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Autore: Puffardella    08/02/2023    0 recensioni
Roma, una delle città più belle del mondo. Roma Caput Mundi, città artistica e storica, che si affaccia sul mare e dove splende quasi sempre il sole. Ma Roma non è solo questo. Roma è anche la città delle borgate, nelle quali povertà e delinquenza hanno sempre camminato a braccetto. È in questo contesto che si muove il protagonista di questa storia: Fabio. Costretto fin da adolescente a prendersi cura di se stesso e di sua madre, Fabio non vede altre soluzioni che quella di delinquere. Diventerà ospite abitudinario delle carceri romane, ma è proprio qui che la sua vita avrà un’incredibile svolta grazie all’incontro con una persona eccezionale, che si dedicherà a lui come il padre che non ha mai avuto...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I tipi a cui mi aggregai per la rapina del secolo non erano gli stessi che mi avevano introdotto nel mondo della criminalità. Quelli, in confronto, erano dei poppanti. Questi, invece, erano dei professionisti, ultra pregiudicati, ben organizzati e decisamente più esperti.
Io, con i miei ventuno anni, ero il più giovane. Uno di loro andava per i quaranta, gli altri due li avevano superati da un po’.
Non so perché accettarono di farmi entrare nella banda. Avevano sentito parlare bene di me. Sapevano che ero uno di cui ci si poteva fidare e che, nel caso in cui le cose si fossero messe male e fossi stato beccato, non li avrei mai traditi. Inoltre erano a corto di uomini in quel momento, non è che avessero molte alternative.
Io, di questa “promozione”, ero onorato e preoccupato allo stesso tempo. Non si trattava più di spaventare un banchiere e qualche cliente con delle armi giocattolo. Questi, le armi, le preferivano vere e cariche. Quasi me la squagliai quando mi misero in mano una beretta 92FS.
Guardai il tipo che me la consegnò con sgomento e orrore, e quello sghignazzò strafottente: «Ehi, questo se la fa sotto a prenderla in mano, una pistola, figuriamoci se trova il coraggio di usarla…»
Il capo, allora, venne da me e mi sorrise benevolmente.
«Oh, tranquillo, mica le dobbiamo usare. Mai sparato a nessuno in vita mia, nemmeno ad una bestia. Ma non andiamo a rapinare un supermercato, e in una banca che si rispetti le armi da fuoco le sanno distinguere benissimo. Ed entrare in una banca con dei giocattoli significherebbe mandare a monte il piano. Hai capito?» Feci cenno di sì con la testa, ma non osai pronunciare parola. Ero troppo spaventato, dalla voce sarebbe trapelata la mia emozione e quelli mi avrebbero lasciato fuori dai giochi. Ed io avevo un disperato bisogno di soldi.
Avrei preferito restare fuori a fare il palo, ma il capo disse che non era un compito che si poteva affidare ad uno inesperto come me, e che sarei stato più utile all’interno della banca, a fare numero con la mia presenza.
Tutto si svolse con rapidità. È impressionante come sia facile fare irruzione in una banca al giorno d’oggi. Basta mostrare le armi e tutti collaborano. Del resto non ha senso fare gli eroi. Le banche sono assicurate contro le rapine. Inoltre, chi ci lavora sa benissimo che prima si conclude la rapina, meglio è per tutti.
Ma la guardia di sorveglianza che quel giorno era di turno non viaggiava sulla stessa lunghezza d’onda del resto dei dipendenti di quella dannata banca. Sebbene gli fosse stato ordinato di mettersi in ginocchio con le mani sulla testa, inizialmente ubbidì, per poi cambiare idea quando mi avvicinai a lui per disarmarlo. Impugnò la pistola, ma non fece in tempo ad usarla. Il capo, quello che non aveva mai sparato nemmeno ad una bestia, gli scaricò due colpi che lo colpirono sulla spalla e sul petto. E in breve tutto precipitò nel caos totale. La guardia mi cadde fra le braccia, tra le urla isteriche di donne terrorizzate. Io lo afferrai.
«Che cazzo hai fatto?» urlai angosciato al capo. L’altro afferrò le borse piene di contanti e strattonò il socio.
«Andiamo via, cazzo, saranno qui a momenti!» ci disse.
«Sbrigati, lascia andare quel pezzo di merda!» mi intimò il capo, dirigendosi verso l’uscio.
«Sta morendo dissanguato, Cristo! Tu sei il pezzo di merda!» gli urlai di rimando. Mi strappai il passamontagna dalla testa, e gridai al direttore di chiamare un’ambulanza, presto per la miseria!
«Ti sei bevuto il cervello?» digrignò il capo con ferocia, mentre l’altro continuava a gridare: «Via, cazzo, andiamocene da qui!»
«Sei fottuto, hai capito, moccioso? Fottuto!» mi minacciò.
«Vuoi spararmi, coglione? Fallo, non me ne frega niente. Ma io non mi renderò complice di un omicidio!»
Quello valutò un istante l’idea di farlo sul serio, poi la scartò e se ne fuggì via.
La guardia mi guardava con sgomento e terrore. Mi teneva così stretto da farmi male. Stava perdendo un mucchio di sangue.
«Chiamate un’ambulanza!» tornai a sbraitare, in preda allo shock. Non volevo finisse in quel modo, anche se ne avevo avuto il timore tutto il tempo. Non mi accorsi dell’arrivo dei polizotti. Me ne resi conto solo nel momento in cui mi strapparono con brutalità dalla guardia e mi fecero sdraiare prono sul pavimento, con le mani dietro la schiena, per infilarmi le manette.
Prima di portarmi via, il direttore volle parlarmi.
«Non sei ancora così irrecuperabile, ragazzo. Lascia perdere quella vita, non fa per te.»
Lo guardai con durezza. «Non ne conosco altra» sibilai con disprezzo.
«Metterò una buona parola per te. Tutti qui hanno visto che non sei stato tu a sparare, e che nemmeno avresti voluto che succedesse…» Non ebbi il tempo di ribattere nulla. Fui trascinato con rudezza fuori la banca dove fui investito da improperi di ogni tipo prima di essere spinto dentro l’Alfa Romeo e condotto via a sirene spiegate.

Per fortuna, la guardia imprudente si rimise in fretta.
Fu presto libero di uscire dall’ospedale, al contrario di me, che fui rinchiuso a Regina Coeli dopo aver subito un processo per direttissima.
Dovetti rassegnarmi all’idea di cancellare la parola libertà dal mio vocabolario per un sacco di tempo. Fui infatti condannato a sette anni di reclusione. La pena fu sostanzialmente alleggerita grazie alle testimonianze del direttore della banca e di tutti i presenti, i quali dichiararono la mia completa estraneità alla sparatoria e il mio immediato intervento di soccorso a favore della guardia ferita. E avrebbe potuto essere ancora più leggera, se solo avessi fatto i nomi dei miei colleghi. Cosa che non presi mai nemmeno in considerazione. Ladro sì, spione mai, e questo è un altro codice d’onore vigente fra i delinquenti vecchio stampo. Fra la maggior parte di loro, per lo meno.
Conobbi così la popolare e famigerata Regina Coeli. Se Rebibbia mi era sembrata una tortura inimitabile, dovetti ricredermi: c’era di peggio. Regina Coeli è un lager camuffato da centro di riabilitazione. Non ho mai capito perché ci si ostini a dare a certi luoghi definizioni così fuorvianti. Un carcere non riabilita nessuno. Il carcere ha l’unico scopo di brutalizzare e incattivire il detenuto, rendendolo, alla fine della sua obbligata permanenza in quel contenitore dimenticato da Dio e dagli uomini, più pericoloso di quanto non sia già al suo arrivo.
Fui alloggiato per pochi giorni nel settore “Nuovi giunti”, in attesa che venisse deciso il mio reparto di destinazione. Dopo quattro giorni fui trasferito alla sesta sezione, dove vengono rinchiusi i “giovani”, dai diciotto fino ai venticinque anni di età.
Ma restai poco anche lì, giusto il tempo di familiarizzare con i miei nuovi compagni. Il direttore del carcere, visto la natura della rapina cui avevo partecipato, pensò bene di darmi una lezione di vita e farmi saggiare un po’ di vero carcere, al piano terra, nell’ottava sezione, chiamata anche “sezione protetta”, dove di norma vengono messi i detenuti più pericolosi tenuti il più lontano possibile dagli altri carcerati.
Venni sistemato in una cella da quattro, che di fatto ne ospitava sei, squallida e maleodorante, due letti a castello a tre piani addossati alle pareti scrostate, proprio davanti alla finestra.
La cella era umida, un grappolo di scarafaggi banchettava indisturbato con gli avanzi del pranzo di chissà quale giorno. Mi sentii sopraffatto da un sentimento di sconforto. Ero sfibrato dagli ultimi eventi cui avevo preso parte mio malgrado, demoralizzato per i continui spostamenti, terrorizzato dalla cattiva fama che aveva quella parte del carcere, dove ero destinato a passare i miei prossimi sette anni di vita.
Cercai tuttavia di nascondere l’agitazione e assunsi un’aria da duro, disinteressandomi di tutto e di tutti. Dopo aver sistemato la mia roba nell’armadietto assegnatomi - anche se non avevo molto da sistemare, visto che mia madre si era rifiutata di venire e mio zio mi aveva portato appena un cambio di tutto - mi sdraiai sulla branda e lì rimasi giorni interi, a fissare il vuoto.

Invidio le mense nelle carceri dei film americani, quelle dove puntualmente i detenuti si azzuffano creando, se non altro, un diversivo di cui parlare per molti giorni, fino alla zuffa successiva e al nuovo motivo di chiacchiere. Oltre al fatto che recarsi in una mensa avrebbe consentito di mangiare comodamente e civilmente seduti ad un tavolo.
Non so nelle altre carceri italiane ma a Regina Coeli, come a Rebibbia, il pasto lo devi consumare nella tua cella, in piedi o seduto in branda, a causa del sovraffollamento. L’alternativa è fare a turno per mangiare seduti al tavolino, troppo piccolo per ospitare tutti insieme, ed era quello che i miei compagni di cella facevano.
Io, invece, preferivo mangiare in branda.  
Non avendo niente da fare, i giorni passavano con una lentezza esasperante. Le cose più dure da sopportare erano la mancanza assoluta di privacy e il doversi sciroppare le chiacchiere ad alta voce degli altri “ospiti” e la televisione a tutto volume. Questo creava spesso attriti e malumori.
Più di una volta ero quasi arrivato alle mani con uno dei miei compagni. Vittorio, questo era il suo nome. Si era beccato quindici anni per tentato omicidio e aggressione ai danni di un pubblico ufficiale. Un tipo fuori di testa, permaloso e litigioso. Capitava spesso che le guardie somministrassero sonniferi ai soggetti più agitati per farli dormire tranquilli. A lui raddoppiavano sempre la dose.
Non so per quale motivo mi avesse preso tanto in antipatia. Ero l’ultimo arrivato, quasi un bambino in confronto agli altri. Forse ai suoi occhi ero un bersaglio facile su cui sfogare la rabbia accumulata in anni di permanenza in quel posto degradato e degradante. O forse fu a causa delle voci che le guardie si divertivano a mettere in giro, per noia o per sadismo. Tutti sapevano del mio “ammutinamento”  durante la rapina, e sebbene non avessi fatto i nomi dei miei soci, ero agli occhi di quei malviventi comunque un traditore.
Qualsiasi fosse il motivo del suo odio, Vittorio detto Scirocco ce l’aveva con me. Faceva del tutto per provocarmi, a parole e a fatti. Mi spintonava senza motivo, alle mie spalle si divertiva a fare versi idioti, per non parlare degli insulti verbali e delle vessazioni varie.
Un giorno non potei sopportare oltre. Ero sdraiato sulla branda. La mia era quella in basso. Sapevo che mi stava fissando da minuti con un ghigno da fesso stampato sulle labbra, ma cercai di ignorarlo. Fino a quando non mi venne davanti e mi afferrò un polso.  Mi colse alla sprovvista e, prima di riuscire a capire cosa stesse succedendo, si portò la mia mano sul suo sesso.
«Sai dove te lo infilo questo, prima o poi?» mi disse sogghignando. Balzai in piedi, e come spesso mi accadeva quando venivo colto da uno dei miei accessi d’ira, non ragionai più, né ebbi coscienza di me e di come fossi arrivato a spaccargli la faccia in quel modo.
Tornai in me solo dopo che furono intervenute le guardie, le quali mi bloccarono con le braccia dietro la schiena, mi ammanettarono e mi portarono via.
In seguito venni a sapere che avevano portato Vittorio detto Scirocco in infermeria, per medicargli le ferite. Aveva il naso fratturato e gli erano saltati due denti.
Da quel giorno in poi mi stette alla larga.

Fu grazie a quell’episodio e al successivo cambio di cella che conobbi Geppetto, ed ebbi modo di stringere il legame più significativo di tutta la mia vita.
L’inizio non fu dei più promettenti, se devo essere sincero. Il giorno in cui mi presentai nella sua cella lo feci con timore reverenziale. Geppetto era uno dei pochi a essere rispettato e temuto da tutti, perfino dalle guardie. Nessuno sapeva bene chi fosse prima di diventare un carcerato, né perché fosse finito dentro. Perfino le guardie, che in genere si divertivano a divulgare ogni sorta di dicerie sui detenuti, tacevano riguardo a lui.
La sua era una cella da due, l’unica ad essere stata risparmiata dal sovraffollamento. Entrai quindi quasi in punta di piedi, e rimasi fermo sulla soglia con il respiro trattenuto e le mie poche cose fra le mani, a osservarlo.
Era seduto al tavolo, un libro aperto e gli occhialetti dalle piccole lenti rettangolari calati su un buffo naso, largo e dalla punta devastata da decine di sottili capillari. La sua figura mi fece venire in mente il Geppetto di Pinocchio. Per fortuna lo tenni per me, perché la prima cosa che mi disse fu un avvertimento. Mi guardò dal basso in alto, abbassò ulteriormente gli occhiali da vista per focalizzarmi meglio e si presentò, asciutto: «Sarà meglio chiarire subito: non amo storpiare i nomi o dare soprannomi idioti, né tollero che lo si faccia con me. Mi chiamo Antonio, e non desidero essere chiamato diversamente.»
Feci per aprire bocca, ma quello continuò, imperterrito:  «Non amo gli schiamazzi, la maleducazione, la sporcizia e gli scherzi di nessun genere, ancora meno che si usi un linguaggio scurrile. Sta’ al tuo posto e andremo d’accordo. Intesi?»
Lo fissai a lungo, con fastidio. Trovai il suo benvenuto di un’arroganza insopportabile, ma me lo tenni per me.
Annuii a denti stretti e pensai, con disprezzo: “Come no, Geppetto…”
   
 
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