica che Megumi avrà della sorella maggiore.
L'uomo non prega mai, ma pregasse, se sapesse farlo, chiederebbe che Tsumiki potesse ascoltare almeno una delle favole che il fratellino recita per lei.
Ma la ragazza non muove un muscolo, intrappolata nel suo stesso corpo.
Non reagisce nemmeno mentre le piccole dita del bambino si fermano su un ciuffo fuori posto che le cade sugli occhi, sistemandolo con tutta la cura del mondo dove è certo non le dia fastidio.
Davanti alla scena, entrambi gli adulti perdono le parole.
Quando le ritrovano, sembrano passati anni.
"Scusa per il poco preavviso, ma non me la sono sentita di dirgli di no...".
"Non dirlo nemmeno per scherzo..."
Utahime aggiunge qualcosa sull'anticipare la seduta della settimana, ma viene interrotta da passi nel corridoio.
Gojo si volta, facendo cenno all'infermiera arrivata a comunicare la fine dell'orario delle visite, di dar loro ancora qualche istante. Che almeno nella fiaba, la principessa si sta svegliando.
Mentre la donna risponde, concedendo loro altri cinque minuti, Satoru sente la mano dell'amica appoggiarsi sulla spalla e dare una leggera stretta.
"Iori, grazie di essere qui".

"Sei sicuro di non voler venire nel lettone?"
Gojo sa che nel momento in cui ha pronunciato questa frase, almeno un paio di pedagogisti nel mondo hanno avuto una sincope. Può immaginare anche il sopracciglio di Utahime alzarsi, netto come una lama, come se la donna fosse lì con loro a dare il colpo di grazia ai suoi tentativi di essere un tutore appena passabile.
Eppure rischiare di perdersi in una stazione, affrontare il primo giorno in una nuova scuola e la visita alla sorella in ospedale sono tutti eventi pesanti da affrontare per il bambino, già presi singolarmente. Figurarsi tutti stipati nell'arco di dodici ore.
Quindi al al diavolo, si sente libero di offrire tutta la compensazione emotiva che conosce.
Hanno mangiato la pizza sul divano, rielencando ancora i nuovi compagni. Questa volta il piccolo Itadori è stato citato solo due volte, con un grande piccolo passo avanti verso la logica, anche se un po' gli è spiaciuto spiegare a Megumi che se un compagno è particolarmente simpatico, non per forza deve essere capace di duplicarsi.
Hanno guardato l'episodio di Spy x Family, anche se era già passata l'ora per la televisione, letto due libri della buonanotte e lui è anche riuscito a raccontare la favola del cucciolo Shiro* senza che il bambino lo interrompesse per correggerlo.
A quanto pare è bastato, dato che Megumi sembra tranquillo, mentre scrolla la testolina di capelli spettinati.
"No, grazie Satoru...", borbotta assonnato, lasciandosi cadere sul cuscino.
"Porta aperta?", propone ancora, mentre rimbocca le coperte. A questo punto non sa più se questa contrattazione serva più a rassicurare se stesso o il piccolo.
È su questo punto che il bambino cede, o concede, non saprebbe, e già ad occhi chiusi fa un cenno di assenso.
"Buona notte, cucciolo..."
"Buona notte, 'Toru".
Si chiude la porta alle spalle. Forse questa giornata eterna è finalmente terminata.

"Pensi davvero tornerà da te?"
La voce che riempie lo spazio vuoto attorno a lui, che gli rimbomba in testa, è quella di Suguru.
Certo, stuprata e distorta dal tono ironico e freddo dello stregone che ne occupa il corpo, ma è la sua.
Dovevi prendere anche quella, dannato parassita?, si chiede, tracciando con il dito il profilo di uno dei tanti teschi che lo circondano.
Sbuffa, quasi annoiato. A volte vorrebbe dei coinquilini meno inquietanti. O per lo meno, non così silenziosi.
Almeno non sarebbe obbligato a stare a sentire l'altro e la voce del suo migliore amico morto sarebbe rimasta dove doveva stare: nel suo ricordo.
"Ti ha abbandonato ben prima che entrassi nella sua testa, Sei occhi..."
Lo sa, lo sa benissimo. E lui l'ha ucciso. Si potrebbe dire che il conto tra lui e Suguru ora penda decisamente più dalla sua parte.
Inoltre avergli fatto un buco nel petto a quanto pare non è che un piccolo particolare anche per il vecchio amico, dato che non l'ha fermato dal cercare di ammazzare con le sue mani quel bastardo che ha scambiato il suo cadavere per la sua nuova casa.
Quindi non gli pare il caso di soffermarsi su una sottigliezza come la loro rottura di dieci anni prima.
"Aspetta, scusa. Che lasciassi il suo cervello a marcire, per prendermi la sua tecnica".
Lascia cadere il teschio a terra, alzando platealmente gli occhi al cielo. O verso dove pensa si trovi il cielo, da qualche parte che non sia l'interno della Soglia dei dannati.
Ora almeno è sicuro di non essere impazzito. Se si trattasse di un'allucinazione, se quella voce fosse un parto della sua mente sull'orlo della follia, non cercherebbe di smuoverlo con del semplice splatter.
Lui ha visto il cadavere dell'amore della sua vita usato come una marionetta. Ha visto la sua scatola cranica divelta, il suo corpo smontato come un giocattolo.
Il ricordo del suo ultimo sorriso, fatto a pezzi dall'immagine di un ghigno aperto come una ferita sul viso tanto amato.
È un incubo che ha già vissuto. Non gli serve immaginare un bel niente.
Quindi, si tratta del ragazzaccio in persona, che si diverte a monologare ed a tediarlo come il cattivo standard di un film di serie b.
"Mi spiace vederti affogare nei ricordi, Sei occhi".
Gli viene da ridere. Può immaginare quanto l'altro sia dispiaciuto.
Raccoglie un altro teschio da terra, lo osserva, decidendo che sì, può andare bene.
Potrebbe andare bene.
Se fosse una persona totalmente orribile, sarebbe perfetto per farci due palleggi. Ma non lo è, lui è uno dei buoni, anche se annoiato.
Molto annoiato.
Con un sospiro, abbandona nuovamente l'osso a terra.
"A differenza tua, sono una persona gentile...", riprende Kenjaku, a quanto pare a corto di impegni per la serata.
"Ora lo citi anche? Stai perdendo colpi...", risponde lui ironico, con la caricatura di un sorriso che gli tira il volto.
"Oh quindi non ti sei strappato la lingua, Sei occhi", gongola il suo interlocutore in filo diffusione.
"Effettivamente avrei voluto continuare il gioco del silenzio, ma stavo cominciando ad annoiarmi", sbeffeggia in risposta.
"Sai, potevi darmi dei compagni di cella più interessanti".
Questa volta, anche l'altro stregone ride. E per un momento assomiglia davvero a Suguru.

"... Comunque era solo per dire che non sono io quello che gli ha portato via mezzo torace..."
Silenzio. A questo non ha intenzione di rispondere.
"Il suo corpo era un disastro quando ci ho messo mano".
"Tu non hai mani, sei uno schifoso cervello parassita...", ripete tra sè e sè. "e gli schifosi cervelli parassiti non hanno mani".
Vorrebbe urlarglielo, aggiungendo che un po' gli dispiace non abbia arti e collo, perché strapparglieli sarebbe stato il suo passatempo preferito una volta uscito da lì.
Non fa niente di tutto ciò. Non gli darà la consapevolezza di poterlo irritare tanto. Non la merita.
"E l'hai ridotto così, dopo avergli detto che era il tuo migliore amico, dopo avergli detto ... "
La voce si ferma, il tono diventa più dolce. "Forse sperava che lo risparmiassi..."
Gojo vorrebbe quasi ridergli in faccia, ne avesse una che non fosse quella di Geto.
"Non dire stronzate", sbotta, senza riuscire a trattenersi. "Suguru non era un codardo. Non era nemmeno uno stupido..."
"Non ti facevo così maleducato, Sei occhi".
"Sorpresa, sorpresa", canticchia.
"Comunque, hai ragione... non è stato quello il suo ultimo pensiero".
La voce si fa più distante, lontana. Una fitta gli attraversa la tempia e nel tempo di un respiro, fatto di panico e confusione, lui si sente estraneo a tutto questo.
Sono Gojo Satoru, sono lo stregone più forte.
"Vorresti saperlo? A chi è andato il suo ultimo pensiero?"
Sono Gojo Satoru, sono lo stregone più forte e quello non è Suguru, si ripete, tornando alla consapevolezza.
Sbatte le palpebre una, due volte sotto la benda. È ancora qui.
"Va bene, non parliamo di quello... Sai, ho un po' sottovalutato il vostro rapporto. Hai visto anche tu, vero?"
Si, Satoru ha visto. Ma soprattutto ha sperato. Lo fa ancora.
"È stata una novità anche per me, sai?  Nessuno degli altri aveva mai tentato di riprendere il controllo, di ribellarsi..."
Gojo è costretto ad ascoltare, ma la sua tortura non si limita a questo. Può vedere Il ghigno che distorce il viso di Geto; Può sentire, come se gli strisciasse addosso, la soddisfazione di quell'essere per aver sottomesso il tentativo di Suguru di cacciarlo via dal suo corpo.
"A quanto pare non si smette mai d'imparare..."
Vorrebbe sentire spavento, paura o almeno rabbia nella voce dell'altro. Invece in quelle parole legge solo curiosità, stupore. Fastidio, forse.
Come se Suguru non fosse che un insetto particolarmente restio a farsi impalare in una collezione di qualche biologo particolarmente sadico.
"... Ehi, il tuo monologare comincia ad essere irritante", sbuffa, "potresti stare zitto?"

In un attimo, ritorna il silenzio. Un secondo, dieci, un minuto. Deve contare gli attimi ad uno ad uno nella sua testa, visto che lì dentro il tempo non pare passare, ma il suo computo arriva a trecento e nessuna voce è tornata a tormentarlo.
È bastato così poco?, si chiede, prima che un urlo gli geli il sangue.
"Ridammelo!"
Yuji.
"Restituisci Gojo sensei!"
Scatta, strappa via la benda dal suo viso, implora i suoi Sei occhi di trovare, di capire, ma nulla. Solo quell'urlo che si ripete.
Realizza al volo e, di nuovo, è la sua anima a dare la soluzione.
Stupido, coraggioso, folle ragazzino, sta combattendo per lui, lo stanno facendo tutti.
Sente la paura arrampicarglisi addosso.
Che cosa ha fatto? In cosa li ha lanciati? Sono poco più che bambini, si fidavano di lui. Si fidavano del loro professore.
"Lo senti urlare, Sei occhi?"
Il suo carceriere ritorna, con la sua subdola cantilena, a scavargli nel cervello.
Quando sta per cominciare ad elencargli nel dettaglio che cosa gli farà se oserà far del male ad uno a caso dei suoi studenti, qualcosa rotola ai suoi piedi.
Un occhio. Un occhio dall'iride castana.
Lo riconosce. Lo riconosce subito.
Nobara
"Cosa le hai fatto?", ringhia al nulla, senza riuscire a smettere di guardare.
Vorrebbe strapparsi i suoi, di occhi, tutti i suoi maledetti, ora inutili Sei occhi.
Basta che smetta.
"Io?", la voce dell'altro è scossa da una risata leggera.
Può sentire il battito del proprio cuore rimbombare nelle orecchie, frenetico. Il respiro che entra e esce dai suoi polmoni.
Il tempo sembra più fermo ora che mai, per quanto sia assurdo.
Pensa a Kugisaki, a quanto le brillava lo sguardo se alla fine di qualche missione si ritagliava mezz'oretta per portarla a fare compere.
Non riesce a realizzare.
Quello ai suoi piedi non può essere il suo occhio. Non può.
"Sei stato tu, Sei occhi..."

Non è vero.

"Stanno tutti andando in pezzi, Gojo Satoru, ed è colpa tua".

Sono Gojo Satoru, sono lo stregone più forte e io posso proteggerli.

"Solo tua..."

Io posso proteggerli tutti.

"Li senti urlare?"

Grida. Sente delle grida.
Ricordano l'agonia di un animale ferito, coprono la risata gli rimbomba in testa. .
Scatta seduto, il viso affondato nelle mani.
Non capisce subito che l'unica voce nella stanza è la sua.
Le urla, sono le sue.
Se ne accorge tardi, in ritardo il suo cervello elabora che un bambino di sei anni è nella stanza a fianco, che a sentirlo morirebbe di paura.
Troppo tardi, perché Megumi è in piedi, piccola statua di cera incorniciata dal quadro della porta, il peluche nero in una mano, il bianco stretto al petto.
"Satoru", sussurra con voce flebile e spaventata.
Sentendosi chiamare, alza al volo lo sguardo sulla piccola figura.
Il bambino sembra anche più piccolo dei suoi sei anni.
Assonnato e impaurito, Megumi tiene gli occhi fissi su di lui, le labbra serrate. Le mani scosse da tremiti.
È bloccato, fermo su un ricordo triste o su una paura tornata a tormentarlo quando si è svegliato perché un adulto urlava. Ed ora il piccolo è lontano, intrappolato dove anche Gojo fatica ad arrivare.
E non è buono. Per nessun bambino, meno che mai per Megumi.
Cosa gli direbbe Utahime? Qualcosa come 'Non invadere il suo spazio, lascia che gestisca le sue emozioni' o 'porta lui nella tua calma, non cadere tu nel suo caos'.
Facile, se almeno lui fosse calmo. Peccato che non lo sia, per nulla.
In ogni caso deve farcela a riprendere in mano la situazione, a tornare alla realtà, e deve farlo in fretta, è lui l'adulto qui.
Fa un respiro profondo, un altro.
"Cucciolo, mi dispiace", prova, la voce meno tremante di quanto avrebbe pensato.
Tende una mano verso il bambino, forzandosi di sorridere.
"Sto bene, non volevo svegliarti".
Per un istante tutto è fermo, è difficile per Gojo non correre a prenderlo tra le braccia.
Poi qualcosa nello sguardo di Megumi si incrina, i suoi occhi diventano lucidi, il labbro inferiore sporge tremulo. In un attimo è arrampicato sul letto, il visino nascosto contro il suo petto, i piccoli pugni che stringono freneticamente la maglia del suo pigiama.
"Satoru, non te ne andare", sussurra piano, spezzandogli il cuore.
"Non te ne andare anche tu..."
"Non vado da nessuna parte, piccolo...", rassicura, stringendolo a sè. Dopo il sogno appena vissuto però, è una promessa che ha paura a fare.

Sembrano passate ore, quando Megumi si è finalmente riaddormentato.
Il viso nascosto nell'incavo del suo collo, le mani che non lasciano la stoffa bianca della sua maglietta.
Cercando di fare meno movimenti possibili, Satoru si appoggia alla testiera del letto, Megumi sempre rannicchiato contro il petto.
Le sue tempie pulsano al ritmo dell'emicrania regalatagli dalla nottata appena trascorsa. Le immagini del sogno, subito tanto nitide da non sembrare nemmeno sogni, stanno tornando ad essere fumose e confuse.
La paura che lo ha scosso al risveglio, però continua a rimanere lì. Nelle sue ossa.
La sveglia segna le sei della mattina. Quando avrà cuore di posare Megumi sul letto, magari si farà una doccia.
Non è pronto, ma la sua giornata deve iniziare.


*

"Quei jeans sembrano quelli delle mie sorelle..."
Suguru tiene il cellulare tra spalla e orecchio, rimpiangendo i suoi auricolari, ormai proprietà di Nanako.
Maledice le cuffie della ragazza, fuori uso dalla sera prima, mentre cerca in borsa l'abbonamento della metro, prima di far scorrere la tessera sul sensore del tornello.
Comunque avrebbe potuto fare a meno di tutto questo teatrino, mettere in attesa la chiamata e avere le mani libere, dato che il silenzio dall'altro capo del telefono gli fa quasi pensare che Shoko abbia riattaccato. A questo punto non sente di poterla biasimare.
Solo a ripetere la frase con cui ha iniziato la conversazione con il tutore del suo allievo, nonché ragazzo che sogna da mesi (ora a quanto pare anche senza vestiti da ragazzina di quindici anni) si sente più idiota di quando ha avviato la chiamata per raccontare alla donna la giornata precedente.
Ed il livello di imbarazzo era già abbastanza alto quando è stato svegliato dalle sue sorelle ed ha dovuto distrarle a suon di zuccheri dall'averlo trovato praticamente svenuto sul pavimento del bagno.
  Può essere sull'orlo della follia, ma ha ancora un minimo di istinto di autoconservazione, quindi nonostante le promesse fatte alle ragazze, non crede proprio che dirà a Ieiri quest'ultimo particolare.
Almeno non per telefono.
E no, non basta il ricordo degli occhi spalancati e indagatori di Nanako, nè quello del labbro tremulo di Mimiko, nè qualsivoglia immagine il suo cervello intenda proporgli, giusto per assicurarsi che non smetta di affogare nella vergogna.

"È una frase stupida da dire", commenta dopo quelli che sembrano interi minuti di mutismo l'amica.
"È così tanto carino?", aggiunge poi, con un tono che è un misto di curiosità e stupore.
"Ieiri, non è questo il punto", taglia corto. Basta quella piccola e quasi innocente, almeno per gli standard di Shoko, domanda, perché nella sua testa il sorriso leggermente spiazzato di un normale ragazzo con una felpa rosa troppo larga e un paio di jeans un po' corti per essere indossati da un trentenne, si fonda con uno più strafottente, dispettoso, familiare.
Lo sa anche lui di aver detto una frase dannatamente stupida, di sicuro l'ha fatto sembrare uno stronzo, ma quale era l'alternativa? 'Ciao! Ti amavo e mi hai ucciso in una vita precedente?'
Questo pensiero non fa tempo a formarsi nella sua mente, che subito altre immagini lo rincorrono. Un sorriso triste, una parola sussurrata, la luce dell'alba che colora tutto di lilla e arancio.
Freddo.
Per farlo tornare alla realtà, serve la voce di Shoko.
"Hai interrotto la mia colazione, se può esserci un risvolto alla tua noiosissima vita sentimentale, voglio saperlo".
Alza un sopracciglio, mentre lancia uno sguardo al tabellone dei treni, giusto per essere sicuro che il binario sia sempre lo stesso.
"Non penso che due sigarette e un caffè preso alle macchinette si possano definire colazione", quasi canticchia.
"Beh, resta il fatto che il mio tempo libero sia agli sgoccioli e far da psicologa a te non rientri tra le voci sul mio libro paga..."
Venale, pensa Suguru.
"Posso sempre offrirti un pranzo per sdebitarmi", tenta, prima di aggiungere, "un pranzo vero".
Ci tiene a specificare, ricordando come Shoko già ai tempi degli studi, facesse passare un pacchetto di patatine o una mela come pasto completo.
"Resto un patologo, Suguru. Come ti ho già spiegato sei fastidiosamente vivo per essere mio paziente..."
Sente la voce della donna più distante, ma non si preoccupa di controllare il funzionamento della linea. Conosce l'amica così bene da poter indovinare i suoi gesti. Quasi la vede allontanare il telefono dall'orecchio per guardare l'ora.
"Giornata piena, niente pranzo. Quindi hai ancora esattamente tre minuti..."
Suguru da un'occhiata all'orologio al polso, tra mezz'ora deve essere a lezione.
Ha decisamente bisogno di parlare con qualcuno e tre minuti non sono certo sufficienti. Quindi gioca sporco, bluffando.
"Ci facevo sesso", cede, tagliando con l'accetta tutto il contorno, cercando di tacere quella voce nella sua testa che gli ricorda l'imbarazzo che proverà davanti al tutore del suo allievo alla prossima riunione genitori-studenti.
"Nel sogno", specifica, dato che ha chiaramente sentito la donna trattenere il respiro. "Non in uno ripostiglio o in aula vuota a scuola".
"Interessante comunque", concede l'amica, "forse posso prendermi un'ora per pranzo, tanto i miei pazienti non vanno da nessuna parte". La voce atona unita al solito humour nero gli strappano una risata.
Sta per chiudere la telefonata, quando la donna riprende a parlare.
"Non mi innamoro di ragazzi a caso che mi perseguitano in sogno".
"Prego?", chiede stordito.
Confuso non per le parole di Shoko, ma per il ragazzo a pochi metri da lui.
Alto, dai capelli bianchi e con indosso gli occhiali da sole.
È appena sceso dal treno arrivato al binario, porta una cartella in spalla e tiene un bambino per mano.
Un bambino con una testa di capelli corvini a punta e un peluche di cane nero stretto tra le braccia.
"È quello che hai detto esattamente due giorni fa, Suguru..."
Sbatte gli occhi, ricordandosi di essere ancora al telefono con Shoko, mentre cerca vie di fuga da quell'incontro che ora non sente proprio di poter affrontare.
Troppo tardi, perché il piccolo Fugushiro Megumi si volta verso di lui e lo riconosce. Gli tira un'occhiata annoiata, prima di scuotere la manica del suo tutore.

"...non mi innamoro di ragazzi a caso che mi perseguitano in sogno".

"Satoru guarda! C'è Geto sensei!".





*Shiro: favola giapponese.

E questo doveva essere un capitolo breve e leggero. Poi che è successo? Non saprei dirlo, ma è stata psicologicamente una faticaccia.
Annuncio infatti che per il prossimo mese ripiombo nella mia confort zone di Tattoos and coffee e prequel, che se no mi deprimo... 😅
Precisazione sui personaggi: ci sono molte fic, bella e su cui non ho nulla da dire, in cui Gojo è tipo la persona migliore del mondo. Ecco, nelle mie no. Soprattutto qui, no.
Passa dall'essere un idiota infantile ad uno psicopatico infantile. Che però ci prova ad essere una persona "migliore", che sia per il figlioccio o per i suoi studenti, poco importa.
Perché? Perché è così che vedo il personaggio ed è per questo che lo trovo uno dei meglio costruiti da Gege.
Perché sto pippone?
Così, per mettere le mani avanti. Che poi non si dica che non ho avvertito.
Anyway, questa è la fan art che ha ispirato la mia testolina per la prima parte del precedente capitolo.
https://mobile.twitter.com/_3aem/status/1612124621842833410/photo/1
Un abbraccio, Amy
Ps. Precisazione che potrebbe incuriosire e spingere verso gli spoiler.
In questa storia, ci sono spoiler del manga fino alle uscite italiane, quindi direi ad oggi volume 17.
Per chi come me è in pari con le uscite giapponesi e si guarda pure gli spoiler, scusate. Giuro non volevo, scusate.
   
 
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