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Autore: drisinil    19/02/2023    2 recensioni
#danzaclassica #partnership #pasdedeux
Avevo sette anni quando ho capito che siamo tutti, costantemente, appesi a un filo.
Per capire che il nostro fosse un filo solo, ho impiegato molto più tempo, perché i fili si ingarbugliano, si ritorcono, si inseguono su percorsi che creano illusioni e talvolta sembrano spezzarsi e procedere in parallelo solo perché la curva del raddoppio non si vede.

Negli ultimi tempi sto riflettendo sul concetto sportivo e artistico di "partnership" ossia la profonda condivisione degli spazi personali non orientata ai sentimenti. Sono riflessioni ancora immature, ma è un argomento che mi piace moltissimo.
Questa OS nasce nel contesto di una delle #reversechallenge del gruppo fb "Non solo Sherlock".
Il titolo e l'ambientazione mi sono stati offerti da @lolloshima, che ringrazio per le sue mille ispirazioni.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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APPESI A UN FILO
 

Avevo sette anni quando ho capito che siamo tutti, costantemente, appesi a un filo.
Per capire che il nostro fosse un filo solo, ho impiegato molto più tempo, perché i fili si ingarbugliano, si ritorcono, si inseguono su percorsi che creano illusioni e talvolta sembrano spezzarsi e procedere in parallelo solo perché la curva del raddoppio non si vede.

Immagina che ci sia un filo teso fra la tua testa e il cielo e che quel filo ti tiri su, in alto, molto più in alto.
Non era la prima volta che Madame lo diceva, sottolineato da un colpo di bastone sull’impiantito, ma fino ad allora non mi ero mai posta il problema del soffitto. In quel momento, invece, alzai lo sguardo e pensai che se esisteva quel filo, doveva passare attraverso il soffitto.
Mi ricordo che lo chiesi a te, perché eri l’unico a portata di un bisbiglio, e con quella domanda, in quel preciso momento, presi coscienza della tua esistenza.
“Come fa a passare per il soffitto?”
“Ci fa un buchino minuscolo, è sottilissimo e fortissimo.”
Lo è davvero.

E’ curioso che fino ad allora ti avessi ignorato. Conoscevo il tuo nome, il tuo viso e la tonalità di blu della tua maglietta, ma non avevo mai registrato veramente la tua presenza nel mio mondo: eri una macchia blu oltremare dall’altra parte della sbarra, che si accendeva sullo sfondo dello specchio, mentre cercavo affannosamente i miei difetti.
La prima cosa che ho capito guardandoti era che il tuo talento superava il mio.

Tre anni dopo hanno chiamato i nostri nomi ed entrambi abbiamo annuito e fatto un passo avanti, perché le parole di Madame non si discutono mai. Non ho memoria di cosa pensassi in quel momento, ricordo però che continuavo a guardare per terra finché i tuoi piedi, che sono sempre stati molto belli, sono comparsi nel mio campo visivo. Poi sono comparse le tue mani, che belle non sono mai state.

Escluse quelle di mia madre, le tue mani sono le prime che hanno conosciuto il mio corpo. Una conoscenza sperimentale, consensuale, necessaria, innocente e al contempo assolutamente intima, straordinariamente profonda. Una mappa precisa della mia sostanza fisica, dai punti dove soffro il solletico ai cunei di tutti i miei muscoli, gli assetti dei miei equilibri mutevoli nel tempo, i vuoti immaginari creati dalle mie paure.
A un’età in cui l’altro sesso è solo supposizioni e curiosità, le tue mani hanno plasmato il mio pudore, adattandolo alla loro forma. Dita ruvide, stanche, decise che imparavano a sostenermi, piegarmi, curvarmi. Sollevarmi non ancora, ma sapevo che ci stavi lavorando. E tendevi il mio filo fino al cielo.
Il tuo talento superava il mio.

Siete peculiari, diceva Madame quando ci guardava e cosa intendesse lo sapeva solo lei.
Siete come fratelli, diceva mia madre.
Lo ripeteva. E per convincermi che fosse vero, cercava di spingermi nel tuo mondo.
La mano liscia e abbronzata di tua madre che stringe quella pallida e screpolata della mia e le rivolge parole gentili e vuote, mentre sorride. Le mani svelte di domestiche sempre diverse che mi aprivano la porta di casa tua e mi sfilavano il cappotto.
“E’ meglio se stiamo da te” hai detto un giorno, mentre, sul tuo scendiletto, spingevi la mia schiena verso terra fra le gambe divericate.
Sapevo che avevi ragione, anche se non sapevo perché.

“Siamo come fratelli” ripetevo alle mie compagne di scuola, che volevano sapere come potessi sopravvivere all’imbarazzo di essere di continuo toccata da un maschio. Ridevano di noi.
Anche noi ridevamo di loro, perché non capivano. Nessuno avrebbe potuto.
Mi baciavi sulle labbra per dimostrarmi che non c’era niente di romantico fra noi. Ci credevo: finché possiamo baciarci e riderne, baciarci e non andare oltre, baciarci e non sentire dolore, vuol dire che è giusto così. E’ giusto se è naturale, ci ripeteva da sempre Madame, e doveva essere vero.

Litigavamo spesso, non sempre per davvero. Anche i nostri litigi avevano una dimensione intima e servivano a spingerci a vicenda entro i nostri rispettivi confini, perché li superavamo spesso, inciampando in quei baci dimostrativi, nella stanchezza condivisa, nel sonno riparatore addossati agli armadietti, nei corpi esposti uno all’altro senza segreti e senza barriere. Ti lasciavo pizzicare il mio filo e conoscevo la vibrazione del tuo, il cielo a cui erano agganciati sembrava vicino.

A quindici anni, ho iniziato a guardarti dall’alto, una visione delle tue spalle, delle tue braccia, della sommità del tuo capo, degli sguardi sfuggenti di intesa fra una presa e l’altra, una fouette e l’altra, un salto nel vuoto tra le tue braccia e un atterraggio impossibile, il mio filo teso annodato al tuo, aggrappato al cielo.
Il tuo talento superava il mio.
“Ehi, non ti ho detto una cosa importante: ho una ragazza” hai sussurrato, sfilandomi via dai polpacci due logori scaldamuscoli verdi, cinque minuti prima di entrare in scena.
“E’ una ballerina?”
Hai scosso la testa con una smorfia, come fosse una domanda molto stupida. Significava che non cambiava niente, salvo il fatto che con tre parole avevi creato per noi una nuova forma, ridefinito i nostri ruoli, aperto le nostre vite a nuove coreografie.
Altre mani sul mio corpo, non esperte quanto le tue, ma più voraci.
Altri odori nascosti nel tuo collo, sui tuoi vestiti, fra le pieghe delle tue dita e la stoffa.
Non mi baciavi più, ma mi andava bene, perché il mio filo restava ancorato al tuo, solo si era fatto più elastico, capace di tornare in una frazione di secondo nei ranghi da immense distanze. Mi illudevo di allontanarmi a piacere da te, con le mie relazioni sempre sbagliate; le tue di contro talmente giuste che non capivo mai perché le troncassi di netto all’improvviso. Anche nel vivere, il tuo talento superava il mio.

Madame chiuse gli occhi durante Il Don Chisciotte, seduta in terza fila. La sua tomba era bianca e fredda come lei. Ho scoperto lì davanti che era stata madre, e nonna, e un tempo era stata anche giovane. Tu queste cose le sapevi.
Hai sempre saputo più cose di me. Per esempio, sapevi che quella tomba bianca cambiava tutto.
Adesso lo so anch’io. Mamma sta guidando nel traffico, il mio orologio corre troppo veloce, i tuoi stupidi messaggi vocali mi ricordano, con la tua imitazione di Madame, che il ritardo è figlio della pigrizia. E di muovere il culo, perché ci tieni a salutarmi.
Sai una cosa? Io non ci tengo.

La macchina frena, l’aeroporto è immenso e gremito e io corro come se sapessi dove andare. Ho un enorme bagaglio di paure e sulle spalle solo uno zaino minuscolo quasi vuoto.
Il tuo talento supera sempre il mio ma farò in modo che nessuno lo scopra.
Stanotte ho sognato che ballavamo Petruška e io ero la ballerina burattino, tu il protagonista assoluto, con la testa di legno e il corpo di segatura.
“Che succede quando gli tagliano i fili?” ti ho chiesto la prima volta che siamo andati a vederlo a teatro, da bambini.
“O si affloscia, o si libera. Dipende”
“Da cosa?”
Hai alzato le spalle dubbioso, non lo sapevi.
Io oggi lo so. Che siamo appesi a un filo e che il filo è lo stesso.
Dipende da noi.
   
 
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