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Autore: Glenda    22/02/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sun naa in söe la löena dumà cun't i öcc

ho sparaa cuntra el teemp e ho desfàa i urelòcc

ho pregaa mìla voolt senza nà giò in genöcc

ho giraa cun't el smoking e a pee biùtt piee de piöcc…

 

M'è tucaa impara' che la röeda la gira

che ogni taant se stravàcca el büceer de la bìra

tra furtöena e scarogna gh'è una corda che tira

quaand el diàvul el pica el ciàpa la mira…

 

(Davide Van De Sfroos)

 

 

 

 

 

 

Capitolo 1

 

Da “Orazio” c'era silenzio solo quando trasmettevano le partite o le estrazioni del lotto. Ad Artin non interessava il calcio, ma al lotto giocava una volta al mese: forse qualche volta aveva sperato di vincere, ma ormai, in linea di massima, il suo era più che altro diventato un gesto scaramantico, quasi che non farlo significasse offendere la dea bendata e attirarsi addosso qualche sventura.

Come se non bastassero già.

A volte, si sentiva stupido… eppure, sotto lo schermo della TV, nella saletta del circolo, erano sempre in così tanti che non gli sembrava giusto tacciare di stupidità tutta quella gente che si sedeva accanto a lui e gli offriva risate complici e sigarette.

- Ci è andata buca di nuovo, eh, Artin? - Mario, con la lattina in mano, gli allungò una gomitata amichevole - vuoi un sorso? -

Il giovane sorrise

- Solo uno. - disse, e buttò giù tutto d’un fiato un’ingollata di birra di pessima qualità.

Non gli era mai piaciuta la birra. E non gli piaceva fumare.

Ma era una questione di riti: dividere quei gesti con gli altri – un bicchiere offerto, un tiro, una giocata – erano l’unica cosa che lo faceva sentire abbastanza forte da tirare avanti.

- Per scaldarsi il cuore, ci vorrebbe qualcosa di meglio di questa. -

- Dipende da quanta ne bevi! -

Gli arrivò una seconda pacca, più forte, stavolta sulla schiena. Chissà quanta ne aveva bevuta lui!

- Su con la vita! La prossima volta andrà meglio! -

Si alzò ridacchiando, e barcollò un po’.

Artin seguì la sua camminata ondeggiante, e pensò che forse avrebbe dovuto farlo anche lui: bere tutto ciò che poteva, bere fino a non capire più nulla, andarsene da quel bar, entrare in un locale, in una disco… e almeno per qualche ora non pensare a niente, non pensare più.

Ma il mondo era lì, presente ogni mattina, e ogni mattina si dovevano fare dei conti. Conti per far sopravvivere una famiglia di quattro persone di cui nessuna poteva contare su uno stipendio, conti con il lavoro che non si trovava, conti con le bollette, conti con la scuola dei fratelli, conti con una madre che stava morendo da anni, conti con la consapevolezza che le cose da aggiustare erano troppe, e, per quanto la si tirasse, la coperta era corta.

Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere un giorno tutto suo, in cui non dover fare più i conti con niente, in cui riposarsi un po': nascondersi sotto un grosso ombrello che lo riparasse dalle bastonate della vita. Invece, tutto ciò che poteva fare quando il bastone colpiva troppo forte era sedersi sull‘angolo di una strada, piangere per un po’, e poi saltare di nuovo in piedi e rimettersi alla ricerca di una chance di sopravvivenza – fosse un posto in un call center o l‘occasione della vita – sforzandosi di sorridere a tutti quelli che incontrava, perché era certo che quella fosse l'unica cosa che prima o poi gli sarebbe tornata indietro.

Sua madre gli aveva insegnato così, e lui, in trent’anni di vita, aveva sempre seguito quell'insegnamento: ma ora che lei non poteva più ripeterglielo, era diventato meno facile e meno automatico.

Non erano mai stati una famiglia serena; lei immigrata albanese, lui un poco di buono che non sapeva gestire i pochi soldi che guadagnava: avevano messo al mondo Artin per incidente, e cinque anni dopo, al secondo incidente, avevano finito con lo sposarsi. Lui ed Alba erano cresciuti vedendo il padre poco o niente, tra un soggiorno in galera e la volta che era scappato con tutti i risparmi per andare ad aprire un Bar alle Canarie con quel suo amico idiota. Quando era tornato con la coda tra le gambe, Artin si era quasi dispiaciuto, ed il senso di colpa per questo sentimento lo aveva fatto star male. Adesso, a ripensarci, malediceva il giorno in cui Giovanni Dorsi aveva rimesso piede a Firenze, anche se da quel ritorno erano nati Ana e Andrea. Non riusciva a capacitarsi di come si potessero mettere al mondo figli per rinsaldare una relazione e di come i suoi genitori lo avessero fatto ripetutamente: a volte si diceva che ognuno dei sui fratelli era l'occasione persa di sua madre per lasciare suo padre; odiava quel pensiero, ma nei momenti peggiori si insinuava nella sua mente tra una fessura e l'altra, facendo tabula rasa dei buoni propositi e dei sorrisi gratis.

Amava disperatamente sua madre, e lei li aveva ridotti così: lei che aveva desiderato Giovanni Dorsi sempre, irrazionalmente e nonostante tutto, lei che lo aveva tenuto nella loro vita, mettendolo, così, al centro di tutti i futuri possibili. Lei che, per causa sua, se ne stava andando un po’ ogni giorno.

Quella sera di tre anni prima, suo padre aveva bevuto come al solito, la stava riportando a casa da lavoro, ed aveva avuto uno scontro frontale con un'auto che viaggiava sulla corsia opposta: il conducente era morto sul colpo, e la moglie era finita così, in quella lunga non-vita che durava da allora.

Lui non si era fatto nulla.

Adesso era in carcere, e Artin non provava più senso di colpa nello sperare che quella fosse la volta buona in cui non sarebbe tornato.

A volte desiderava odiarlo, ma non ci riusciva. L'odio era un sentimento che in qualche modo non aveva imparato e certi giorni la trovava una cosa splendida, certi altri una cosa brutta.

Gridare, invece, era sempre una cosa bella, e lui lo faceva ogni volta che poteva: scendeva sulla pensilina pedonale del ponte all'Indiano, e lì buttava fuori tutta la sua voce, fino ad avere male al petto. L'Arno gli rispondeva con il suo gorgogliare placido, ed era come ascoltare il respiro calmo di un amico che accetta qualunque cosa tu dica.

Gridava senza pensare al sentimento che muoveva la sua bocca, ma solo all'atto stesso di gridare. Era il suono che contava, era l'intenzione: si poteva gridare di gioia, di rabbia o di dolore; non aveva importanza. La bellezza stava nel prestare attenzione esclusivamente a come la voce prendeva forma e rotolava giù dal ponte, in mezzo ai nodi del fiume, diventando schiuma e poi silenzio.

 

- Mi chiamo Artin Dorsi, vi ho portato il mio curriculum la settimana scorsa, mi avevate detto di ripassare oggi. -

La ragazza non lo guardò nemmeno in viso, digitò qualcosa su una tastiera, e nel giro di mezzo minuto lo liquidò con un sorriso di circostanza.

- Mi spiace, signor… - osservò il nome sullo schermo – Dorsi, ma il suo curriculum non soddisfa le nostre richieste. -

- Sono uno che impara in fretta. - insistette lui - Mi lasci fare almeno il corso di formazione. -

- Il corso è a numero chiuso. Vagliamo già in partenza i candidati. Cortesemente, ho del lavoro da fare… -

Da fuori della vetrina del punto vendita, si vedeva una parete coperta di vite americana, una colata di lava vivida sotto quel sole timido di primo autunno.

Artin sorrise affranto.

- Ha visto che bella? Lei sta seduta in una posizione molto fortunata, signorina. Guardi fuori, ogni tanto: tutto sembrerà un po' meglio di quello che è. -

La ragazza lo scrutò stordita.

- M-mi… scusi? -

Ma lui era già uscito.

C’erano altri tre luoghi in cui sperava di poter svolgere almeno un colloquio, e intendeva andarci, benché i due precedenti di quel giorno non avessero portato a niente e benché fossero mesi che non faceva altro senza risultato.

Il vento era freddo anche se il cielo limpido: per terra c'era già un primo strato di foglie morte. Sulla riva dell'Arno un bimbo giocava con una barchetta telecomandata: l'acqua ristagnava e il fiume sembrava fermo; sarebbe bastata un po' più di corrente e la barchetta sarebbe scivolata via. Sarebbe stata una barchetta libera e condannata a morte tra mulinelli troppo grandi per lei.

“Come una barca… ” mormorò a mezza voce “come una barca nella corrente” e anche in quel momento, cercò di non dar peso al dolore di quel pensiero, ma al suono leggero della sua voce che dava forma alle parole: contro tutto ciò che andava storto, non dare per scontata l’avventura del poter parlare, o camminare, o guardare, era una piccola forma di salvezza.

Il sole già calava: d’autunno, la sera veniva presto.

In mezz’ora di strada arrivò al magazzino di un grosso negozio di arredamento usato: era l‘ultimo tentativo della giornata. Quella zona della città non gli piaceva: c'erano solo ingrossi, magazzini, capannoni, tutti sovrastati dall'imponente insegna dell'Ikea. Non era bello passeggiarci a piedi, ma Artin non aveva una macchina e alla fine della giornata qualche biglietto dell'autobus risparmiato faceva la differenza. Andrea lo prendeva in giro: di norma, lui non comprava biglietti; diceva sempre che una società che permette che un uomo debba attraversare la città a piedi perché non ha abbastanza soldi neppure per pagarsi un autobus è una società sbagliata e quindi è giusto fotterla. In linea di principio, Artin non gli dava torto, ma la realtà era che non voleva trovarsi di fronte ad un controllore che gli facesse la multa: sapere di non poterla pagare lo faceva sentire un fallito.

L'ingresso del magazzino sembrava quasi l'entrata di un grosso hangar, e gli ci volle un po' prima che qualcuno si accorgesse dei sui cenni e venisse a dargli relazione.

- Buona sera. - si presentò - Sono Artin Dorsi, sono qui per un colloquio di lavoro. -

L’uomo sbuffò.

- Il responsabile non ha appuntamenti. -

- Ma sì, ci ho parlato al telefono. - cercò nelle tasche il cellulare - Ecco, vede? Ho anche un sms… mi ha detto che potevo passare oggi, dopo le cinque… -

Il tizio si stropicciò il mento.

- Aspetta. - disse.

Non lo invitò neppure a entrare e sparì all'interno: poco dopo al suo posto comparve un uomo robusto e sudaticcio, alto quasi due metri.

- Che vuoi? -

Per un momento Artin pensò che se quello avesse voluto avrebbe potuto spezzargli il collo con un solo schiaffo. Ma si fece forza e sfoderò la sua espressione più educata.

- Scusi se l’ho fatta scomodare. - gli parlò come se si rivolgesse ad un imprenditore importante che si è dimenticato di aggiustare il proprio look a causa del troppo daffare - Sono qui per il posto di magazziniere. -

L’altro lo guardò dall’alto in basso.

- Magazziniere? - scoppiò a ridere - Tu? -

- Sì… perché ride? -

Lo afferrò per le spalle e lo scrollò come un tappetino: Artin fu colto alla sprovvista, e quasi ruzzolò per terra.

- Ehi, dico, ma ti sei visto? Sembri uno stuzzicadenti: un colpo di vento ti butta giù! -

- Se mi permette, non mi giudichi dalle apparenze. Sono uno che lavora sodo. -

- Senti bello, un giorno di lavoro qui e ti portano via in ambulanza! -

Artin non si mosse: continuò a guardarlo con un rispetto incrollabile, mentre lui gli rideva in faccia.

- Signore… - non sapeva davvero più cosa fare, anche quel giorno gli pareva di aver esaurito tutta la sua energia, di essere arrivato sull’orlo della disperazione - La prego. Ho tre fratelli, se non lavoro non arriviamo alla fine del mese. Mi faccia fare qualcosa, qualsiasi cosa… -

- Se dovessi dar lavoro a tutti quelli che lo chiedono, starei fresco! Che cosa c'ho scritto, in faccia: “Caritas”? -

Il corpo robusto dell’uomo gli si fece incontro, costringendolo ad arretrare verso la porta. Poi, con uno spintone, lo sbatté fuori.

Il sole spariva lentamente dietro i tetti delle città: troppo radioso per quello schifo di giornata.

Mentre le ombre calavano sulla strada, Artin cominciava anche a sentire un gran freddo. Contò i soldi nel portafogli: altro che fine del mese! Era tanto se avevano di che fare la spesa per qualche giorno.

“… Come una barchetta nella corrente… ”

Tirò fuori un paio di monete: desiderava tanto fermarsi ad un bar e prendere un liquore da buttar giù in un fiato, ma al primo locale tirò oltre, ed anche al secondo, e al terzo, e al quarto, finché non si ritrovò sotto l'ingresso dell'ospedale. Ce lo portavano i piedi senza che ci pensasse.

Ogni volta che entrava in quel luogo, gli pareva di sentire freddo: gli succedeva anche d'estate, in pieno sole. Forse tutti gli edifici dei reparti, affacciandosi su una stessa strada che faceva da spartiacque, avevano creato una specie di corridoio di vento, ma Artin preferiva pensare che i luoghi fossero capaci di conservare residui di emozioni di chi ci aveva passato del tempo: immensi archivi non della memoria, ma delle sensazioni.

Quel freddo parlava di chi era stato lì prima di lui, era stato in ansia per un proprio caro, aveva lottato per la propria vita, aveva pianto una perdita, aveva sperato giorno dopo giorno che un miracolo cambiasse le carte in tavola scongiurando esiti inevitabili, o, più semplicemente, aveva condiviso il tempo con la propria paura, lasciandola esistere e dandole spazio. Lo strascico di tutte quelle vite gli suscitava un profondo senso di rispetto: lasciava passare quel brivido sulla sua pelle come la mano di uno spirito amico sulla spalla.

Entrò nel reparto e salutò con un cenno della mano la signora dell’accettazione, una donna grassoccia che gli aveva sempre fatto pensare a una cuoca, più che a un’infermiera. La sua rotondità era pacifica e terrestre e il suo accento del sud abbatteva le distanze.

- ‘Sera, signor Dorsi! Lei non manca mai, eh? -

Il ragazzo le andò incontro, e posò una caramella sul bancone.

Sapeva che la signora Curiello aveva una passione per le gelatine di frutta, e gli piaceva molto il modo in cui sorrideva quando lui gliene portava una: le sue gote si riempivano di fossette e gli occhi si strizzavano fino a scomparire, era una faccia che non rideva solo con la bocca, rideva con ogni più piccolo angolo di pelle.

- Artin, lei è sempre così gentile! E’ davvero un peccato che a uno come lei… -

Il ragazzo le fece cenno di non continuare.

- Così vanno le cose, – cantilenò con voce piana - qua c’è tanta gente che sta male come me… -

- E’ vero, – gli rispose - ma non c’è nessuno che meriterebbe quanto lei di stare meglio! -

 

Marta Curiello lavorava in ospedale da molti anni e, un po' per presa di posizione un po' per abitudine a stare a contatto con la sofferenza, non si era mai affezionata ad un paziente. Invece, per qualche strana via, aveva finito per affezionarsi ad Artin. Era in servizio lì già al tempo dell’incidente, e da allora si erano visti infinite volte. All’inizio, lui andava all’ospedale tutti i giorni, negli ultimi tempi aveva cominciato a passare solo un paio di volte alla settimana, ma non se ne dimenticava mai, e stava là, vicino al letto di sua madre, a parlare anche per ore. Lei non aveva mai visto una costanza del genere: di solito, in casi come quelli, quando i mesi, e poi gli anni cominciavano a passare senza segni di miglioramento, i parenti cedevano. I più per rassegnazione, perché la vita va avanti, e via dicendo; altri perché l’accumulo di dolore diventava insostenibile e finiva per abbatterli. Questi ultimi spesso cambiavano nel tempo i tratti stessi del loro viso: sbiadivano. Poi, piano piano, smettevano di venire, e lei non sapeva più nulla di loro. Solo un paio di volte aveva visto qualcuno dire addio al proprio caro prima di averlo detto alla speranza, ed erano state due madri. Una giovanissima, con un bambino di cinque anni, una già anziana, il cui figlio aveva avuto un incidente sul lavoro. Ma il loro tempo lì era stato comunque relativamente breve.

I casi come quelli della madre di Artin erano pochi: i pazienti in quello stato che non si svegliavano nell'arco di qualche mese, spesso se ne andavano nel giro di pochi altri. Eneda era senza dubbio la paziente che si trovava lì da più tempo: quasi cinque anni senza nessun cambiamento. Coma vegetativo, dicevano i medici, ma quelle terminologie erano etichette vuote, non volevano dire niente: non volevano dire né morte, né vita, ma nemmeno pronostico di morte o pronostico di vita. E i parenti stavano lì, sospesi in quell'incertezza, tra la vaga speranza di poter far qualcosa con la loro presenza, i sensi di colpa per non poterci essere sempre, il tempo portato via alla propria vita per una vita che forse era finita da un pezzo… No, davvero non era il caso di affezionarsi alle vicissitudini di questa gente, se si voleva lavorare con serenità.

Ma Artin era diverso. Lui, in tutti quegli anni, non era sbiadito nemmeno un po'.

E poi c'era il suo sorriso: tutte le volte, senza eccezione, lui entrava là dentro sorridendo, poi andava a sedersi al capezzale di sua madre, e sorrideva per tutto il tempo.

Marta ne era stupefatta e profondamente affascinata.

 

Il corridoio dell’ultimo piano era sempre vuoto: anche gli infermieri passavano di rado, quella gente sembrava “depositata” lì, in attesa di morire. Artin conosceva sempre i nomi di tutti, ad ogni stanza si fermava a salutare, a raccontare qualcosa della sua giornata. Quando trovava i letti vuoti, quasi sempre piangeva, e se non ci riusciva si sforzava di farlo. Una lacrima per ogni nome: gli sembrava giusto. Del resto, un residuo di loro sarebbe rimasto lì, gli avrebbe ricambiato quel gesto d'attenzione la prossima volta che fosse venuto: lo spirito amico che ti batte sulla spalla.

In quel luogo, tutto era un’anticamera della fine.

Persino le luci sembravano voler dire la stessa cosa: erano poche e basse… a quell’altezza il sole poteva bastare, perché sprecare energia per gente che non può vedere? Artin teneva sul comodino di sua madre una lampada colorata: voleva farle ricordare che nel mondo fuori gli uomini avevano scoperto il modo di illuminare la notte, e questo poteva essere almeno un buon motivo per rimanerci un altro po’.

Quella sera, come tante, aprì le finestre, lasciò entrare l’aria fresca, e poi si sedette sul bordo del letto e si mise a raccontare.

Di fronte al dolore senza voce, parlare era un atto di bellezza.

 

 

  
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