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Autore: CHAOSevangeline    05/02/2023    0 recensioni
{Assassin's Creed Valhalla | POV Sigurd}
I primi interminabili istanti in cui Sigurd ha tratto in salvo Eivor dalle acque ghiacciate e Fornburg quando Eivor ancora non accettava le sorti di Heillboer.
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"Il ringhio profondo del ghiaccio che si spaccava.
Una lastra si ribaltò su se stessa e delle dita sprofondarono inghiottite dall’acqua.
«Eivor!»
Sigurd gridò."
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altro personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
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Prima di lasciarvi alla lettura segnalo ancora una volta i contenuti forti (scene in cui vengono curate ferite, sangue).
Niente di peggio di ciò che mostra Valhalla, credo, ma vorrei tutelare chiunque potesse sentirsi infastidito.
A tutti gli altri, buona lettura!




Storia di un drengr
 




Il mondo si era capovolto.
I tronchi degli alberi scarni tracciavano la linea dell’orizzonte e lui era sdraiato su una roccia.
La caduta era stata tanto repentina da fargli vorticare l’intero bosco intorno; le foglie si erano traslate nel pantano umido in cui gli zoccoli del cavallo erano sprofondati fino a poco prima, un istante dopo la neve a terra era stata il cielo e il buio di quella notte senza stelle un suolo tanto profondo da fargli credere potesse inghiottirlo.
La caduta era stata così inaspettata da impedirgli di capire dove si trovasse.
Dev’essere anche colpa della botta in testa – pensò.
Era atterrato su un fianco e su quello ancora giaceva, steso e dolorante.
Sigurd puntò il palmo della mano a terra per sollevarsi. Le dita affondarono nella neve, la pelle così intorpidita da non temerne il freddo: non lo percepì nemmeno. Il croccante strato di fiocchi impregnava le vesti e scricchiolava sulla nuca e fin dentro le orecchie, dove la sentiva sciogliersi e solleticare. Gli parve d’essere rimasto sdraiato tanto a lungo da provare l’orrenda sensazione che la pelle si scollasse dal corpo.
Gemette.
La spalla.
Non osò muoverla; sentiva il dolore cocente di un’articolazione ammaccata sotto la patina di ghiaccio che ancora lo leniva. Non aveva alcuna fretta di provarlo: sapeva l’indomani avrebbe sofferto come un cane. E proprio come un segugio zuppo si scrollò di dosso la neve e la confusione.
Sapeva dov’era: la sporgenza della cascatella poco lontana dalla casa lunga di Heillboer. Quando sgelava in primavera, se si era temerari abbastanza, ci si poteva fare il bagno. O così gli avevano detto.
Erano arrivati lì a cavallo, galoppando come se avessero Fenrir alle calcagna. Le frecce fischiavano da ogni lato: a sinistra, a destra. Poi una aveva colpito il bersaglio più grosso; il cavallo aveva nitrito in preda al dolore e mentre scalpitava e perdeva l’equilibrio li aveva disarcionati. Lui era finito lì, invece…
«Eivor?»
Il nome prese la forma d’un sussurro nella brezza gelida e solo il sibilo del vento rispose. Temeva i soldati fossero troppo vicini per chiamarlo ad alta voce.
Si guardò intorno e solo allora vide consumarsi gli ultimi istanti di una tragedia per cui i suoi sensi si erano ridestati troppo tardi. Due corvi si stavano allontanando dal corpo di un lupo, la pelliccia intrisa di sangue; il loro becco ne parve la causa, i due animali una calamità naturale di piume e artigli abbattutasi sul predatore.
Il ringhio profondo del ghiaccio che si spaccava.
Una lastra si ribaltò su se stessa e delle dita sprofondarono inghiottite dall’acqua.
«Eivor!»
Sigurd gridò.
I soldati e le urla lontane non ebbero più importanza. Non lo avevano le frecce che temeva in agguato e nemmeno il villaggio in fiamme alle loro spalle. Non se Eivor stava affondando in un lago ghiacciato.
S’alzò in piedi dimentico del dolore e della confusione, e con un balzo fu alle pendici dell’altura. Le ginocchia scricchiolarono. Aveva indovinato la riva, ma ancora doveva incespicare nella neve e nelle insidie ben celate del terreno.
Gettò uno sguardo al lupo: era immobile. Non c’era pericolo. La pelliccia imbevuta di sangue era divisa bruscamente da un’ascia; Eivor si era difeso fino all’ultimo, non erano stati i corvi a sferrare il colpo letale.
La fragilità del ghiaccio gli sovvenne giusto in tempo per mettersi carponi.
«Eivor, resisti!»
Non l’aveva più visto riemergere.
Tuffò il braccio nella pozza gelida. Lo immerse fino alla spalla e per una manciata di istanti ebbe paura fosse già troppo tardi. Gli parvero momenti interminabili: forse il tempo si era dilatato o dissolto per uno scherzo degli dei, congelando un attimo tanto vitale.
Solletico al palmo della mano. Aveva raggiunto la pelliccia.
«Eccoti!»
La strinse con tutta la propria forza e iniziò a tirare come se da questo dipendesse non la sua vita, ma quella di Eivor. E tanto gli bastava.
Il corpo fradicio del più piccolo iniziò a riemergere, ma i vestiti zuppi lo rendevano pesante quanto un macigno: ogni muscolo di Sigurd si stava tendendo, chiedendo una clemenza che non poteva concedergli. Non ancora. I suoi nervi bruciavano quanto il fuoco della fucina di Weland.
«Avanti!»
Puntò i propri stivali in ogni modo possibile sulla superficie del ghiaccio. Ma scivolarono. Una, due, infinite volte.
I piedi si aggrappavano al nulla e poi scivolavano di nuovo, facendogli battere i polpacci sul pavimento gelato. Gridò per lo sforzo, per la frustrazione, ma non smise di tirare.
Riemerse allora il volto di Eivor, poi fu la volta delle spalle.
Dopo incessanti sforzi fu seduto sul ghiaccio. Sigurd gli attanagliò il busto con le braccia e arretrò ancora fino a cadere steso sulla gelida lastra. Ansimava come avrebbe fatto un cervo inseguito da un gruppo di cacciatori determinati a portare a casa la sua testa. I polmoni chiamavano aria e le braccia tremavano stremate e gonfie d’adrenalina.
Ancora non aveva allentato la presa su Eivor e continuò a non farlo finché non lo udì tossire sommessamente. Pensò di esserne stato la causa: bastava l’acqua gelida a tentare di ucciderlo, non serviva lo stritolasse.
«Stai bene?»
Il lupo era morto, lui aveva evitato Eivor annegasse. Non contemplò nemmeno di doversi preoccupare d’altro.
Allora Sigurd vide il sangue. Inondava il viso del bambino e lordava le vesti di entrambi.
Fu come se le dita avessero perso l’appiglio non solo sul suo corpo, ma anche sull’intero mondo. Da dove proveniva? Si tirò a sedere e il corpo esanime gli scivolò dalle braccia.
Il lupo.
I solchi degli artigli avevano slabbrato la pelle della nuca. Se avessero segnato il viso, il volto di Eivor sarebbe stato irriconoscibile.
«Dei…»
Sigurd non seppe che fare. Mai l’avrebbe ammesso, ma la sua mente fu attraversata dalla confusione più totale. Il corpo tremava come una foglia, ma adrenalina e freddo erano ormai compagni remoti: il suo era terrore.
«Questa… questa è zuppa, sì!» Aprì la pelliccia di Eivor. Lo tenne a sé, a peso morto, per sfilarla dalle braccia. «Ti do la mia, ecco.»
Il silenzio lo assordava e così lui lo riempì nella speranza di convincersi Eivor potesse sentirlo.
Ogni movimento faceva sgorgare più sangue dalle ferite.
La sua veste non era adatta alla notte né tantomeno lo era quanto gli sarebbe rimasto da indossare: aveva lasciato la pelliccia al banchetto, Sigurd. Non era grande a sufficienza per avvolgere entrambi ed Eivor ne aveva più bisogno. Gliela buttò alla meglio sulle spalle.
«Eivor, il braccio…» lo implorò.
Ma Eivor non poteva sentirlo né muoversi.
«Ti prego, dobbiamo andare via!»
Dopo qualche frustrante tentativo Sigurd riuscì a ripararlo nel calore della veste, allora si portò quello stesso braccio molle intorno alle spalle e si alzò.
«Dobbiamo trovare gli altri», gemette. «Ci sarà qualcuno… qualcuno sarà fuggito nella nostra direzione!»
Dovette inerpicarsi con Eivor sulle spalle lungo il pendio, tentando invano di non sbilanciarsi rischiando di dover ricominciare dal principio la propria scalata.
Si voltò in direzione di Heillboer, invisibile attraverso la foresta. Dagli alberi si innalzava una colonna di fumo.
Kjotve non aveva mantenuto la sua parola.
E loro erano soli, senza un cavallo.
Sigurd diede le spalle alla città e iniziò a camminare verso la direzione in cui si era diretto il suo cavallo. Se solo fossero riusciti a raggiungerlo…
«Ti trascinerò attraverso i nove regni se dovesse servire, Eivor.»
Non sarebbe morto. Nessuno dei due l’avrebbe fatto. Non finché Sigurd aveva fiato in corpo per impedirlo.
 
 
Di quella notte Sigurd non aveva ricordi. Non se la definizione di ricordo escludeva l’amalgama di eventi confusi e annodati come un filo sfuggito alle dita delle norne. Nemmeno sapeva dire se fossero stati soccorsi durante l’ora più buia o all’alba: aveva tenuto gli occhi fissi sul terreno per controllare dove metteva i piedi e dove si incastrassero quelli di Eivor; dopo essersi liberato dell’acqua che per poco non gli aveva riempito i polmoni, non si era più ripreso.
Doveva pensare Sigurd a entrambi e nel farlo era stato abbagliato dalla neve.
Avrebbe potuto trascinare per miglia un corpo morto e non se ne sarebbe accorto. Ma non aveva osato permettere al pensiero di sfiorarlo: sapeva il dubbio avrebbe scavato e scavato tanto a fondo da erodere la sua determinazione, trasformandola in ostinazione cieca e miserabile.
Eivor respirava ancora. Lo sentiva respirare ancora.
Doveva farlo.
Poi sopra il proprio ansito stremato e il fiato flebile di Eivor aveva udito una voce familiare.
Svala.
Gridava a qualcuno di aver trovato dei sopravvissuti.
Sigurd aveva ricacciato indietro le lacrime di sollievo, troppo orgoglioso persino per sentirle rotolare sulle proprie stesse guance senza che nessun’altro lo sapesse. Faceva così freddo che temeva avrebbero bruciato sulla pelle algida. Una soltanto gli era sfuggita: per il sollievo di non essere più solo in un’impresa degna degli dei, per lo sforzo ripagato. Per essere stato trovato da amici.
Svala e Gunnar li avevano raggiunti in sella a due cavalli e l’avevano separato a forza da Eivor, caricandoli uno su un cavallo e uno sull’altro.
«È ferito, fate piano!»
Sigurd aveva protestato perché dopo ore trascorse camminando, i piedi sul punto di sanguinare nelle calzature di pelliccia ormai zuppe, era come se il suo corpo fosse diventato tutt’uno con quello di Eivor; si erano mossi alla stessa andatura e il suo fianco si era fuso a quello altrui, così come la mano stretta attorno al suo polso.
Non aveva avuto modo di percepire altro se non lui e il suo respiro.
Erano partiti solo quando anche il suo corpo era stato setacciato dagli occhi vigili di Svala. Protestava di sbrigarsi per aiutare Eivor, ma la donna non l’aveva ascoltato: c’era così tanto sangue sulla sottoveste di Sigurd da faticare a credere appartenesse tutto a Eivor.
Solo in groppa al cavallo e stretto nella pelliccia di Gunnar, Sigurd si era accorto di battere i denti. Le dita non si muovevano quasi più, le labbra spaccate da un crepaccio come una ghiacciaia.
La spalla irradiava il dolore proprio come aveva immaginato e ogni galoppo del cavallo non faceva che peggiorarlo. L’articolazione sussultava e lui serrava i denti, si aggrappava al labbro da cui sgorgava il sapore metallico del sangue. Non trovò alcun conforto o soddisfazione nello scoprire di avere ragione, non lo rinvigoriva come di solito accadeva. Eppure trovava ancora la forza di sporgersi per guardare Eivor, controllarlo. Avrebbe dovuto tenere Sigurd le redini del cavallo: lui non l’avrebbe fatto cadere.
Anche quand’erano giunti al campo il suo istinto era stato balzare giù dal destriero e raggiungere il bambino. Non aveva idea di dove fossero; quella schiera di tende gli era sconosciuta e a fatica ne riconosceva i colori. Non c’era un solo stemma del clan a cui appartenevano. Era il loro?
Che si fossero serviti di tutte le stoffe di fortuna a loro disposizione?
«Sigurd!»
«Padre!»
 Solo quell’incontro riuscì a distrarlo da Eivor.
«Figlio mio... dei, cosa ti hanno fatto?»
Sigurd abbassò lo sguardo. Nemmeno aveva sentito il sangue.
«Non è mio, sto bene.»
Styrbjorn esalò un sospiro di sollievo e Sigurd si ritrovò stretto fra le braccia del padre. Non l’avrebbe mai fatto in un momento diverso, ma d’istinto si aggrappò alle sue vesti come avrebbe fatto un bambino impaurito. Nemmeno la spalla fu in grado di fermarlo.
Quella notte era stata tanto, troppo anche per lui.
Si sentì sul punto di crollare, come se potesse finalmente permettere alle poche energie rimaste di abbandonare il suo corpo e di abbassare la guardia, concedendosi di riposare. Era al sicuro. Ma non lo erano entrambi.
Con tali pensieri poté godersi l’abbraccio di suo padre solo per poco.
Non sciolse la stretta ma alzò il volto verso di lui.
«Che ne è di Heillboer?»
Temeva e immaginava la risposta; l’incupirsi degli occhi che lo scrutavano fu una conferma ancor prima di qualsiasi parola.
«Presa.»
«Presa?!» Allora Sigurd si allontanò: gli fu impossibile non indignarsi, nonostante avesse già carezzato l’eventualità. «Ma Kjotve aveva detto…»
«Kjotve non è mai stato un uomo di parola.»
Allora gli fu chiaro: non voleva rassegnarsi all’idea perché era fin troppo consapevole di quali dovevano essere state le cause che avevano reso possibile la caduta di Heillboer.
D’improvviso la rabbia di Sigurd ribollì. Gli serviva un colpevole sulle cui spalle addossare ogni peso. Lo trovò in suo padre.
«E tu gliel’hai permesso?! Sei il re di queste terre!» mugghiò come il mare in tempesta di fronte all’espressione grave dell’uomo.
«Sigurd, non c’era nulla che potessimo fare.»
«Varin è morto per nulla! Rosta è morta per nulla!» Scosse il capo mentre arretrava. «Si è sacrificato… è morto senza la sua ascia in mano…»
Pensò a quanto Eivor ne sarebbe stato distrutto.
«Ci ha dato più tempo, Sigurd.»
«Per ritirarci come codardi!»
Styrbjorn parve mortificato dal giudizio del figlio ma non ribatté e Sigurd non si accorse nemmeno di averlo pugnalato, scavando con lama fatta di parole e avvelenata da accuse in una ferita già aperta e ancora troppo fresca.
Un passo indietro e poi un altro.
Se nulla poteva fare, allora avrebbe pensato a Eivor.
Si voltò, ma non c’era più traccia di lui sul cavallo.
Lo intercettò mentre veniva portato dentro una delle tende fra le braccia di Gunnar. Il pesante drappo di stoffa ricadde alle sue spalle e lo inghiottì, e Sigurd ne varcò la soglia prima ancora di pensare a che luogo potesse essere. Il tanfo di erbe e i miasmi di sofferenza lo resero subito per la sua mente la raffazzonata tenda medica che con così poco tempo a disposizione era stato possibile allestire.
C’erano uomini e donne ammassati ovunque, fianco contro fianco. I lamenti riempivano l’aria.
La maggior parte di coloro che si trovavano lì dovevano esservi giunti sulle proprie gambe: erano troppi perché i pochi guerrieri sani fossero riusciti a trascinarli tutti in salvo.
Sigurd dovette appellarsi a tutta la propria energia per non vomitare; l’odore di sangue rappreso e di morte gli permeava le narici. Si aggrappò a ogni briciolo di buon senso e si impose di non guardare: le mutilazioni e le ferite, i volti madidi di sudore gli avrebbero reso impossibile trattenersi.
Eppure c’era qualcosa nel non vedere a rendere le immagini nella sua mente forse ancor più terribili di quanto già non fosse la cruda e cruenta realtà.
Tenne gli occhi azzurri incatenati alle braccia di Eivor penzolanti a mezz’aria.
Gunnar lo adagiò a terra in un angolo della tenda. Il fuoco che anneriva le braci era vivo e scoppiettante, ma non c’era nulla di piacevole nel suo calore; accanto ad esso una tinozza d’acqua ospitava delle lame di metallo pulite alla bene e meglio. Era intrisa di sangue.
«Gunnar, scalda la lama.»
Il fabbro raggiunse il fuoco, Svala raccolse un trito di erbe da un pestello, lo impastò in una sfera e la infilò fra le labbra di Eivor. Sigurd la guardò spaventato.
«Si riprenderà?»
Svala alzò lo sguardo. Era certo l’avesse guardato mentre entravano, ma la donna parve quasi trasalire nel vederlo lì. Non riuscì a rispondere.
«Si…» Un mugolio flebile sfuggì alle labbra di Eivor. «Sigurd…»
Sigurd si gettò al suo fianco.
«Sono qui!» L’ultima cosa che aveva sentito di Eivor erano grida. «Va tutto bene, sono qui.»
Svala aveva contemplato la scena, flemmatica. Gli occhi di Eivor erano stanchi, le palpebre tremavano e sudava per la febbre.
La veggente gli afferrò il braccio. A Sigurd parve di gelare come se l’avesse sfiorato Hela in persona.
«Ci devi aiutare, Sigurd Styrbjornsson. Eivor ha bisogno di te.» Non fu confortante. «Devi tenerlo fermo. E cerca di tenere il suo spirito su Midgard.»
Quando vide la punta della lama fra le mani di Gunnar brillare aranciata, Sigurd capì.
La mano della donna lo costrinse a guardare lei adagiandosi sul suo viso.
«È l’unico modo.»
Se non l’avesse detto, non gli portava alcun onore ammetterlo, Sigurd avrebbe provato l’istinto di fuggire.
Sigurd deglutì e prese un respiro. Fu alle spalle di Eivor e lo sollevò piano, reggendolo contro il proprio petto. Se le sue guance non fossero state rosse per il calore del focolare vicino gli sarebbe sembrato di trovarsi ancora sulla fragile passerella di ghiaccio dove aveva trascinato Eivor.
«Sigurd… che cosa succede…?»
«Va tutto bene, Eivor. Non ti devi preoccupare.» Conoscere l’indicibile sofferenza che gli aspettava lo mortificava come se a infliggergli quella ferita fosse stato lui. «Starai bene.»
«Ho visto dei corvi, Sigurd… mi hanno salvato dal lupo», mormorò.
Sigurd avvolse le braccia intorno a quelle di Eivor, intrappolandole lungo il busto.
«Li ho visti. Ma tu l’hai colpito con l’ascia.»
«Ma poi c’era anche…»
Allora Gunnar gli fu accanto. Eivor tremava e Sigurd ringraziò gli dei non fosse in sé per comprendere. Anche lui tremava, per la tensione e la paura che per Eivor sarebbe stato troppo. Gli occhi affranti di Gunnar non gli diedero conforto e non osò cercarne in Svala; la sua espressione stoica e le parole gravi che gli aveva rivolto l’avrebbero solo spaventato di più.
La donna posizionò la testa di Eivor e indicò a Gunnar di mantenerla, poi prese in mano la lama e portò fra le labbra di Eivor un pezzo di legno scheggiato da brutali impronte di denti.
«Preparatevi.»
Svala non attese un cenno.
Eivor gridò. Fu il segno che era cominciata.
Gridò così forte che Sigurd pensò fosse sul punto di morire lì, fra le sue braccia. Il corpicino si divincolò nelle spire in cui lo avvolgeva, le gambe scalciarono e Sigurd le schiacciò a terra con le proprie.
Gridava tanto che Sigurd pensò sarebbe morto lui stesso nel vederlo soffrire tanto, se non avesse smesso presto.
«Eivor, resisti! Devi resistere!»
Tentò di sovrastare le sue grida, mentre gli occhi si riempivano di lacrime.
Sigurd si chiese come potesse un bambino avere tanta forza.
Poi Eivor crollò. Smise di muoversi e tendere i muscoli nel tentativo di sgusciare dalla sua presa. In quel preciso istante Svala allontanò la lama.
Il fumo si dissolse nell’aria e Gunnar lo aiutò ad adagiare Eivor sul giaciglio; Sigurd tremava troppo per riuscirci senza farlo cadere.
«È fatta. Ora sta a lui decidere se vuole sopravvivere.»
Le parole di Svala suonarono come la più oscura delle profezie.
 
 
«Sigurd è di nuovo lì dentro?»
«Sì. Vuoi che vada a chiamarlo?»
Le orecchie di Sigurd si rizzarono nel sentire il proprio nome, ma solo per conoscere la risposta di suo padre.
«No, non è necessario.»
Allora si rilassò sull’improvvisata seduta fatta di pelli e paglia.
I cacciatori del clan del corvo erano abili e i giorni di ferma erano stati sufficienti per rintracciare i materiali necessari e improvvisare delle comodità come quella.
La tenda di suo padre non era più agghindata delle altre, ma più calda. Avendo perso i loro scaldi più esperti Svala, si era improvvisata tale e aveva ordinato Eivor venisse trasferito in un luogo più confortevole.
Forse era solo stanca di avere lui tra i piedi, si disse: da quando erano giunti al campo Sigurd non aveva fatto altro che vegliare su Eivor. Era speranzoso si svegliasse. E impaziente.
«Prima del suo corpo è la sua anima a dover guarire», gli aveva spiegato Svala mentre preparava un decotto dall’odore nauseabondo. Non vedeva come una poltiglia tanto maleodorante potesse aiutare Eivor, ma non si metteva in discussione la parola di una veggente e Sigurd non contava: aveva trascorso ore a vomitare in un secchio con il puzzo di carne bruciata a infettargli le narici. «Ho visto uomini grandi e grossi crollare per meno di ciò che ha perso lui in una notte. No, deve essere il suo spirito a decidere di svegliarsi, a rimarginare le ferite più profonde prima ancora che il suo corpo sia pronto a lasciarlo accadere.»
Allora Sigurd non aveva ribattuto. L’aveva fatto poi, nella propria mente. Anche se non avrebbe mai messo in dubbio la guida di Svala, non capiva. C’erano fin troppe cose che non comprendeva: non capiva Kjotve, non capiva suo padre e ciò che più lo amareggiava era la certezza nemmeno Eivor ne sarebbe stato capace quando avrebbe aperto gli occhi.
Perché l’avrebbe fatto. Doveva farlo.
Intanto rimaneva sospeso in un limbo di febbre e sudori freddi, di quiete e lunghi sonni agitati.
Ma almeno respirava.
Così come un fedele segugio Sigurd era rimasto al suo fianco. Chiudeva gli occhi con la superstiziosa convinzione Eivor avrebbe aperto i propri nel momento in cui lui avrebbe abbassato la guardia. L’intero mondo ruotava intorno ai suoi piccoli gesti, dopotutto; molto principesco da parte sua crederlo, ma in fin dei conti come poteva essere abituato a vivere altrimenti se alla sua età poteva essere soltanto il principe Sigurd Styrbjornsson, futuro re di Rygjafylke? Con le sue responsabilità, il comportamento che doveva tenere e permettersi di non tenere perché rimaneva sempre il principe.
Per Eivor non lo era. Per Eivor era solo Sigurd, un qualsiasi ragazzino di cinque anni più grande di lui, figlio di un qualsiasi sovrano di cui suo padre, il vero centro del suo mondo, aveva scelto di fidarsi.
Al banchetto Sigurd gli aveva intimato di affidare a lui il bracciale cosicché lui potesse consegnarlo a suo padre Styrbjorn. Gli aveva solo teso il palmo, senza nemmeno aspettare risposta. Perché avrebbe dovuto riceverne? Era solo un bracciale e proprio lui si stava offrendo di consegnarlo.
Eivor aveva detto no.
No e aveva ritirato la mano, stringendo tutte e dieci le dita intorno gli intrecci d’oro forgiati da Gunnar con tutta l’intenzione e prontezza di aggrapparvisi se solo avesse provato a costringerlo.
Sigurd l’aveva fatto non per obbligarlo, ma perché nemmeno immaginava Eivor avrebbe potuto dissentire. In fondo avrebbe dovuto prevederlo: Eivor gli teneva testa, non diceva solo ciò che lui voleva udire. Se Sigurd lo derubava delle sue pietre e gli impediva di costruire il cairn perfetto, Eivor lo ignorava e ne cominciava un altro. O lo faceva pentire abbattendo il suo.
Infantile certo, ma lo trattava come un pari e in fondo, anche se dopo un glorioso futuro di razzie, Sigurd avrebbe voluto infine regnare sulle innevate terre della Norvegia come suo padre e il padre di suo padre prima di lui, tutto ciò che voleva allora era solo questo: un amico. Un fratello, che non gli riservasse premure diverse e speciali perché figlio del sovrano.
Aveva degli amici. Dag, ad esempio, ma aveva con lui l’atteggiamento deferente di venerazione di cui Sigurd era ormai stanco.
E come Eivor, Sigurd aveva detto no quando aveva osato avventurarsi fuori dalla tenda di suo padre. Perché in quella tenda, talvolta, il respiro gli mancava.
Il luogo dove i feriti erano stati radunati il primo giorno aveva avuto vita breve e lo avevano smantellato: chi si era ripreso poteva godere di un focolare nella tenda comune. Gli altri erano tutti morti, stremati per le ferite o per il freddo.
Quanti dovevano sopravvivere, quanti potevano farlo, l’avevano già fatto. Gli altri avevano tenuto strette al petto le proprie asce, perché seppur sdraiati su un giaciglio si erano procurati le loro ferite mostrando il proprio valore sul campo di battaglia. Avrebbero raggiunto il Valhalla.
Kjotve aveva concesso una tregua, perché in fondo era Heillboer che voleva. Voleva appagare il proprio sadico bisogno di massacrare e l’aveva soddisfatto. Voleva ricchezze e le aveva ottenute. Si era ben guardato dall’uccidere un re: se suo padre fosse caduto qualcuno sarebbe giunto a fermare Kjotve se non per vendicarlo, anche solo perché non toccasse a lui subito dopo. La verità era che Kjotve non voleva nulla da Styrbjorn: lui voleva Varin per capriccio e per crudeltà. E l’aveva ucciso privandolo del più grande onore per un guerriero.
Ma la tregua non poteva durare in eterno.
Intorno al fuoco si era parlato di ripartire. Le navi lunghe giacevano annerite dal fuoco sul fondo della costa di Heillboer; avrebbero dovuto attraversare la penisola a piedi per trovare qualche anima che offrisse loro i mezzi per fare ritorno a Fornburg.
«Abbiamo ancora dei feriti.»
«Vuoi dire che abbiamo molti feriti.»
«Molti feriti, se preferisci, che però possono reggersi sulle loro gambe. Eivor non può essere spostato invece.»
«Ed è uno.»
Sigurd si sentì mordere gli zigomi dal freddo; tre parole e un gelo ancor più rigoroso aveva avvolto l’accampamento.
«Dunque vuoi lasciarlo indietro? È questo che stai suggerendo?»
Intorno al focolare c’era silenzio; persino nei giorni addietro, l’attacco più fresco per i membri del clan di Varin sfuggiti a Kjotve e per i sopravvissuti del clan del corvo, c’era stato più chiacchiericcio a ravvivare il focolare. Chi si era unito a loro come Gunnar raccontava storie di guerrieri che loro non avevano potuto conoscere. Sentiti cori di «Skål!» si innalzavano trasportati al cielo dal fumo delle braci. Li celebravano.
Allora invece gli uomini erano curvi, stanchi, quasi il dialogo li avesse schiacciati e il freddo avesse congelato loro le mascelle.
Svala e Nithi, il padre di Dag, si stavano fronteggiando come due lupi di branchi rivali contendendosi una preda.
«Non sto suggerendo un bel niente», aveva abbaiato l’uomo. «Sto solo dicendo che il ragazzino ci rallenta.»
«Lascia perdere», intimò uno dei suoi amici.
Lui protestò con un cenno del capo. Aveva sempre avuto espressione severa, il padre di Dag. Era leale, ma più inflessibile di una spada arrugginita. Allora Sigurd lo trovò ottuso come solo un caprone avrebbe saputo essere. Tale padre, tale figlio.
«Ci tiene bloccati con Kjotve poco lontano quando dovremmo solo andarcene. Nessuno sopravvive a una ferita del genere.»
Sigurd s’infuriò: potevano resistere a Kjotve. Ciò che lo sconvolse e fece ardere il suo cuore di rabbia fu l’insinuazione Eivor potesse non farcela.
Iniziò a coprire con rapide falcate la distanza che lo separava dal fuoco. L’avrebbe fronteggiato, gli avrebbe detto di chiudere la bocca e smetterla di blaterare non sciocchezze, ma affronti. L’avrebbe detto in modo molto più volgare, come gli passava per la testa. Era furibondo al punto di non vedere il sorriso acre di Svala comparirle sulle labbra.
«Se sei tanto smanioso di andare da qualche parte, drengr, potresti anche tornare a quel che resta di Heillboer e affrontare Kjotve», lo punse lei. «O rimanere con lui.» L’incedere di Sigurd si arrestò. «Sappiamo tutti che non smaniavi per quest’alleanza: brontoli da due inverni. Così ci risparmieresti le tue lamentele.»
Nithi si alzò in piedi furioso. Le vene del collo taurino gli pulsavano come se stesse per caricare in direzione della donna.
«Risparmiami le tue accuse, veggente!»
«Nithi avanti, andiamo.»
I compagni d’armi dell’uomo intervennero con più fermezza per portarlo via.
«Vorrei proprio sapere cosa direbbe re Styrbjorn se sapesse cosa farnetica la veggente sui suoi drengr più fedeli!»
«Oh, perché non glielo chiedi? Io resto qui.»
«Brutta…»
Prima che potesse inimicarsi la veggente i due uomini lo trascinarono via.
Sigurd avrebbe detto no, proprio come Eivor. Si sarebbe opposto con ogni fibra del proprio corpo alle insinuazioni di Nithi. Ma non era servito.
«Per fortuna ci hai pensato tu», si annunciò Sigurd. «Se ci avessi parlato io non sarei stato tanto gentile.»
Svala si voltò verso Sigurd. L’espressione soddisfatta si tramutò in una di solenne apatia.
«Cosa ci fai tu qui, giovane principe? Dovresti essere con Eivor.»
«Ho pensato di prendere una boccata d’aria, io…»
Non gli diede il tempo di finire e si alzò in piedi.
«È sveglio.»
 
 
«Eivor? È inutile che ti nascondi, lo so che sei lì.»
Alle porte di Fornburg, dove la terra non confinava col mare, c’era una valle cinta da rocce e pendii che sfumavano in montagne. Sigurd la conosceva bene: ci passava inverni ed estati, arrampicandosi sulle alture per trovare pace quando non gli andava di assolvere ai propri doveri o desiderava un poco di solitudine. Al tempo in cui Eivor era giunto in visita con i genitori e una compagine del proprio clan durante il gelo passato proprio Sigurd gli aveva mostrato quelle terre. Allora il bambino gli chiedeva di aspettarlo, mentre lui scalava alture scoscese con la stessa agilità di uno stambecco; più volte aveva creduto di dovergli offrire la propria mano perché non si mettesse a piangere come i bambini erano soliti fare, frustrato dalla propria mancanza di agilità. Sigurd non aveva fratelli minori, ma trovava impossibile misurarsi con ragazzini più piccoli di lui: pretendeva più di quanto potessero offrire, maldestri com’erano, e gli venivano subito a noia.
Per questo aveva pensato di dover badare a Eivor quando l’aveva conosciuto e il pensiero l’aveva infastidito come lo infastidiva qualsiasi responsabilità.
«Tu, Sigurd, potrai fare amicizia con il figlio di Varin: Eivor.»
Styrbjorn aveva cercato di ignorare il problema. Secondo Sigurd lo faceva fin troppo spesso.
«Ma padre!» si era impuntato lui. «È un moccioso!»
«E un re deve far fronte a imprevisti non sempre piacevoli.» Sigurd si era zittito. «Forse imparare come averci a che fare e dare prova della tua maturità risolverà il problema.»
Sigurd se n’era andato sbattendo i piedi, arrabbiato per la costrizione e l’insinuazione non fosse in grado di gestire un piccolo vichingo che a malapena conosceva le rune con cui scrivere il proprio nome.
I suoi nervi non si erano distesi nel sentirsi canzonare senza alcuna tecnica da Dag, che ogni giorno teneva a ricordargli l’impegno a cui lo stava costringendo suo padre. Si era sfogato dandogli un pugno e Dag aveva posto fine alle proprie angherie.
Sigurd aveva vissuto l’attesa come un supplizio e persino i primi momenti trascorsi insieme ad Eivor, seppur fingendo con notevole maestria: voleva compiacere Varin, bere idromele con lui e suo padre e ascoltare le storie di una drengr forte e abile come Rosta. Non fare da balia al loro figlioletto.
Si era ricreduto solo qualche settimana più tardi, trovandosi Eivor accanto in cima a un masso scolpito dalle intemperie e dal tempo come si diceva i fiordi fossero stati incavati nella terra dalle asce dei giganti. Sempre meno roccia lo formava, ma rimaneva un ottimo punto da cui osservare gli alberi, i ruscelli e le famiglie di cervi di passaggio.
Sigurd gli aveva rivelato suo malgrado i segreti di quel paradiso ghiacciato ed Eivor più volte gli si era parato davanti con sua grande sorpresa al calar del sole, quando Sigurd avrebbe dovuto ormai essere di ritorno per la cena. Ma mai, mai Sigurd gli aveva parlato di quell’altura da cui poteva vedere tutta Fornburg senza che lei potesse fare altrettanto.
Quasi lo infastidiva ammetterlo all’inizio, ma Eivor era in gamba.
«Eccoti!»
Così Eivor si era annunciato un giorno.
«Come mi hai trovato?»
Sigurd si era sorpreso, non spaventato; aveva udito un suono farsi via via più forte e prossimo, e aveva smesso di allarmarsi riconoscendo l’affondare ritmico e faticoso di stivali nella neve. Non si era mosso pensando non fosse lì per lui.
«Ti cercano tutti.»
Secondo Sigurd, Eivor era troppo piccolo per capire. Per capire lui, che all’epoca si riteneva tanto più grande alla luce dei propri cinque inverni di vantaggio su Midgard.
«Allora stare qui ha funzionato, almeno fino ad ora.»
Il tono scocciato non aveva scoraggiato Eivor. Prova che non lo capiva, proprio come credeva lui: altrimenti se ne sarebbe andato e l’avrebbe lasciato in pace o avrebbe avuto la decenza di stare zitto.
«Perché ti nascondi?»
«Non mi nascondo.» Sigurd si era fatto ancor più scostante. «Voglio evitare le scocciature, tipo te.»
Non lo dava a vedere – o almeno, lui credeva di non farlo – ma ogni tanto Sigurd testava le persone. Gli piaceva saggiarle con circospezione e pungerle. Talvolta rasentava il dispettoso. Parlava per comprendere quale fosse il loro limite e agiva così da stabilire cosa aspettarsi. Gli succedeva solo con chi reputava meritevole in qualche misura di rispetto e abbandonava invece tale pratica quando una persona godeva della sua più totale fiducia o non gli interessava. Già si immaginava Eivor puntare i piedi, protestare e correre al villaggio a frignare da sua madre Rosta.
Ma se fosse stato certo bastasse solo una simile frase o che avrebbe funzionato, nemmeno l’avrebbe pronunciata. Eivor era ancora una sorpresa e in fondo era come se sapesse l’avrebbe fatto ricredere.
Il bambino era rimasto impassibile, lo sguardo inchiodato nel suo.
«Secondo me invece sei qui solo perché ti piace sapere che tutti ti stanno cercando e che smetteranno di farlo solo quando lo deciderai tu.»
Eivor era rimasto immobile dinnanzi a Sigurd sostenendo i suoi occhi; non avevano potuto fare a meno di tradirlo di fronte alle inaspettate parole del giovane vichingo e un bagliore di sorpresa li screziò.
Erano vere: se Sigurd si appollaiava su quel masso era per osservare il mondo e non essere visto, perché nemmeno troppo in fondo gli piaceva sapere di avere il controllo sulla situazione. Non era poi così maturo rispetto a Eivor ma si trattava di un gioco. Sciocco sì, ma che non faceva male a nessuno.
Dopotutto a Fornburg si sentiva solo.
Aveva degli amici fedeli ma non altrettanto a che spartire con loro. Si era convinto ben presto di doversi rassegnare alla frustrazione di provare la perpetua solitudine di un principe arroccato nella propria superiorità. Quando aveva conosciuto Eivor vi era sceso a patti oramai da qualche tempo.
Aveva percepito nei piedi del bambino l’intento di voltarsi e tornare all’insediamento, lasciandolo lì con la sola consapevolezza di essersi sbagliato nel giudicarlo simile a tutti gli altri.
Eivor sapeva di avere ragione ma non gliel’aveva fatto pesare. Voleva solo lo sapesse e con questo che capisse di non poterlo raggirare.
«Beh, forse in effetti hanno aspettato a sufficienza ora.» Sigurd si era alzato dal masso su cui si era appollaiato. «Vieni drengr, stasera ti faccio provare un po’ del mio idromele.»
Da quel tramonto qualcosa era cambiato, tra lui ed Eivor. Sigurd si era affezionato a lui, davvero: niente più giochetti o sotterfugi. Solo l’affetto che avrebbe provato per un fratello minore.
Teneva a molte persone, ma mai avrebbe creduto di potersi legare tanto a qualcuno come aveva fatto con Eivor.
Prima di lui si sarebbe ritenuto generoso e magnanimo nel reputare qualcuno degno della propria fiducia. Con Eivor era stato diverso: con Eivor era lui a sentirsi fortunato nell’essere riuscito infine a riporre la propria fiducia in qualcuno.
Era cambiato questo e il fatto che, a quel tramonto, fosse Sigurd a cercarlo e non ad essere cercato.
E proprio perché era riuscito ad ammettere e accettare quel ragazzino fosse in gamba e gli tenesse testa, non lo sorprendeva cercarlo nella stessa valle dove più volte erano tornati senza che Sigurd la percepisse più come una punizione.
«Non mi sto nascondendo.»
La protesta giunse da un piccolo antro scavato nel fianco della montagna; solo qualche metro di spazio angusto dove Eivor si era trincerato, seduto sulla nuda roccia e con i piedi arrampicati sulla parete dirimpetto a quella su cui riposava la schiena.
«Mio padre mi ha mandato a cercarti.»
Sigurd ci si era mandato da solo, in realtà. Suo padre era convinto Eivor avrebbe fatto ritorno quando l’avrebbe desiderato e la sua infinita pazienza era troppo alterata perché volesse parlarci troppo presto.
«D’accordo, tra poco torno.»
La differenza tra loro era che Eivor non voleva essere trovato. Sarebbe stato in grado di rimanere nel proprio anfratto di roccia fino all’indomani, pena congelarsi pur di rimanere isolato da tutto e tutti.
Sigurd rimase in piedi, stoico di fronte a lui. Lo fissava. Non gli chiese nemmeno con gli occhi se lo credesse così stupido da poterlo convincere con le proprie parole.
Eivor voltò il viso in sua direzione. La pelle solcata dagli artigli del lupo cominciava a rimarginarsi e a diventare ancor più bianca del colorito già diafano del bambino. I movimenti bruschi gli causavano ancora dolore; Sigurd lo sentiva molte volte lamentarsi durante la notte, così come l’aveva udito in preda ai deliri della febbre mentre ancora stavano tentando di sopravvivere alla notte nella foresta poco lontano da Heillboer. Quando vedeva la sua sagoma seduta stagliarsi nell’oscurità della loro stanza sapeva non trattarsi di incubi ma delle pene di quella poderosa cicatrice.
Allora Eivor non tradì alcuna espressione di dolore, fu Sigurd a trovarsi quasi sul punto di rimproverarlo per la rapidità con cui aveva voltato il capo: non gli andava di continuare a spalmargli i fetidi unguenti di Svala ancora a lungo.
«Ho detto tra poco.»
«Non è questo.» Sigurd non pretendeva di farlo alzare con uno schiocco di dita. «Posso sedermi?»
Eivor rimase in silenzio e tornò a guardare la parete di fronte a sé.
Sigurd decise fosse un sì e si sedette a terra, dove la neve non aveva inzuppato il terreno.
«So che mio padre sa essere frustrante. Lo penso da quando ho iniziato a capire qualcosa del mondo.»
Eivor non si trovava lì a causa degli eventi di qualche mese addietro. Non solo, almeno. La sua rabbia sussisteva e la delusione e il dolore bruciavano come le fiamme della fornace di Surtr. Puntava i piedi dando cenni di essere ancora una volta il ragazzino di un tempo, ma deturpato dalla violenza della guerra e dalla perdita crudele. Non avrebbe trovato pace fin quando non sarebbe riuscito a vendicarsi.
«Capisco le sue intenzioni. Le immagino, almeno.»
Eivor si infiammò e balzò giù dalla propria alcova rocciosa.
«Gli ho solo chiesto di cominciare a fare pratica con l’ascia!» La sua voce toccava ancora i picchi acuti della tenera età, ma c’era una risolutezza che non apparteneva a un bambino. «Mi ha detto che sono troppo piccolo, che stare con te e gli altri ragazzi più grandi non significa nulla.»
Sigurd fu quasi sul punto di offendersi, ma ricordò che il soggetto non era il suo ego.
«E tu gli hai detto perché vuoi quell’ascia?»
«Certo che gliel’ho detto! Gli ho detto che voglio diventare un drengr per uccidere quel bastardo di Kjotve e vendicare i miei genitori!» La furia lo spinse a camminare avanti e poi indietro. «Ma perché lo dico a te? Tanto tu sei d’accordo con lui…»
L’espressione di Sigurd allora si fece severa.
«Ho detto di immaginare le sue intenzioni e di comprenderle, non ho mai detto di essere d’accordo con lui perciò non travisare quanto dico». Si alzò in piedi. «E vedere in me un nemico è la prova che potresti iniziare a immaginare cattive amicizie dove non ce ne sono, per quanto sei accecato dall’odio che nutri per Kjotve.»
Eivor fu sul punto di ribattere. Di dirgli che averlo salvato non lo rendeva il suo padrone, forse. Lo pensò Sigurd e nemmeno volle sapere se avrebbe avuto la ragione dalla sua anche nell’immaginare le possibili insinuazioni di Eivor, così lo interruppe prima ancora potesse formulare il principio di una simile accusa.
«Non voglio che questo succeda. Io voglio che tu possa vendicarti, perché è giusto», spiegò di fronte agli occhi spalancati di Eivor. Se per la sorpresa o ancora per la rabbia non seppe dirlo. «Se così non fosse, non sarei venuto qui a prestarti questa.»
Sigurd estrasse dalla cintura di cuoio la propria ascia. Doveva apparire come un’arma imponente, a Eivor: solida e rifinita di rune di buon auspicio. Il filo era tagliente. Non era un giocattolo di legno di quello che si dava in dono ai bambini, ma una lama vera.
La avvicinò a Eivor. Era guardingo, ma un bagliore illuminava le iridi azzurre. Non era facile convincerlo, ragazzino o meno, delle proprie buone intenzioni.
«Sigurd… ma questa l’hai ricevuta per il tuo compleanno.»
«Io avevo chiesto una spada.» Fece una smorfia. «Ma in ogni caso, sono felice di potertela prestare.» Lo guardò. «Capito? Prestare. Finché non avrò lo spadone a due mani che voglio io questa potrebbe servirmi.»
Eivor annuì. Si era calmato o almeno, Sigurd aveva in parte acquietato la rabbia: Eivor aveva visto in lui l’alleato che Sigurd intendeva essere con ogni fibra di se stesso in un momento tanto difficile.
Le mani corsero subito verso l’impugnatura dell’ascia.
«Ah-ha!» Sigurd alzò la mano sopra la testa, dove Eivor non sarebbe riuscito a raggiungerla. «Ho intenzione di aiutarti, questo te lo giuro. Ma esiste altro oltre alla vendetta, Eivor. Ci sono persone che tengono a te qui. Hai una nuova casa. E devi diventare un drengr per te stesso, non vivere la tua vita in funzione di quella feccia. Non lo merita dopo ciò che ti ha fatto.»
Gli occhi azzurri di Eivor si fecero lucidi, liquidi di lacrime. Sigurd non l’avrebbe mai ammesso a lui, ma suo padre non aveva sbagliato: imparare a conoscere un bambino l’aveva reso capace di non indietreggiare dinnanzi alla piena di lacrime sul punto di riversarsi sul suo viso.
Sigurd si chinò e posò una mano sulla nuca di Eivor. Sentì sotto i polpastrelli la pelle deformata dalla cicatrice e non si scompose. Con la fronte contro la sua socchiuse gli occhi.
«So che hai perso molto quella notte», sussurrò. «Ma hai una famiglia qui, quando sarai pronto ad accoglierla nel tuo cuore.»
Sigurd aprì gli occhi.
«Sei mio fratello.»
Vide le lacrime rotolare sulle guance pallide di Eivor.
«Fratello...»
Lo ripeté come a saggiare simili parole, per capire come lo facesse sentire. Sigurd gli prese il viso tra le mani, attento a non toccare la sua ferita: lì gli faceva ancora male.
«Sì.»
Gli diede un buffetto.
«Asciuga le lacrime, Morso di lupo. Ti faccio vedere cosa so fare.»
Eivor corrucciò il volto.
«Morso di lupo?» gli fece eco.
«Ogni drengr che si rispetti ha bisogno di un bell’epiteto.» Sigurd ghignò. «Preferiresti un eufemismo? Baciato dai lupi, magari.»
Eivor fece una smorfia.
«E tu saresti Sigurd il Simpaticone allora.»
Rise.
«Dovrai anche imparare a canzonare, non mi sono offeso a sufficienza. Ma oggi è il momento dell’ascia, vieni.»
Sigurd non avrebbe mai immaginato di poter camminare al fianco di qualcuno cosicché i suoi inverni su Midgard non trascorressero più nella totale solitudine e desolazione.
Se la loro vita era solo un filo nelle mani delle norne, Sigurd era felice avessero intrecciato i loro destini.
Era certo il nodo a tenerli uniti non si sarebbe mai sciolto e se le trame della tela si fossero fatte stringenti e soffocanti, capaci di infeltrire la fibra delle loro anime, Sigurd avrebbe lottato come aveva fatto la notte fredda in cui Eivor aveva rischiato la morte.
Non Kjotve, non i lupi, non l’acqua o qualsiasi altro nemico avrebbero potuto nulla contro di lui.
Non finché era accanto a Eivor.
Perché era suo fratello.
Questo, lo sapeva, non sarebbe mai cambiato.

 

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Non pubblico da così tanto che ormai quasi non ricordo come si formatta su EFP.
Non credo di dover aggiungere molto alla storia, se non che è nata da un semplice quesito: come dev'essere stato Sigurd prima degli eventi di Valhalla, perché il giocatore potesse scegliere di rendere Eivor a lui tanto fedele e devoto?
Un buon fratello, immagino. Con tutto il bene per Sigurd e le sue manie di grandezza (scherzi a parte, gli voglio davvero bene).
Oltre a questo, la storia è stata concepita come raccolta: a chiudere il cerchio andrebbe un capitolo su Eivor a cui sto già lavorando. Non l'ho segnalato perché non voglio vederla incompiuta troppo a lungo e arrivare con i miei tempi, quando sarò soddisfatta del risultato.
Ringrazio Francesca per aver betato la storia e incoraggiata a postare quando mi è venuta l'idea di farlo.
E ringrazio anche chiunque sia arrivato  aleggere fin qui. Se voleste darmi una vostra opinione, ne sarei davvero felice!
Alla prossima!


 
   
 
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