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Autore: lady igraine    02/02/2023    0 recensioni
"La guardo e la sua presenza sulla soglia di questa casa mi pare la cosa più ovvia e naturale, le sorrido e il mio gesto sembra confonderla invece che infonderle sicurezza.
Posso capirlo, c’è un’aria strana, farraginosa, malsana. L’aria che può respirarsi solo tra due estranei che si conoscono meglio di chiunque altro."
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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QUANDO ERAVAMO SORELLE 



 
 
La luce radente di un assolato pomeriggio estivo, le orecchie colme dei suoni dell’estate, frastornate dal frinire delle cicale e dallo sciabordio dell’acqua nella quale sono immersa, le ombre dissipate dalla calura e dal cielo terso.
Questi dettagli sono sempre appartenuti a lei.
A lei, o ad un noi di un tempo più remoto, un luogo slabbrato e stinto, dai contorni indefiniti, nella quale abbiamo confinato un frammento delle persone che siamo diventate, per cristallizzare per sempre il ricordo di cosa eravamo quando ancora eravamo insieme.
La sua voce è stata parte integrante di un corredo di suoni che racconta una vita labile d’ingenuità e tenerezza, fumosa come ogni evento racchiuso tenacemente in un cassetto della memoria e riguardato e spiegazzato all'infinito, fino a modificarlo al punto che, forse, non ricordo realmente ciò che è accaduto, solo ciò che avrei voluto fosse.
Mentre osservo, con la lentezza esasperata della calma, i rombi di luce infrangersi sulla superficie dell’acqua e sulla mia mano candida, l’ho sentita chiamare il mio nome. La cadenza della voce, la remissività che ha permeato ogni sillaba, ha il sapore di un’eco che attraversa lo spazio e il tempo per giungere ad un qui e adesso.
«Alhena»
Non l’ho capito, non subito, che questo è il presente, che questa è davvero la sua voce, strappata da una reminiscenza che è dolce e dolorosa insieme.
«Alhena»
Esco adagio dalla piscina, sento le goccioline d’acqua colare ed evaporare prima di raggiungere terra e un brivido di freddo mi percorre la schiena, la pelle fresca si increspa in un sottile strato di pelle d’oca. Ho preso la salvietta e mi ci sono avvolta, prima di attraversare il giardino ed aggirare la casa.
La vedo sul cancello, appoggiata quasi timidamente all’inferriata, riconosco l’imbarazzo di qualcuno che non sa esattamente cosa sta facendo, che non è sicuro di trovarsi nel posto giusto ma che ha raccolto tutto il proprio coraggio per fare quel passo. Per suonare quel campanello.
La guardo e la sua presenza sulla soglia di questa casa mi pare la cosa più ovvia e naturale, le sorrido e il mio gesto sembra confonderla invece che infonderle sicurezza.
Posso capirlo, c’è un’aria strana, farraginosa, malsana. L’aria che può respirarsi solo tra due estranei che si conoscono meglio di chiunque altro.
 
 
Sono passati sei anni dall’ultima volta che ci siamo viste.
All’epoca, lei non sapeva i segreti pensieri che covavo nell’animo, né quanto fossi risentita e mi fossi sentita tradita da piccoli gesti che avevano inficiato lentamente e con tenacia il nostro rapporto. Avevamo grandi progetti, forse è così che funziona, è da qui che si snoda ogni vita, da progetti falliti, futili e dimenticati.
La nostra amicizia è stata il più grande fallimento, me se ce lo avessero detto anche solo il giorno prima, non lo avremmo creduto possibile.
Invece, ricordo quella sera, l’ultima, di averla guardata negli occhi e di aver percepito distintamente che quello che le stavo dicendo segnava una fine, ogni parola mi allontanava da ciò che eravamo state e da lei. Aveva gli occhi lucidi di un cucciolo, colmi di un rimpianto che non aveva più valore.
Lei non lo aveva capito, che la stavo salutando con un addio.
Eravamo ragazzine e stringevamo il mondo tra le mani, nelle notti ungheresi Budapest sembrava un sogno di pietra e luci, la brezza che soffiava sul Danubio ci innalzava in uno stato di sublimazione strappato dal tempo, l’assurda, arrogante sensazione, di essere al di sopra delle inezie umane e di avere infinite strade dipanate di fronte a noi. Sedute sul ponte illuminato, guardavamo i traghetti che infrangevano la superficie dell’acqua nera, smerigliata, pronta a riflettere la meraviglia di una città che prende vita, al buio.
Era la fine del nostro viaggio, un mese di peregrinazioni con uno zaino in spalla e poche ore di sonno tra un treno e l’altro, una capitale e poi un’altra. Quell’avventura che avrebbe dovuto riunirci, mi aveva mostrato con una decisione imbarazzante che ormai eravamo diventate due persone diverse. Cosi diverse che, avevo capito, non mi era più possibile procedere su una via parallela alla sua senza allontanarmi da me stessa.
Poche ore prima, nella camera dell’ostello che era stato nostro rifugio in quegli ultimi giorni, sul letto a gambe incrociate come nell’infanzia, lei si era sfogata. Mi aveva raccontato tutto il suo rancore, piccole cose che prima pesavano poco ma che gli anni avevano dilatato, ingigantito e smagliato ed ormai ricoprivano tutto, la facevano soffrire. Mi aveva smosso la medesima indulgenza che da bambine mi spingeva ad abbracciarla, a sottrarla alla sua casa, alla difficile vita familiare che era la sua ombra oscura ed era specchio della mia.
Era stato proprio quel dolore ad unirci, come una predestinazione. Ho sempre pensato che il mondo mette sul nostro cammino degli svincoli, delle vie segrete e oscure che possono salvarci, se si ha il coraggio di imboccarle, e forse due essere uguali che si incrociano e si trovano è il più grande dono e mistero della vita.
Lei era stato questo per me.
Nell’intimità della penombra, tra mobili spaiati e rischiarati da una luce giallognola, anche io avevo sentito il bisogno, per la prima volta, di raccontarle le mie fragilità, debolezze nella quale mi ero crogiolata fin dall’infanzia combattendo contro una me stessa inetta, puerile, che si sentiva facilmente mortificata e non sapeva uscire dal proprio baratro.
Certe verità non le avevo mai condivise perché, nonostante avvertissi similitudini tra di noi, ero io la sorella maggiore. Volevo proteggerla, ai suoi occhi ero incrollabile e non volevo toglierle una certezza a cui aggrapparsi. Non volevo che provasse la frustrazione di non poter far nulla per aiutarmi.
Me lo sono chiesta, come non avesse capito che queste ammissioni improvvise fossero in realtà un congedo, volevo solo darle le ragioni per cui, in qualche modo, quell’amicizia era diventata per me insostenibile.
 
Quell’ultima notte, quell’attimo sospeso rubato al risentimento e al fallimento, lo avevamo trascorso ridendo, con i piedi nel vuoto e gli occhi all’orizzonte. Lo avevamo trascorso a scattarci foto, a scherzare come se tutte le verità che ci eravamo confessate non pesassero sulle nostre spalle.
L’avevamo trascorsa in silenzio, anche, a fissare il cielo senza stelle.
Il castello di Buda, sulla riva opposta, sembrava una dorata dimora delle fate che vegliava sulle acque pacate del Danubio, un sentiero lastricato di stelle e speranze.
 
 
A modo suo, nonostante tutto, lei è sempre stata ingenua, pur con tutta la malizia e le esperienze acquisite una parte del suo essere è rimasta intonsa e innocente come le creature più pure. Non è mai riuscita a scorgere quanto oscura e torbida fosse la mia anima, melmosa, poco nitida quanto il fiume che scorreva sotto i nostri piedi. Le mie azioni e i miei pensieri le sono rimasti estranei nonostante la vita condivisa insieme.
Da bambine, quando le cose andavano male, sapevamo rifugiarci solo una nell’altra.
L’immagine più nitida che ho di lei è illusoria. È il suo volto, piccolo e triste, rattrappito dal dolore, quando si presentava dinnanzi alla mia porta, dopo che sua madre l’aveva cacciata di casa, più spesso di quanto sia lecito ammettere. Ogni volta giungeva con il suo cuscino giallo e la copertina della sua infanzia, stretti tra le braccia. Quella coperta consunta, che aveva supplicato sua nonna di sistemare perché era il suo tesoro, la cristallizzazione di una sicurezza, di un momento perso in cui era stata felice.
Ci attraversava il paese, con quei suoi cimeli, per raggiungermi.
Ancora oggi, sento una morsa d’affetto, di tutte le cose che possedeva o avrebbe potuto scegliere, queste due erano le uniche che non mancava mai di avere con sé, poco importava se fosse inverno, se non avesse la giacca o fosse ancora in pigiama. Le infondevano calma, un punto fermo nello smarrimento del rifiuto.
Quando ero io ad essere cacciata, e i miei parenti più prossimi mi raccoglievano come un randagio, lei piangeva. Temeva di non vedermi più, anche se mia madre alla fine tornava a riprendermi.
Allora sognavamo in grande, era più semplice esistere quando condividevamo le ipotesi di un futuro non troppo distante in cui lei avrebbe viaggiato, sarebbe andata a studiare lontano, ed io avrei scritto e ci saremmo riscattate.
I sogni sono belli anche quando non si realizzano, sono la luce di un fiammifero in una stanza oscura. Siamo sempre state due inconcludenti, ma quei fiammiferi li abbiamo protetti per darci un posto sicuro dove tornare. Non ho mai dimenticato la calda sensazione di fiducia, il sollievo che ho provato nella semplice certezza della sua esistenza, non l’ho mai più sentita, quella sicurezza. Non con tale nitidezza.
Sono sempre stata più simile a Narciso, precisa, misantropa, studiosa, raccolta in mille personali elucubrazioni. Lei è un Boccadoro, aveva bisogno di persone, del contatto, del calore. Non le è mai importato come ottenerlo, anche se i metodi scelti spesso sono entrati in conflitto con la mia natura.
Nonostante questo, è stata più di una sorella, è stata una parte di anima strappata, per lei ho nutrito la più profonda tenerezza. La sua sola presenza mi ha tenuto legata ad un brandello di umanità che, non ci fosse stata, avrei perduto, perché il rancore senza affetto come contraltare consuma. E io mi sarei consumata.
 
 
Le sedici ore di treno necessarie al rientro, sono state le ultime trascorse insieme.
So che non lo ha capito, d’improvviso si è accorta che non rispondevo più alla sua voce, quando mi chiamava dalla finestra, non visualizzavo più i suoi messaggi e il cancello non si è più aperto per lei. Mi ha odiata. Ha pensato che ho avuto torto, non aveva compreso che tutte le bugie e quell’ultimo anno mi avevano logorata, perché non glielo avevo detto, non ho potuto confessarle quanto fossi mortificata. Abbiamo finto di non vederci per strada e, alla fine, non ci siamo più viste davvero.
 
 
 
Forse è stata la nostra amicizia la zavorra che ha frenato tutti i nostri progetti, perché è partita, ad un certo punto, e ha viaggiato tanto, lontano, ovunque. Mi è capitato di sentirlo, di sentirmi raccontare quanti posti meravigliosi avesse visto, in quante avventure si fosse lanciata.
Mi ero detta, anni fa, che un giorno lei avrebbe compreso che la sua colpevolezza non era in un atto, era nell’intenzione, e chissà dove sarebbe stata quando fosse successo, ma in quel momento mi avrebbe pensata e il mio ricordo l’avrebbe fatta sorridere ancora, non l’avrebbe avvelenata del livore che le ho instillato dentro.
 
Ora che è qui davanti a me, è come se non se ne fosse andata. L’ho sempre associata a Konrad, non per la sua creatività, ma per l’acredine, per quel suo fucile. Per quella pallottola che forse non sarebbe mai stata sparata, ma che comunque mirava alla testa del suo migliore amico. Ecco, questo era per me, c’è voluto molto tempo per attenuare tutto questo risentimento. Eppure ora che sono rimaste solo braci sotto la cenere, sento che possiamo parlarci del male che ci siamo fatte senza più odiarci.
 
 
 
Per la prima volta da quando ci conosciamo, scorgo in lei una scintilla di comprensione.
Mentre mi aspetta, mi vesto rapidamente, poi usciamo. Camminiamo verso il parco dove abbiamo giocato da piccole, ci sediamo sul ponte di legno dove molte volte abbiamo cenato con una pizza improvvisata la sera, da adolescenti, quando proprio non ce la sentivamo di rientrare in casa.
Mi racconta della sua vita, di come la pandemia l’abbia costretta a rientrare. Di quanto sia stato surreale vivere di nuovo di fronte a casa mia, guardare un luogo che ha sempre avuto il sapore di casa e non poterlo raggiungere.
E forse quei viaggi sono stati anche questo, prendere il tempo che ci serviva per guardarci di nuovo in faccia. È questo che l’ha spinta a tornare, così mi dice.
«In questi mesi di lockdown, non sai quante volte sono arrivata sul tuo cancello e poi sono tornata indietro»
Ed io non ho il coraggio di dirle che lo so, che mi ero accorta di lei ma ho lasciato che trovasse il coraggio, perché questo era il suo nostos, non il mio, spettava a lei ritrovare la strada, o sarebbe stato di nuovo tutto sbagliato, saremmo ricadute negli errori del nostro controverso rapporto.
«Non ho più avuto un’amicizia come la nostra» mi dice e io, beh, io credo di non averle perdonato anche questo, di avermi fatto perdere qualcosa che non potrò più riavere, che era solo nostra, che esisteva perché esisteva lei. È triste realizzare che si inganna più se stessi che gli altri, ci si promette realtà che non possono esistere, si pronunciano con incrollabile certezza parole che nella vita non hanno valore, e non importa quanto si lotti per persuadersi: la verità non può mutare, le promesse sì.
Nonostante lo sapessi, avevo promesso più a me stessa che non a lei che non sarebbe mai capito, non ci saremmo perse, saremmo sempre state noi, sarebbe sempre stata mia sorella.
Avevo mentito, ora lo so.
C’è però una certezza che non è mutata, la nostalgia che non mi ha mai abbandonata pensando a lei: una parte di me, la bambina che sono stata, non ha mai smesso di aspettarla su quel cancello, di vederla ricomparire oltre la curva, per giocare ancora una volta insieme.
Quindi, forse, non ho mentito.
Siamo due estranee ora, ma sarà sempre mia sorella.
 
  
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