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Autore: AlessandraCasciello    04/02/2023    0 recensioni
“Posso andare da sola”, gli dissi, sistemandomi meglio la borsetta.
“Piantala. Ti riporto io”
“Non c’è bisogno, davvero” come al solito, non mi diede ascolto, incamminandosi a passo svelto verso la sua Audi.
“Un giorno mi spiegherai anche perché vai così veloce, diamine!” mi lamentai, stringendo forte la cintura vicino al mio petto.
“Oh cara, non so se vorrai davvero saperlo”.
Genere: Mistero, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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“Sarebbe bastato davvero poco, Olivia” singhiozzò lui, guardandomi con le mani tra i capelli. Io lo fissavo, con gli occhi appannati, cercando di proferire qualche parola che veniva puntualmente interrotta dai singhiozzi. “I-io…io non volevo...non...” “Non volevi, Olivia?” tuonò Marco. I suoi occhi iniettavano sangue, e la vena del collo era ormai visibile. Indietreggiai, poggiando le spalle al muro. “Ho bevuto, non mi sono resa conto...” “Non ti sei resa conto mentre scopavi con quell’imbecille?” abbassai lo sguardo, strizzando gli occhi. Una lacrima grossa come una goccia di pioggia cadde per terra, bagnando il pavimento. La vergogna mi assaliva, completamente. Dimenticai il mio nome, la mia età. Dimenticai da dove provenissi e chi fossero i miei genitori, quali fossero le mie passioni e le cose in cui facevo decisamente schifo, come a cucinare, per esempio. Riuscivo solamente a sentire i pugni di Marco sul muro e i suoi singhiozzi. Facevo davvero così schifo? Così tanto da riuscire a tradire il mio fidanzato a diciotto anni, senza pudore, solamente per una minima attenzione in più data dal più figo della scuola? Ero davvero così debole? Forse sì. Forse, a diciotto anni, si ha il diritto di essere vulnerabili e di cadere alla prima folata di vento. E io stavo rischiando, parecchie volte, di cadere. Fino a quando non l’ho fatto davvero. “Avevo letto i tuoi messaggi con quella…io...ho pensato che..” “Hai pensato male, Olivia! Hai pensato malissimo! Sara è una mia amica” “Non sembrava, da come le scrivevi”. Lo vidi guardarmi in cagnesco, intimandomi di tacere con l’indice incollato sulle sue labbra, ora di un colore violaceo. “Taci. E se vuoi saperlo, Sara è molto meglio di te. Ma molto, molto meglio”. Strizzai gli occhi in una smorfia di dolore, facendo uscire altre lacrime. “Ti prego, Marco. Ti prego, non possiamo finire così. Io senza di te non sono niente. Te lo giuro” “Non mi interessa. Riempiti di qualcosa, Olivia. Di qualsiasi cosa. Basta non di me”. Se ne andò, sbattendo la porta di camera mia. Non lo rividi più. Non lo sentii più. Marco se ne era andato – per colpa mia – e io avevo, definitivamente, perso una parte di me. Avevo ricollezionato i pezzi del mio cuore con molto tempo e cura, cerando di ricordarmi chi fossi prima di lui. Difficile però tornare ai miei diciassette anni. A quel ricordo doloroso, strinsi forte il cuscino. Allungai la mano sul comodino, prendendo il telefono e vedendo l’orario: mezzogiorno e mezza. Sbuffai, prendendo coraggio per alzarmi dal letto. Con un calcio mi liberai dalle lenzuola, infilandomi le ciabatte. Guardandomi allo specchio di sfuggita, sorrisi alla tintarella presa. Persino i miei capelli castani stavano acquistano un bellissimo color dorato. Lo squillo del cellulare mi fece tornare al pianeta terra. Accigliata dal numero di telefono sconosciuto, risposi. “Pronto, chi è?” “Io”. La voce di Carlo mi gelò il sangue. Come era riuscito ad avere il mio numero di telefono? “Ciao”, riuscii a dire, sedendomi a peso morto sul letto disfatto. “Uhm...sei libera per pranzo?” deglutii, prendendo qualche secondo per pensare. “Sì”. “Perfetto. Tra cinque minuti sto sotto da te”. Riagganciò, lasciandomi di stucco. Mi trovai a sorridere, nonostante il suo modo burbero e fuori contesto di invitarmi ad uscire. Quindi, Carlo era tornato in città. Era stato via il weekend, e appena tornato mi aveva chiamato. Ma come era riuscito ad avere il mio numero? Mi alzai di scatto, vestendomi con la prima cosa che trovai sulla sedia. Salutai velocemente i miei, inventandomi un pranzo al volo con Serena, chiudendomi la porta alle mie spalle. Vediamoci a qualche metro di distanza da casa mia. Non rispose, ma ero sicura che avesse recepito. Infatti, lo trovai parcheggiato cento metro più avanti, appoggiato a gambe accavallate alla sua macchina, mantenendo le mani nelle tasche. I capelli erano più disordinati del solito, e i suoi jeans sempre bucati di un colore scuro. Quando mi vide, abbozzò un sorriso, facendomi segno di entrare in macchina. “A cosa devo l’invito?” schizzò subito con la sua Audi, girandosi verso di me. “Avevo voglia di vederti”. Sorrisi, imbarazzata. Guardai fuori dal finestrino, osservando il mare blu, calmo, colorato dai costumi sgargianti dei turisti a mollo. La pace che mi dava San Benedetto, Carlo la completava. “Dove mi porti?” domandai, sistemandomi bene la cinta. “Sorpresa” mi disse, facendomi l’occhiolino. Riconobbi la strada che portava a casa sua, vicino al borgo antico. Mi fece strada, lanciando le chiavi sul comò all’ingresso. Sbarrai gli occhi quando si tolse la maglia, gettandola sul divano. Lo vedevo muoversi convulsamente tra il salone e la cucina, tirando fuori l’occorrente: tovagliette, piatti, bicchieri, posate. Timidamente, mi feci avanti, guardando cosa bollisse in pentola: pasta al sugo. “Ho pensato a una cosa semplice...” si scusò Carlo, grattandosi il capo. Sorrisi, annuendo soddisfatta. “Va benissimo” “Se vuoi vestirti più comoda...” lo vidi entrare in camera sua, prendendo i vestiti che mi aveva portato la volta scorsa. Lo guardai titubante, non sapendo cosa fare. Acconsentii per educazione, andandomi a cambiare in bagno. Quando mi vide con i suoi calzoncini e la sua maglietta larga che mi arrivava fino alle ginocchia, si liberò in un ghigno, squadrandomi da capo a piedi. “Stai bene”. “Come hai fatto ad avere il mio numero?” gli chiesi. Carlo non rispose, indaffarato ai fornelli. Attesi pazientemente la risposta, sedendomi a tavola. “Non è stato difficile ottenerlo” bisbigliò, portando a tavola la pentola piena di pasta. Lo guardavo mentre mangiava, e un pochino rimasi incantata dai suoi movimenti meccanici: come portava la forchetta alla bocca, come si puliva con il tovagliolo. Persino come beveva dal bicchiere mi sembrò il modo più bello ed intrigante del mondo. Parlava poco, ma mi osservava tanto. I suoi occhi nocciola sembravano volermi scavare fino al neurone più remoto del mio cervello, come a dover per forza sbrigliare tutte le mie sinapsi. A torso nudo, si sporgeva dalla tavola per avvicinarsi di qualche metro, perforandomi ancora di più il cranio. Alla fine del pranzo, avevamo parlato poco e nulla. e poi, avevo parlato sempre io. Gli raccontai della scuola, dei miei amici. Delle mie estati a San Benedetto, di Serena e di come ci conoscessimo da quando eravamo piccolissime, delle nottate sugli scogli a parlare di tutto e di nulla. Gli raccontai dei miei genitori, della nostra vita a Roma. Lui sembrava seguire interessato i miei racconti, soffermandosi su dettagli a dir poco marginali: come fossi andata alla maturità, quale fosse la mia materia preferita e quanti errori avessi fatto all’esame della patente. Erano domande strane, ma era come se lui volesse davvero sapere tutti i meandri della mia quotidianità. “Cosa farai, a settembre?” mi chiese, alzandosi da tavola ed iniziando a sistemare i piatti. Feci lo stesso aiutandolo. “Oh, ancora non lo so. Sono indecisa.” “Tra cosa?” “Tra Lettere e Giurisprudenza” “Un classico, - commentò lui. – Fai lettere, fidati” “Perché?” domandai, portando i piatti nel lavello. Carlo mi guardò, poggiandosi con un fianco al lavello, accanto a me. “La legge è noiosa...le regole lo sono, in generale”. Non commentai, nonostante non mi trovassi molto d’accordo. Mi avvinai di più a lui, mantenendo le braccia conserte. “E invece, si può sapere tu chi sei?” Carlo rise, portando la testa all’indietro. Rise come se avessi raccontato la barzelletta del secolo, come se fossi il comico più quotato del paese. “Cosa ho detto?” ribattei, stizzita. “Quando lo avrò capito io, te lo riferirò, va bene?” arricciai le labbra, confusa. Non forzai la mano, consapevole che non avrebbe ceduto. Tuttavia, una parte di me, abbastanza grande da convincermi, sapeva che lui era a completamente a conoscenza di chi fosse. “Quella volta sotto la statua del Pescatore...la telefonata che ho sentito...io...” “Non è nulla, Olivia. Non era nulla” tuonò Carlo, zittendomi. Feci qualche passo indietro, mortificata. Lo sentii sospirare, avvicinandosi a me. il cuore iniziò a battermi come un tamburo alla sensazione del suo petto avvicinarsi a me, inclinando la testa per recuperare i centimetri di altezza di differenza tra me e lui. “Scusami Olivia” esitò con le braccia sui miei fianchi, dubbioso se stringermi o meno. I nostri respiri erano incredibilmente vicini, e in qualche modo mi sentii protetta. “Io...sto bene con te” sussurrò al mio orecchio, facendomi risalire. Stava bene con me. Basta. “Tutto qui?” gli dissi. “Per me è tanto” disse, pizzicandomi i fianchi. Chiusi gli occhi, annusando il suo profumo di colonia, misto a quello della sua pelle. Mi domandai se quella frase lo dicesse a tutte quelle che portava nella camera degli ospiti, prima di mettere mano a quella scatola piena di preservativi. Scossi la testa infastidita, scostandolo. “Beh, almeno hai trovato un’amica per l’estate” esordii, alzando le sopracciglia. Carlo sorrise, schiarendosi la voce. Nel profondo del mio cuore, mi trovai a desiderare di essermi sbagliata, che non voleva davvero essere mio amico, ma molto di più. O almeno, qualcos’altro. La sua accondiscendenza mi ferì. Ripresi i miei vestiti che avevo lasciato sul divano, andando in bagno a cambiarmi. Quando uscii, Carlo si trovava davanti la porta di casa, con la sua maglietta indossata. “Posso andare da sola”, gli dissi, sistemandomi meglio la borsetta. “Piantala. Ti riporto io” “Non c’è bisogno, davvero” come al solito, non mi diede ascolto, incamminandosi a passo svelto verso la sua Audi. “Un giorno mi spiegherai anche perché vai così veloce, diamine!” strinsi forte la cintura vicino al mio petto. “Oh cara, non so se vorrai davvero saperlo”.
  
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