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Autore: Quebec    08/02/2023    0 recensioni
Marco Ricci ha avuto tutto dalla vita. Un conto in banca a sei zeri, un lavoro che ama e una moglie fantastica. È un uomo molto fortunato, ma una scia di eventi nefasti è in rotta di collisione.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Sorvolavo la mia villa con il mio elicottero da trecentomila euro. L'avevo acquistato da poco e avevo intenzione di comprarne un altro. Amavo volare nel cielo e guardare il mondo da quell'altezza. Mi faceva sentire libero, vivo.
Virai a destra e osservai la mia villa. Era un edificio moderno con grandi vetrate e sedici stanze, un ampio giardino curato puntellato di alberi, siepi, cespugli in fiore e una grande piscina con il mare alle spalle. Avevo lavorato duramente per avere tutto questo. Avevo persino sacrificato la mia vita sociale, anche se di amici non ne avevo mai avuti molti, quindi era stato piuttosto facile.
Poi Marta uscì dalla villa e guardò in alto con fare irritato. Certo, da quell'altezza non potevo essere sicuro che fosse lei, perché era un puntino. E sapevo che non era felice che volassi sopra la sua testa.
Virai a destra e mi allontanai. Guardai le altre ville accanto alla mia. Una era talmente grande che sembrava una fortezza. Ci abitava un attore famoso di cui non ricordavo il nome.
Qualche passante in strada alzò la testa verso la mia direzione. Qualcuno mi riconobbe e sventolò la mano per salutarmi. Altri mi ignorarono.
Una ventina di minuti dopo atterrai sulla pista d'atterraggio della mia villa, scesi dal veivolo e varcai la porta-finestra.
Marta leggeva Tenera è la Notte seduta in soggiorno con un bicchiere di vino rosso in mano. Alzò lo sguardo dalle pagine. - Hai finito di giocare con quell'affare?
- Di giocare?
- Per colpa tua mi è venuto un mal di testa assurdo.
- Ah... Le eliche, immagino.
- Bravo! E se lo sai, perché continui a volare sopra la mia testa?! Vuoi farmi impazzire, per caso?!
Mi avvicinai al minibar e mi versai uno scotch. - Lo sai che mi piace volare. È il mio unico hobby, non arrabbiarti.
- Non sono arrabbiata.
Mi sedetti accanto a lei e la guardai dritta negli occhi. Sorrisi.
- Che c'è? - chiese Marta, perplessa.
- Sei bellissima!
Lei roteò gli occhi al cielo. - Non te la caverai, stavolta.
- Quindi sei arrabbiata?
- Non lo sono.
- Ma hai appena...
Marta si alzò e lasciò la stanza, stizzita.
Restai fermo per un momento, poi tracannai il mio scotch e me ne versai un altro.


 

Quella sera dovevamo cenare con Giovanni e Alba Serra, a un lussuoso ristorante del centro. Io avevo poco voglia di andarci, ma Marta amava quelle cose. Cene, pranzi, colazioni, raduni e tutte quelle cose che odiavo.
Quando entrai in camera da letto, Marta si truccava seduta davanti allo specchio e mi lanciò uno sguardo mentre si metteva le eyeliner.
La raggiunsi alle spalle e le baciai il collo. - Sai cosa vorrei fare ora?
- Marco, non è il momento.
Continuai a baciarla, finché mi scacciò con una mano. - Voglio solo...
- Vatti a preparare, o faremo tardi come al solito.
Corrugai le sopracciglia e me ne andai in bagno. Girai la manovella dell'acqua calda, mi svestii ed entrai in doccia. Erano due settimane che non facevamo sesso. Ogni volta che mi facevo avanti, mi evitava o mi cacciava. Che non fosse più innamorata di me? Che si scopasse un altro?
Pensai subito a quel tizio che avevo visto in palestra con lei quando l'andavo a prendere. Forse era il suo istruttore o un amico. Non ero mai stato molto geloso, ma non sopportavo di essere preso in giro. Ogni volta che lui apriva bocca, Marta rideva. Non era un buon segno. Quella risatina imbarazzata e quella mano davanti alla bocca, non erano per niente un buon segno.
Per niente.


 

Entrai nella camera da letto con un'asciugamano attorno alla vita e la guardai per un momento. Fissai i suoi capelli ramati, la sua pelle lattea e le sue spalle esili. Amavo quella donna. L'avevo conosciuta davanti a un centro commerciale. Ci eravamo tamponati mentre entrambi uscivamo in retromarcia dal parcheggio. Quando scesi dall'auto incazzato nero e incrociai i suoi occhi grigi, tutta quella rabbia svanii di colpo. Marta era infuriata con me, ma io più la guardavo, più non capivo niente. Poi le chiesi di berci un caffè insieme e lei mi fissò, confusa. Non si era aspettata una cosa del genere. Marta accettò, ma non senza rompermi per tutta la serata. Lei aveva chiaramente torto, ma io le diedi ragione e smise.
E ora la fissavo come la prima volta, innamorato perso.
Marta mi guardava dallo specchio e sospirò, irritata. - Ma ti vuoi sbrigare?


 

Quando entrammo nel ristorante, Giovanni e Alba Serra ci aspettavano seduti al tavolo.
Li salutammo e ci sedemmo.
- Scusate il ritardo - disse Marta, lanciandomi un'occhiataccia. - Abbiamo avuto un contrattempo.
- Non preoccupatevi - rispose Alba con un sorriso.
Giovanni si avvicinò a me. - Hai concluso l'affare con Domenico?
- Sì, ma non è stato facile. Sai com'è quel vecchio, ti porta all'esaurimento e poi cerca di spremerti più soldi che può.
- Già, non me ne parlare.
- Lo sai che è sotto di duecentomila euro? Non capisco come si sia indebitato così tanto in soli tre mesi.
- Non lo sai?
- Cosa?
- Sua moglie sta male - disse Giovanni. - È malata. Non mi ha detto di cosa si tratta, ma gli servono soldi per le cure. Molti soldi.
- Non lo sapevo - risposi.
- Beh, nessuno lo sa oltre me. Tempo fa Domenico era un mio cliente, ricordi? Ogni tanto si lasciava scappare qualcosa, ma la maggior parte delle volte è molto cucito. Quando mi ha detto della moglie era piuttosto provato.
Corrugai la fronte, pensieroso. - Ecco perché ha lasciato che comprassimo il cinquantuno percento della sua azienda.
- Già.
Restammo in silenzio.
Marta e Alba parlavano di aprire un fondo benefico per animali abbandonati e maltrattati. Erano tutte prese dal discorso, che si dimenticarono di noi. Poi arrivò il cameriere con il menù e badarono solo a mangiare.
Non vedevo l'ora di andarmene.


 

Dopo cena io e Giovanni eravamo in giardino a fumare una sigaretta e discutevamo dell'acquisizione della Russo&Figli, che era sul lastrico da mesi. Non mi piaceva parlare di lavoro nel mio tempo libero, ma lo ascoltai. Parlai poco o niente. Giovanni era una mitragliatrice con le parole e spesso se ne andava da un discorso all'altro. Era una cosa che molti in ufficio odiavano, ma non io. Almeno non era noioso. Certo, alcune volte era pedante, ma mai noioso.
- Credo che Martina abbia una cotta per Simone - disse Giovanni.
- Non credo - risposi. - Martina è una gatta morta. Gioca con tutti, ma non la dà a nessuno.
- Sei sicuro?
- Abbastanza.
- A me l'ha data.
Lo guardai, guardingo. - Non dire cazzate.
- Parlo sul serio. È da un mese che io e lei ci vediamo.
- Ma fai sul serio?
- Che vuoi dire?
- Ti sei preso una sbandata per quella là?
Giovanni abbassò lo sguardo per un momento. - No, certo che no.
- Non mi sembri tanto convinto.
- È solo una scopata.
- Forse per lei, ma non per te.
- Pensa quello che vuoi.
Restammo in silenzio per un attimo.
- Perché ci sei andato a letto? - domandai.
- Come perché? - rispose Giovanni, sorpreso. - Tutti se la vogliono scopare, compreso tu.
- Io no.
- Non dire stronzate, dai.
Spensi la cicca nel portacenere. - A me non fa né caldo, né freddo. Voglio dire, è una bella donna. Ha un bel culo, ma... Insomma, non penso di scoparmela. E poi ho Marta. Lei è il mio mondo, lo sai.
- Certo, per adesso - rispose Giovanni sulle sue.
Forse sapeva qualcosa che io ignoravo, ma non indagai oltre. Temevo le risposte. - È stata solo con te?
- Penso di sì, non lo so.
- Alba lo sa?
- Certo che no, non sono così stupido. Mi spennerebbe fino all'ultimo centesimo, se lo scoprisse. E poi tra noi due le cose non sono rose e fiori. Lei finge che vada tutto bene, ma sono sicuro che si vede con qualcun altro.
- Beh, mi sembra giusto. Vi cornificate a vicenda.
- Sì, scherza pure.
Restammo in silenzio per un po'. Una cameriera ci passò davanti con un vassoio coperto.
- Sicuro di non esserti preso una cotta per Martina? - domandai.
Giovanni evitò il mio sguardo. - Te l'ho detto, è solo una scopata.
Mentiva. E lui lo sapeva.


 

Mentre tornavamo alla villa, Marta alzò il riscaldamento della macchina e cambiò stazione radio. Musica pop. Forse Rihanna o qualcun'altra.
Lanciai uno sguardo alle gambe di Marta. Indossava un elegante vestito nero da mille dollari con una spaccatura a lato. Fissai il suo polpaccio, poi il ginocchio e metà coscia. Ci poggiai una mano, ma lei se la tolse subito con uno sguardo truce. Non mi piaceva quello sguardo. Era vuoto e freddo. Non c'era più quella scintilla, quel fuoco, quella passione che la distingueva dalle altre. Non capivo cosa avessi fatto per meritarmi il suo disprezzo, perché era proprio quello che vedevo riflesso nei suoi occhi.
Rihanna o qualcun'altra smise di cantare e partì una canzone dei Pink Floyd di cui non ricordavo il nome.
- Perché ce l'hai con me? - chiesi.
- Non ce l'ho con te - rispose.
- A me sembra di sì.
- Ti sbagli.
- Non credo. E sai come faccio a saperlo?
- Come?
Le posai una mano sul ginocchio e lei la scacciò subito. - Visto?
Marta non rispose.
- Ti scopi un altro?
Non avevo bisogno di guardarla per sentirmi addosso il suo sguardo feroce. Sapevo che si scopava il tizio della palestra. E se non l'aveva ancora fatto, lo avrebbe fatto di sicuro. Me lo sentivo, come sentivo che c'era qualcosa di strano.
- Non mi scopo nessuno! - disse Marta, arrabbiata.
- Certo, come no.
- Non sono la troia che immagini!
- Non ho detto che lo sei.
- Ma lo pensi!
- Non è così.
- E com'è allora? Spiegami.
Svoltai a destra e proseguii lungo la strada semi deserta. Un camion con rimorchio si fermò al semaforo di fronte. - Non c'è niente da spiegare.
- Mi fai incazzare quando fai così.
- Tu sei solo incazzata perché ti ho scoperta.
- Ma tu sei pazzo! Sei proprio fuori di testa!
- Certo, hai ragione.
Mi mollò un ceffone, poi un altro e un altro ancora.
Sbandai varie volte mentre cercavo di fermarla e frenai poco prima di sbattere contro un furgone. - Oh, ma sei impazzita?
Lei continuò a picchiarmi, finché scoppiò a piangere, le spalle che sussultavano a ogni nuovo singhiozzo.
Restammo così per un lungo momento.
- Voglio il divorzio - disse Marta.


 

L'indomani mattina ero nel mio ufficio al ventesimo piano di uno dei tre grattacieli che troneggiavano sulla città. Guardavo dalla finestra i tetti degli edifici e il mare che si perdeva all'orizzonte. Quella notte non avevo chiuso occhio.
Ero rimasto a fissare il soffitto della stanza degli ospiti per tutta la notte. Mi sentivo in colpa. Se non avessi parlato, tutto questo non sarebbe successo. Ma chi volevo prendere in giro? Sarebbe successo ugualmente. Era solo questione di tempo. Avevo solo accelerato le cose.
Marta non mi amava più. Non mi amava da un pezzo. Le avevo lasciato i suoi spazi, l'avevo viziata e comprato di tutto, persino una villa a un isolato dalla nostra. Cominciavo a credere che in realtà non mi avesse mai amato. Forse stava con me per i soldi, ma non volevo crederci o forse non volevo ammetterlo. Evitavo quel tipo di donne e lei non mi era mai sembrata una del genere.
Scacciai via il pensiero. Era tutta colpa mia. Forse era diventato troppo geloso e mi ero comportato male, non lo so. Ma dovevo farmi perdonare, anche se non sapevo come. Una parte di me non voleva e mi diceva che era solo un'ingrata e di piantarla su due piedi.
Giovanni bussò e aprì la porta. - Lauriano è qui.
- Arrivo.
- Tutto bene?
- Si, ho solo mal di testa.
- Posso occuparmene io, se vuoi. Dobbiamo solo aggiornarlo sugli andamenti di mercato. Posso farlo da solo.
- Grazie, ma non serve. Arrivo tra un momento.
Giovanni chiuse la porta e andò via.
Mi massaggiai le tempie per un momento. Presi la bottiglia di liquore dal cassetto della scrivania, mi versai tre dita di scotch nel bicchiere e me lo scolai.


 

Quando otto ore dopo uscii dal mio ufficio, fuori si gelava. Erano le sei e mezza e non avevo voglia di tornare a casa. Mi guardai intorno. Auto e persone mi ronzavano attorno come mosche.
Un senzatetto spingeva un carrello pieno di cianfrusaglie lungo il marciapiede. Un uomo in giacca e cravatta entrava in un Uber. Una donna controllava l'interno della sua borsetta Chanel che valeva più dei suoi vestiti.
Mi avviai verso il parcheggio all'aperto, dove avevo lasciato la mia Mercedes-Benz. Uno dei quattro lampioni lampeggiava e un altro era spento. Passai tra le auto e mi fermai davanti alla mia macchina in penombra. Appena inserii la chiave nella toppa, qualcuno mi colpii dietro la testa e crollai a terra. Una mano si infilò nel mio cappotto, frugò velocemente in ogni tasca.
- Se urli, ti sparo in faccia, capito!? Ti sparo in faccia, cazzo! - disse una voce rauca. - Non scherzo, amico, non scherzo!
Avevo la vista sgranata e non riuscivo a mettere a fuoco la sua faccia. Allungai una mano per fermarlo, ma lui mi colpì in fronte con il calcio della pistola e persi i sensi.
Quando mi svegliai, avevo un mal di testa assurdo. Era come se un treno mi avesse travolto in pieno. Mi alzai a fatica e mi appoggiai al lampione spento.
La mia auto era sparita.


 

Tornai a casa in metro e andai dritto nella camera degli ospiti. Non sapevo per quanto tempo fossi rimasto privo di sensi e non m'interessava. E non avevo nemmeno voglia di farmi una doccia. Volevo solo dormire.
Sognai di essere rapinato di nuovo, solo che questa volta il rapinatore mi sparava e rideva. Rideva a crepapelle. Una risatina isterica. Mi tormentava. Non smetteva.
Mi svegliai, andai in bagno a urinare, tirai lo sciacquone, tornai a letto e mi addormentai. Feci di nuovo lo stesso sogno per ben due volte, poi restai a fissare il vuoto per un momento e mi addormentai. Ero solo in un parcheggio buio e una risata isterica ronzava attorno a me.
Mi svegliai mezz'ora prima della sveglia e andai a farmi una doccia. Mentre l'acqua calda rivolava giù dal mio viso, mi sentivo solo. Era una sensazione che in passato avevo cercato di eliminare. Non con altra gente, ma cacciandola via. E ora facevo la stessa cosa. Cercavo di farla a pezzi con la razionalità, ma non funzionava. Così spensi le emozioni e mi arresi all'apatia.


 

Mentre ero in cucina a fare colazione con latte e cereali, bussarono alla porta e andai ad aprire. Erano due poliziotti che mi squadrarono dalla testa ai piedi.
- Il signor Marco Ricci? - chiese quello più alto.
- Sì, sono io. Cosa c'è?
- Abbiamo trovato la sua auto. È stata adoperata per una rapina a un negozio di liquori.
- Immagino sia lo stesso tizio che mi ha rapinato ieri sera nel parcheggio?
I due poliziotti si scambiarono uno sguardo.
- Ha esporto denuncia? - domandò quello robusto.
- No.
- Vuole farlo adesso? La portiamo in centrale per il riconoscimento e...
- Non ricordo la sua faccia. Non riuscivo a vederlo. Mi ha colpito dietro la testa e vedevo tutto sfocato. È stato tutto così veloce.
- Cosa succede? - chiese Marta alle mie spalle. Indossava una vestaglia da notte viola scuro ed era bellissima anche con il viso intronato di sonno. Mio Dio quanto l'amavo.
- Niente. Torna dentro - risposi.
Lei non si mosse.
- Se vuole riavere la sua auto, dovrà venire in centrale a firmare alcuni moduli - disse il poliziotto alto. - E una volta lì, potrà dare un'occhiata ai sospettati. Magari è lo stesso uomo che ti ha rapinato.
Non ci volevo andare. Non era la prima volta che subivo una rapina, ma dovevo andarci. - Va bene. Tra un'ora sarò da voi.
- Buona giornata - dissero entrambi i poliziotti.
- Altrettanto. - Chiusi la porta.
- Perché devi andare alla centrale? - chiese Marta, turbata.
- Ieri sera mi hanno rapinato e rubato l'auto.
Lei fissò la mia ferita alla tempia con fare preoccupato, poi mi controllò quella dietro la testa. - Perché non mi hai detto niente?
Non le risposi e me ne andai in cucina.
Marta mi seguì. - Allora? Parlo con te. Sono tua moglie! Certo cose me le devi dire! Sei stato rapinato e tu non mi dici niente! Potevi morire, Marco!
Mi sedetti al tavolo a mangiare i cereali con lo sguardo perso nel vuoto. Aveva ragione, potevo morire. Peccato che non gliene fregava niente di me. Stavamo divorziando e lei amava sicuramente il tizio della palestra.

Lei mi fissò per un momento, poi mi lasciò da solo.

 

Un'ora e mezza dopo ero in centrale. I due poliziotti mi accompagnarono in una stanza in cui c'era uno specchio unidirezionale. C'erano sette uomini nella camera adiacente. Due erano ubriachi fradici e gli altri cinque avevano brutte facce e gli occhi iniettati di odio.
- Faccia con calma - disse il poliziotto alto.
Scrutai i sospettati per un pezzo. Più li guardavo, più mi sembravano tutti uguali. - Non lo so... Non ricordo il suo viso.
Il poliziotto robusto premette il bottone dell'interfono. - Leggete quello che c'è scritto sul foglietto che vi hanno dato.
I sospettati si guardarono tra loro, poi il primo da sinistra lesse la frase a voce alta.
Quando toccò al quinto, riconobbi la voce rauca. - È lui!
I poliziotti si scambiarono un'occhiata.
- È sicuro? - domandò il poliziotto alto.
- Sì, sicuro. È lui. Mi ricordo perfettamente la sua voce.


 

Mezz'ora dopo ero fuori dalla centrale a bordo della mia Mercedes-Benz. Aprii il portaoggetti e trovai tutto al suo posto. L'unica differenza era la chiazza di birra sul sedile passeggero. Ma non mi importava.
Guidai verso il mio ufficio.
Ero depresso. Non mi sentivo così da schifo da molto tempo e tutto stava andando a puttane. Persino a lavoro le cose non andavano bene. L'azienda aveva perso il quarantasette percento dei clienti e le quotazioni in borsa erano calate drasticamente. Presto ci sarebbero stati tagli al personale.
Il fatto che fossi uno dei più produttivi e dei più pagati, non mi avrebbe salvato dal cappio. Mi avrebbero tagliato fuori come tutti gli altri. Era già successo con Michele Agnelli, che era stato uno dei pilastri dell'azienda per più di venti anni. Lo avevano licenziato un anno fa, senza troppi complimenti.
Io avrei fatto la stessa fine.
Quando parcheggiai e uscii dall'auto, squillò il cellulare. - Pronto?
- Dove sei? - chiese Marta.
- Sto andando in ufficio.
- Stai bene?
- Volevi qualcosa?
Lei restò in silenzio per un attimo. - Perché non mi hai detto niente di ieri sera?
- Ho appena incontrato un cliente. Devo andare.
Marta aveva già riagganciato a metà frase.

 

In ufficio si respirava un'aria pesante. Tutti sapevano che sulle nostre teste aleggiava la scure del licenziamento. Nessuno voleva perdere il lavoro, perché tutti avevano lavorato duramente per essere lì.
Giovanni entrò nel mio ufficio con il viso arrossato dalla rabbia. - Mi hanno licenziato.
- Mi dispiace.
- Sono qui da dodici anni! Ho portato il trenta percento dei clienti e loro mi buttano fuori a calci in culo come se niente fosse! Dodici anni, Marco! Dodici anni, cazzo!
- Ehi, respira. Vuoi uno scotch?
- Fanculo lo scotch! Sono incazzato nero! Quegli stronzi mi hanno trattato come l'ultimo arrivato! Ho fatto fare a questa azienda una barca di soldi e questo è il loro ringraziamento. Un calcio in culo! E arrivederci e grazie!
Mi alzai, presi la bottiglia di scotch dal cassetto e mi riempii il bicchierino. - A breve toccherà a me.
- No, tu sei un pezzo grosso, qui. Se licenziano te, tanto vale chiudere tutto.
Bevvi un lungo sorso. - Forse è quello che faranno.
La mia segretaria bussò sulla porta aperta. - Signor Ricci, il signor Romano vuole vederla.
Guardai Giovanni. - Visto? Mi aspettano al patibolo. - Mandai giù lo scotch tutto d'un fiato e lasciai l'ufficio.


 

Quella sera restai in macchina con lo sguardo fisso nel vuoto per un'ora. Il lampione lampeggiava poco più avanti. Un auto usciva dal parcheggio. Un gatto saltava giù da un cassonnetto.
Non avevo voglia di tornare a casa. Non avevo voglia di fare niente.
Mi avevano licenziato assieme al quaranta percento del personale. Forse era meglio così. Si sarebbero aperte nuove strade, o forse avrei avviato qualcosa di mio. Avevo trentasette anni e tutta la vita davanti. Ce l'avrei fatta.
Peccato che non credessi a una sola parola. Ero bravo a trovare le frasi giuste da dire agli altri, ma non a me stesso. Tutto mi sembrava vuoto e privo di significato. Non ero il tipo da piangersi addosso. Certo, alcune volte mi crogiolavo nella malinconia, nella tristezza, ma era un modo per connettermi a me stesso.
E ora me ne stavo seduto in auto a fissare il niente. Spostai lo sguardo nel punto in cui ero stato rapinato. C'era una pozzanghera che specchiava un lampione. Ogni tanto l'acqua si increspava per via del vento e tornava piatta poco dopo. Mi sentivo proprio come quella pozzanghera in balia di forze esterne.
Accesi il motore e lasciai il parcheggio.


 

Quando entrai in casa, Marta sedeva davanti al grande camino con il cellulare in mano. La legna crepitava, il fuoco scoppiettava. Mi avvicinai di soppiatto alle sue spalle per baciarle il collo, quando i miei occhi si posarono sullo schermo del suo cellulare e mi bloccai.
Lei ridacchiava mentre guardava la foto del suo istruttore nudo. Quella risata mi fece bollire il sangue e crollare allo stesso tempo. Restai lì a fissare i suoi capelli ramati, la sua testa muoversi, finché lei si alzò la maglietta, accese la fotocamera per fotografarsi il seno scoperto e spalancò gli occhi nel vedermi alle sue spalle attraverso il cellulare.
Riabbassò subito la maglietta e si voltò con gli occhi che sembravano le porte degli Inferi. - Che ci fai alle mie spalle? Mi stai spiando!?
La fissai per un attimo, poi me ne andai.
- Ehi! - gridò lei. - Parlo con te! Torna qui!
Salii al piano di sopra, entrai nella camera degli ospiti, chiusi a chiave la porta e mi buttai sul letto. Non ero deluso o arrabbiato. Non sentivo niente.
Un momento dopo Marta picchiò furiosamente sulla porta. - Marco, apri la porta! Marco! - Girò la maniglia più volte, bussò con forza per un pezzo, poi smise.
Restai a guardare il soffitto nel silenzio più totale. E mi piaceva.


 

L'indomani mattina scesi in cucina per fare colazione. Marta era in piscina. La guardai attraverso la porta-finestra mentre masticavo i cereali. L'avevo persa e non sapevo nemmeno perché. Era quello il pensiero che mi tormentava. Non era il fatto che ormai mi tradisse con il suo istruttore, ma che l'avessi persa. Non mi spiegavo il motivo. Le avevo dato tutto.
Era un pensiero che mi martellava la testa e non voleva saperne di uscire.
Lei entrò in cucina. Era bellissima come sempre. Il costume a due pezzi brasiliano le esaltava le forme. Non era una modella, ma una donna come tante, con un po' pancetta e il viso cupo e triste per via di un'infanzia difficile. Era una donna vissuta, una vera donna. Una di quelle speciali, che hanno bisogno di ridere, di credere nell'amore, anche se loro non ci credono del tutto. Una donna che incontri solo una volta nella vita, se sei fortunato. E che diventa poi il tuo senso della vita.
Mi lanciò uno sguardo strano, prese una bottiglietta d'acqua dal frigo e bevve un lungo sorso. - Cosa hai visto ieri sera?
Non risposi.
Lei si avvicinò a me. - Allora?
Mi alzai, posai coppa e cucchiaio nel lavabo e salii di sopra.
Marta mi seguì. - Non vuoi parlarmi? Vuoi questo? 
Mi voltai di colpo e lei finì quasi addosso a me. - Che senso ha parlare? E poi perché sei ancora qui? Perché non te ne vai, eh?! Che ci fai ancora qui?
- Cosa hai visto ieri sera?
Ci fissiamo negli occhi.
Perché volevo baciarla anche se ero arrabbiato con lei? Perché l'amavo ancora? Dovevo essere furioso, invece spronfodavo in quei occhi grigi. - Sai bene cosa ho visto.
- E cosa hai visto?
- Il tizio che ti scopi, ecco cosa ho visto.
Lei mi fissò con gli occhi arrossati dalle lacrime, poi se ne andò.


 

Due anni dopo avevo avviato una piccola compagnia assicurativa che andava abbastanza bene e mi ero sposato con Gloria Simonetti, un'amica di Giovanni e Alba Serra. L'amavo molto, ma non quanto amassi Marta. Per tutto quel tempo mi era rimasta in testa e spesso pensavo a lei. Mi chiedevo dove fosse, cosa facesse e se stesse ancora con quell'istruttore. Quando tornavo a casa in macchina, rallentavo per guardare dentro le grandi vetrate della palestra. Non la vedevo mai. Forse non ci andava più, o forse si era trasferita in un'altra palestra o città. Ma io continuavo a passare da quella strada tutti i giorni, a volte con mia moglie accanto che mi teneva per mano.
Ero un mostro. Lei mi amava e io pensavo a un'altra. Facevo schifo.


 

Un giorno avvistai l'istruttore che entrava in palestra. Parcheggiai, uscii dall'auto e mi avvicinai all'entrata. Marta non c'era. Fissai l'istruttore che parlava con un gruppo di donne, finché ne baciò una sulle labbra e si avviarono insieme verso gli attrezzi.
Quindi non stava più con Marta?
Mi tormentai per trovare il coraggio di parlargli, poi entrai in palestra e andai dritto da lui che pedalava sulla cyclette.
L'istruttore mi guardò, perplesso. - Posso aiutarti?
Ti sei scopato mia moglie, figlio di puttana! - Conosci Marta DeSantis, giusto?
Lui aggrotto la fronte, pensieroso. - Sì, perché?
Quindi non sapeva chi fossi, oppure fingeva? No, non lo sapeva. Magari non sapeva nemmeno che fosse stata sposata con me. - Non sento Marta da molto tempo e mi piacerebbe salutarla. Sapevo che veniva qui ad allenarsi, poi... poi l'ho persa di vista. Sai, ho cambiato cellulare e perso il suo numero.
L'istruttore smise di pedalare e abbassò lo sguardo per un attimo. - Marta è morta.
Sbiancai e mi appoggiai a un attrezzo, lo sguardo fisso nel vuoto. Era come se mi avessero pugnalato al petto. Faticavo a respirare e tutto sembrava farsi distante, lontano. L'istruttore disse qualcosa, ma io non sentii niente. Il mondo aveva smesso di esistere. La mia Marta, la mia bellissima Marta, la donna che amavo più di ogni altra cosa al mondo, non c'era più.
- Stai bene? - domandò l'istruttore.
Lo guardai. Anche lui era provato. I suoi occhi arrossati mi dicevano chiaramente che l'aveva amata.
- Quando... quando è successo? - chiesi.
- Un anno fa. Tornava in macchina quando ha avuto un colpo di sonno e si è schiantata contro un albero.
- È morta sul colpo?
- No, è morta tre giorni dopo per un'emorragia interna. - L'istruttore cercò di non piangere, di nascodere le lacrime, ma quelle scendevano copiose sul viso. - Un minuto prima parlava con me, stava bene, rideva e un attimo dopo non c'era più... Ancora adesso non mi spiego come sia successo. I dottori non mi hanno saputo dire niente. Hanno detto che può capitare, che... - L'istruttore si pulì le lacrime con un asciugamano.
L'aveva amata davvero e sicuramente Marta aveva provato la stessa cosa.
Abbassai gli occhi con un nausea insopportabile. Lo stomaco si contorceva, la bile saliva fino alla gola. Volevo vomitare.
- Tu eri un suo amico? - domandò l'istruttore. - Non mi...
Io ero suo marito e l'amo ancora! - Scusa, io... io devo andare. - Lasciai la palestra e vomitai bile sotto un albero tra gli sguardi disgustati dei passanti. Un bambino mi indicò con una risatina e la madre lo allontanò, nauseata.


 

Passai la serata in un tetro silenzio. Mia moglie mi parlava della sua giornata e io non la sentivo. La sua bocca si muoveva, i suoi occhi mi guardavano, ma la mia mente era altrove.
Ero con Marta.
Spostai lo sguardo verso il divano, dove una volta c'eravamo noi. Io che la prendevo in giro, mimavo i suoi gesti, la sua voce, i suoi movimenti. E lei che rideva e mi dava dello stupido. Amavo quella risata. Forse per questo l'ultima volta che l'avevo sentita ridere mi aveva dato fastidio, perché non rideva con me, ma con un altro. Rideva per un foto di nudo, per i messaggi. Rideva perché lo amava.
- Tesoro, va tutto bene? - Chiese Gloria.
- Sì, tutto bene.
- Sicuro? Mi sembri strano.
- No, è solo che... È stata una lunga giornata e sono stanco.
Lei mi guardò per un attimo, poi mi prese la mano e sorrise. - Sediamoci sul divano.
Ci sedemmo e lei accese la tv. Davano Braveheart.
- Amo questo film - disse lei. - L'avrò visto un centinaio di volte.
- Sì, è molto bello - risposi monotono.
Gloria posò la testa sul mio petto, mise la mia mano sul suo grembo e la strinse dolcemente.
Immaginavo Marta al suo posto, volevo disperatamente che fosse lei, ma il suo profumo era diverso, il suo balsamo al cocco per i capelli era diverso, persino il suo modo di respirare era diverso. Non potevo fare questo a Gloria. Mi sentivo incolpa. Lei mi amava davvero, ma era impossibile scacciare Marta dai miei pensieri. Era impossibile dimenticarla e non amarla più.
Marta era tutto per me e il mio tutto non c'era più.

   
 
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